venerdì 25 gennaio 2013

25 Gennaio 1983
Giangiacomo Ciaccio Montalto 42 anni, magistrato

"Quello vede nemici dappertutto ", dicevano di lui i soliti bene informati che non perdevano occasione per spiarne le mosse, intuirne i disegni, prevederne le decisioni. Gian Giacomo Ciaccio Montalto: ecco, a dispetto di tutte le apparenze, le maldicenze interessate, le miserabili leggende sul suo conto, un'altra bella figura di magistrato zelante, coerente, coraggioso fino alla morte. È un'altra personalità forte che incontriamo ripercorrendo il lungo cammino di questi anni di sangue. Un altro giudice che per anni visse avvertendo in maniera quasi palpabile tutta la sua " solitudine ", e che fino all'ultimo di questa maledetta condizione dimostrò di infischiarsene. Giudice antimafia a Trapani, per certi versi una professione ancora più difficile che a Palermo.Trapani è una piccola città, e fra le città siciliane più improduttive; eppure i forzieri delle sue banche sono stracolmi di danaro. Si è meritata la definizione di Lugano del sud: nel1988, soltanto negli istituti di credito privati, erano custoditi millecinquecento miliardi di depositi, il cinquanta per cento in più di Catania. Livelli di vita altissimi, boutiques da far invidia a Milano, una flottiglia da diporto paragonabile a quella della Costa Smeralda. Un terziario diffuso, uguale a quello di tanti altri capoluoghi meridionali, non spiega per nulla l'impetuoso successo di quest'Eldorado un po' pacchiano, giustificato solo in piccola parte da una speculazione edilizia che non ebbe certo le dimensioni conosciute a Palermo o Catania. Eppure Trapani ha sempre vissuto così, nuotando nell'abbondanza. Come? Ricorrendo a quali fonti nascoste di sostentamento?Esattamente gli stessi interrogativi che si era posto Ciaccio Montalto venendo a Trapani nel '71. Per dodici lunghi anni cercò risposte esclusivamente nelle sue indagini, nei suoi processi, nei suoi dossier. Indossò quasi un'armatura, ancor prima che una divisa, pur di resistere alle tentazioni accattivanti di questa sirena dai mille volti e dai mille misteri e dove mai nessuna storia giudiziaria, neanche un piccolo scandalo, è stato chiarito fino in fondo. L'armatura consisteva nel suo rinchiudersi all'interno di un'esistenza scandita esclusivamente da casa e lavoro. Dicevano che Ciaccio Montalto avesse un brutto carattere. Sicuramente era un giudice di poche parole, che si faceva vedere raramente in giro e che evitava - per sua precisa scelta - una mondanità salottiera provinciale e rampante. Amava le buone letture, era un grande esperto di musica sinfonica. I pochi trapanesi che ebbero l'onore di frequentarlo, qualche collega, qualche avvocato, lo ricordano di fronte al televisore a rispondere ai quesiti di Mike Bongiorno battendo regolarmente sul tempo Massimo Inardi, il fenomeno di " Rischiatutto ".Montalto fino al 1982 visse in compagnia della moglie, Marisa La Torre, trapanese, laureata in lettere, anche lei amante di musica classica, e delle sue tre figlie, Marena, Elena e Silvia. Abitavano tutti in un antico palazzo liberty, stracolmo di libri, porcellane, mobili d'epoca. Era qui, fra grandi saloni, salotti ottocenteschi, spartiti di Bach e di Beethoven, che il magistrato preferiva trovare conforto al termine di giornate lavorative ricche di sorprese via via sempre più amare. Un bell'uomo, amante del mare e della vita all'aria aperta, che appena poteva prendeva il largo a bordo del suo " Lighea ", - uno swan di dodici metri - con il quale batteva spesso la rotta delle isole Egadi e una volta si spinse fino in Turchia. Ma questo giudice, che con le sue inchieste per dodici anni aveva rivoltato come inguanto tutti gli ambienti della Trapani bene, era trapanese soltanto a metà. Nato a Milano, quarantadue anni prima, si era laureato a Roma e appena vinto il concorso per l'ingresso in magistratura aveva scelto Trapani. Suo padre, Enrico, era magistrato di Cassazione. Suo nonno, per parte di madre, era stato il notaio Giacomo Montalto, che alla fine dell'800 si era ritrovato dalla parte dei contadini nei fasci siciliani e sarebbe poi diventato sindaco socialista di Erice. Enrico, il fratello di GianGiacomo, morto a ventidue anni in un incidente stradale, era stato un giovane dirigente comunista che aveva partecipato nel trapanese alle lotte bracciantili del dopoguerra. Con un antenato socialista, un fratello comunista, il giudice che prediligeva soprattutto Bach, non poteva riscuotere grandi simpatie in ambienti imprenditoriali, politici e anche mafiosi accomunati dalla sensazione che fosse un persecutore, legato ad ambienti cittadini di sinistra e perciò tutt'altro che " imparziale ". Iniziò a cercarsi i suoi guai nella prima metà degli anni '70, firmando una ventina di ordini di cattura per truffa e falso ideologico e portando alla sbarra i funzionari della Banca Industriale coinvolti in una gestione molto discussa. Gli andò male: gli imputati, condannati in primo grado a pene severe, vennero assolti a Palermo in appello. Ricordate lo scandalo per la mancata ricostruzione del Belice terremotato (centinaia di miliardi andati in fumo) che spinse il presidente Pertini a chiamare duramente in causa la classe politica e i pubblici poteri? Bene. Nel 1976, Moltalto, raccogliendo la circostanziata denuncia di "don" Riboldi, all'epoca parroco di Santa Ninfa, mise sott'accusa una ventina di alti funzionari dello stato, compreso il provveditore per le opere pubbliche di Palermo. Anche questa volta gli andò male: sei mesi dopo la Procura Generale di Palermo avocò l'inchiesta. Si occupò anche di sofisticazione vinicola, fenomeno diffusissimo nel trapanese: nell'80 gli uomini della squadra mobile di Trapani, per sua iniziativa, sequestrarono un intero convoglio ferroviario carico di zucchero.

Non lasciava in pace nemmeno i personaggi politici più in vista. Incriminò ben tre ex sindaci democristiani, il segretario regionale del partito liberale, Francesco Braschi, un assessore DC, Michele Megale, il presidente del Pri trapanese, Francesco Grimaldi, coinvolti tutti in storie di ordinaria cattiva amministrazione. Povero Gian Giacomo Ciaccio Montalto: gli imputati di lusso che voleva portare sul banco degli imputati o venivano rimessi in libertà o prosciolti o finivano per essere amnistiati. Otteneva così soltanto un risultato: nuovi nemici, in una città piccola piccola dove non c'è cosa peggiore che farsi la fama di persecutore, per giunta introverso, per giunta "straniero". Lui incassava con signorilità, sapendo che Trapani, tutt'altro che estranea al regolamento di conti fra le cosche, esprimeva una mafia feroce ipersensibile ai mutamenti di equilibrio all'interno del palazzo. Mise sotto torchio il clan dei Minore, alleati organici dei corleonesi, e coinvolti nelle peggiori pagine di cronaca nera: dal finto sequestro dell'industriale Rodittis al sequestro di Luigi Corleo, due " sgarbi "messi a segno da gruppi di delinquenti comuni che pagarono duramente subendo poi una vera e propria decimazione per mano di mafia. Le indagini sui Minore costituirono il comune denominatore di tante indagini, grandi e piccole, di Ciaccio Montalto. Un precedente che da un'idea della sua tenacia investigativa: aveva fatto riesumare il cadavere di Giovanni Minore, morto d'infarto, perché nutriva seri dubbi sulle reali cause del decesso: la perizia aggiunse dubbi su dubbi. Si disse a Trapani che la famiglia Minore aveva considerato blasfemo il comportamento del magistrato. Montalto, ancora una volta, nonostante gli insuccessi tenne duro e continuò ad indagare su questo gruppo: nel '79, Antonio Minore, detto " Totò ", fu costretto a fuggire inseguito da un paio di mandati di cattura firmati dall'ufficio istruzione su richiesta di Ciaccio Montalto. Da allora è latitante e viene ormai considerato come uno dei massimi rappresentanti della mafia trapanese, un boss che per anni aveva vissuto indisturbato frequentando - se necessario - proprio i politici più in vista. Di queste storie se ne potrebbero raccontare tante, perché numerosissime furono - in dodici anni di attività - le occasioni in cui il giudice non si fece scrupoli reverenziali al momento di ricercare la verità. Anche lui, come i giudici istruttori di Palermo, Chinnici, Falcone e Borsellino, si segnalò per un'immediata applicazione della legge La Torre. Fin troppo ovvio che la sua inchiesta sui trentanove soggetti della nuova mafia trapanese si fosse infranta, altrettanto tempestivamente, nello scoglio delle trentanove scarcerazioni per mancanza di indizi. Era un magistrato colto e preparato. Non legato a gruppi o personaggi locali. Geloso della sua autonomia. Immerso in una realtà che da decenni produce scandali, misteri, traffici illeciti di ogni tipo. Eppure le sue indagini scrupolose e ponderate, a dispetto dei pettegolezzi di corridoio, nascevano sotto una cattiva stella. Cozzavano contro uno strano muro invisibile, fatto di alleanze sotterranee fra potenti di ogni risma. Negli ultimi tempi Gian Giacomo Ciaccio Montalto appariva stanco. Saremmo tentati di dire - se non si corresse il rischio di far torto alla sua proverbiale tenacia - che si era stufato. Stufato dei suoi colleghi, molto spesso sotto tono rispetto ad un nemico rapidissimo nel prendere le sue decisioni. Sconcertato per il comportamento di un magistrato, Antonio Costa, che aveva accettato centocinquantamilioni dai Minore per ammorbidire le sue richieste investe di pubblico ministero proprio nel processo che vedeva i Minore alla sbarra. Che lite furibonda fra i due, il giorno che Ciaccio Montalto scoprì la pastetta. Almeno in questa occasione (anche se a futura memoria) ebbe ragione: Costa venne messo in galera per corruzione e perfino detenzione abusiva di armi. Circondato da ostilità, odi, disprezzo, Ciaccio Montalto, all'inizio degli anni '80, presentò domanda di trasferimento a Firenze. Il giudice era in ottimi rapporti con Pierluigi Vigna e Rosario Minna, impegnati in delicate indagini antimafia nell'ufficio istruzione del capoluogo toscano. E a Firenze, ormai da tempo, si era stabilita una vera e propria colonia di mafiosi siciliani (parecchi i trapanesi) spesso mandati lì al soggiorno obbligato e che a tutto pensavano tranne che a starsene buoni buoni: nel settembre'82 in un calzaturificio di Firenze erano saltati fuori -per far solo un esempio - ottanta chili d'eroina. Nascosti in scatole di scarpe erano destinati al mercato di New York.

Nell'ottobre '82, Montalto fu ospite a TG2 dossier. Lo intervistò il giornalista Fausto Spegni. Quella di alcuni giudici siciliani antimafia non rischiava di diventare una "guerra privata" contro i clan più in vista?Montalto rispose: "... finisce per apparire una guerra privata...in realtà è una guerra pubblica. Ma siccome siamo in pochi, pochi che ce ne possiamo occupare, pochi che abbiamo determinate conoscenze, la cosiddetta memoria storica, e privi di determinati mezzi, va a finire che le nostre conoscenze... finiscono col diventare un patrimonio personale.... Tutto ciò finisce per individualizzare la lotta al fenomeno mafioso". Sociologia giudiziaria?Protagonismo, come si direbbe oggi? E allora ascoltiamo quest'altra risposta ad una domanda specifica del giornalista sul riciclaggio: " Le indagini bancarie le facciamo sempre, quantomeno iniziamo sempre a farle. Solo che l'indagine bancaria è un'indagine tecnicamente difficile e molto lunga. In un'indagine occorrerebbe necessariamente memorizzare i dati perché quel singolo dato che emerge in un'indagine al momento può non essere significativo, ma diventarlo domani. E comunque il canale di riciclaggio passa necessariamente attraverso le banche di cui il trapanese è pieno ". E, come se il povero Montalto non si fosse già fatto abbastanza nemici in quel di Trapani, rincarò ancora di più la dose: "dai dati ufficiali sappiamo che in provincia di Trapani ci sono più banche che a Milano".Andò incontro alla morte da solo, come aveva vissuto sul lavoro per dodici lunghi anni, da quando fresco di laurea era venuto a Trapani. Considerando imminente il suo trasferimento a Firenze si era sfogato con una persona affezionata: " Me ne vado da questa città senza rimpianti, non lascio un solo amico". Quanti ne avrebbe trovati - se solo l'avesse voluto - in quei salotti che per tanto tempo gli avevano fatto la corte prima di indispettirsi per i suoi rifiuti! Quando invece si allontanava momentaneamente da Trapani per viaggi di lavoro in Alta Italia, Montalto si incontrava con il giudice Carlo Palermo che stava già indagando su mafia, droga, armi e - guarda caso - entrambi concordavano sull'importanza della pista trapanese. Meglio cambiare aria, andare a Firenze e seguir da vicino le mosse dei signori della droga. Aveva detto Dalla Chiesa nell'intervista a Bocca: " La mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana". Ma anche: " Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può ucciderlo perché è isolato". Se condividiamo la doppia intuizione del prefetto di Palermo possiamo senz'altro dire che l'uccisione di Ciaccio Montalto rientrava alla perfezione in questo schema. La mafia aveva " misurato" per dodici anni questo giudice ed era giunta alla conclusione che ne potevano venire solo dispiaceri. Era diventato troppo pericoloso ma nello stesso tempo sempre più isolato. I ragionieri della morte tirarono le somme nella notte fra il25 e il 26 gennaio dell'83. Il giudice, che da qualche tempo non viveva più in famiglia, stava rincasando nella sua villetta di Valderice, frazione di diecimila abitanti a pochi chilometri da Trapani. Era stato a cena con due avvocati. Tornava solo a bordo d'una Volkswagen Golf. Teneva fra le gambe un thermos pieno di caffè che gli avrebbe dato conforto in una nottata di lavoro che si prospettava lunga: l'indomani avrebbe dovuto prenderparte ad un processo delicato. Non ebbe il tempo di scendere dalla macchina: numerosi killer fecero fuoco con una mitraglietta Luger, una pistola calibro 38 e una 7.65. Per Montalto non ci fu scampo. Il suo orologio da polso si bloccò all'una e trenta. Nessuno quella notte diede l'allarme: " pensavamo fossero cacciatori di frodo" diranno i vicini l'indomani. Alle sei e quarantacinque il cadavere venne ritrovato, grazie alla telefonata d'un pastore. E rimosso soltanto alle dodici, quando furono espletate le lentissime formalità di rito. Qualche mese prima una croce nera era stata disegnata con una bomboletta spray sul cofano della sua Golf. "Ce l'hanno con me", aveva confidato all'avvocato Elio Esposito, suo amico carissimo. Ma croce o non croce Ciaccio Montalto aveva continuato a percorrere la sua strada senza ritorno." La mafia a Trapani non esiste ", tagliò corto Erasmo Garuccio, democristiano, sindaco della città, quando finalmente gli inviati di tutt'Italia riuscirono a strappargli una frase. E coerente con un'impostazione che fece scandalo, il sindaco ordinò di affiggere pochissimi manifesti per proclamare il lutto cittadino: nel testo non figurava la parola mafia. Tornò alla carica Forattini disegnando un Garuccio con coppola e lupara. Il provveditore agli studi " dimenticò " di inviare ai presidi le disposizioni per il giorno dei funerali. E perché meravigliarsi se gli amministratori del luogo si chiudevano a riccio quando lo stesso ministro della giustizia, Clelio Darida, aveva teorizzato che la mafia non poteva essere sradicata e andava ricondotta semmai entro"limiti fisiologici"? Concetto infelice, espresso pubblicamente durante un convegno di magistrati, a Palermo, alla vigilia dell'uccisione di Montalto. L'associazione dei magistrati liguri chiese le dimissioni del guardasigilli. Rosario Minna, giudice istruttore a Firenze, e amico personale del magistrato assassinato, dichiarò all'" Espresso ": " Io allora voglio sapere qual è il numero fisiologico degli assassinati per mano della mafia.
Saverio Lodato, Trent’anni di mafia

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