sabato 30 marzo 2013

30 Marzo 1960
Antonio Damanti 17 anni, studente

Il commissario di polizia Cataldo Tandoj, 47 anni, era stato appena trasferito da Agrigento a Roma ed era tornato nella città dei templi per organizzare il trasloco. Un killer solitario lo uccise sparandogli in testa mentre il poliziotto passeggiava in compagnia della moglie Leila Motta nel centralissimo viale della Vittoria di Agrigento. Era il 30 marzo 1960, e una pallottola colpì a morte anche uno studente che passava per caso, Antonio Damanti, 17 anni. Per la Commissione parlamentare antimafia, l'omicidio di Tandoj va inserito "nel contesto delle relazioni tra il commissario e l'organizzazione mafiosa di Raffadali (Agrigento)". I mafiosi temevano che il commissario, in procinto di trasferirsi a Roma, potesse rivelare segreti riguardanti delitti e attività della mafia.

giovedì 28 marzo 2013

28 Marzo 1945
Calogero Comaianni 45 anni, guardia giurata

Non era un eroe Calogero Comaianni, ma un uomo normale che cercava di sfamare la moglie e i suoi cinque figli, facendo la guardia giurata. Certo, la Corleone degli anni 40 non era il posto migliore per esercitare un mestiere che in qualche modo avesse a che fare col rispetto della legalità. Ma lui ci provava. Con equilibrio e buon senso, girava le campagne insieme alle guardie campestri comunali, vigilava, dava consigli a qualche giovane scapestrato, tentato da qualche “scorciatoia” per uscire dalla miseria. Il 2 agosto 1944, Comaianni stava facendo il suo solito giro di perlustrazione. Con lui c’erano le guardie campestri Pietro Splendido e Pietro Cortimiglia. Ormai era piena estate e il grano delle campagne corleonesi era stato quasi tutto mietuto da migliaia di braccianti agricoli, molti dei quali provenienti dai comuni della fascia costiera. La sola manodopera locale, infatti, non era sufficiente e si doveva ricorrere a quella proveniente da Bagheria, Misilmeri, Villabate e Ficarazzi.
All’improvviso, si accorsero che due giovani stavano arraffando covoni di grano, caricandoli sui muli. «Fermi! Cosa fate?», gridarono le guardie. Poi si avvicinarono e li videro in faccia. Erano Luciano Liggio e Vito Di Frisco. «Alla vista degli agenti Liggio non fece una piega. Si lasciò arrestare con quell’aria mansueta e vittimistica ostentata ogni volta che la giustizia arriverà a mettergli le mani addosso. Ma quando lo scatto delle manette gli imprigionò i polsi gettò un’occhiata di fuoco in faccia agli agenti, come per stamparseli bene nella mente», scrive Marco Nese («Nel segno della mafia. Storia di Luciano Liggio», 1975). Per quel furto Liggio rimase in galera tre mesi. Ad ottobre uscì dal carcere in libertà provvisoria, ma i volti delle guardie che l’avevano arrestato non era riuscito a dimenticarli. Aveva un amico “Lucianeddu”, un coetaneo di nome Giovanni Pasqua. «Cumpà – gli disse – gli sbirri che mi hanno arrestato non la devono passare liscia. A cominciare da quel Calogero Comaianni, tuo vicino di casa». E insieme studiarono un piano. L’occasione propizia sembrò presentarsi la sera del 27 marzo 1945, sei mesi dopo che la futura “primula rossa” era uscita dal carcere. Calogero Comaianni stava rientrando nella sua casa di via Sferlazzo, in pieno centro storico, quando si vide seguito da due uomini incappucciati. Accelerò il passo, ma pure quelli accelerarono il loro. Con uno scatto felino, la guardia giurata fu svelta a guadagnare la porta di casa, cogliendo di sorpresa i due killer. «Ho avuto l’impressione che due uomini mi seguissero», confidò alla moglie Maddalena Ribaudo. «Li hai conosciuti?», gli chiese lei. «Uno mi è sembrato Giovanni Pasqua. Ma chi può avercela con me? Io non ho mai fatto nulla di male, solo il mio dovere», fu la sua risposta. Il giorno dopo, di prima mattina, Calogero Comaianni pulì la stalla e poi uscì di casa per andare a buttare gli escrementi di animali nella vicina discarica. Fatti pochi passi, si accorse di avere dietro gli uomini della sera precedente. Si guardò intorno. Vide il portone aperto della stalla di un vicino di casa, provò a cercarvi riparo, ma quello glielo chiuse in faccia. Allora Comaianni capì e provò a tornare precipitosamente a casa. Ebbe appena il tempo di bussare, che uno dei due inseguitori gli sparò addosso due colpi di pistola. La porta si aprì e, nonostante già fosse ferito, l’uomo provò a salire i primi gradini. Fu raggiunto dai killer, che gli puntarono ancora addosso le loro armi. Ebbe il tempo di girarsi e di guardare in faccia quello più vicino. Lo riconobbe: era Giovanni Pasqua. «Giovanni, che stai facendo?», gli gridò. Ma quello gli scaricò addosso altri colpi di pistola, ammazzandolo sul colpo. Comaianni aveva 45 anni. Dietro di lui, Luciano Liggio rideva, beffardo, guardandosi la scena. Ma la scena e i suoi protagonisti erano stati visti anche da Maddalena Ribaudo, la moglie di Comaianni, che si era affacciata sulla scala. E da Carmelo, il figlio più grande, che era corso a prendere il fucile per sparare agli assassini del padre. Ma fu fermato dalla madre, mentre i due killer si allontanavano a passo svelto.
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lunedì 25 marzo 2013

25 Marzo 1957
Pasquale Almerico 43 anni, politico DC
Antonino Pollari

Pasquale Almerico nacque a Camporeale il 12 luglio 1914. Divenne maestro elementare conseguendo a Monreale l’abilitazione magistrale. Si iscrisse all’università alla facoltà di legge con ottimi risultati, ma abbandonò gli studi preso dall’impegno politico.
Per un po’ di tempo scrisse per il Giornale di Sicilia. Svolse il servizio militare e venne congedato nel 1936 con il grado di sottotenente di fanteria. Insegnò nella scuola elementare di Camporeale e fu nominato responsabile della mensa scolastica.
Grazie al giovane parroco don Vincenzo Ferranti e ad alcuni cattolici impegnati politicamente, tra i quali il giovane Pasquale Almerico, fu creata la sezione del partito della Democrazia Cristiana di Camporeale. Un nemico pericoloso si rivelò immediatamente il capo mafia di Camporeale Vanni Sacco che nella notte del 26 maggio 1946 ordinò ai suoi sgherri di intimidire con alcune scariche di mitra Don Vincenzo. Quest’ultimo si rifugiò presso il Palazzo Arcivescovile di Monreale, ma dopo alcuni giorni mons. Filippi (che era intimo di Vanni Sacco) gli consigliò di ritornare a Camporeale.
Almerico venne eletto sindaco il 25 maggio 1952. Durante il suo mandato viene istituita a Camporeale una sezione staccata della scuola media di Alcamo; fu inoltre resa agibile la strada provinciale Alcamo-Camporeale, unica strada per la quale si poteva raggiungere Trapani, che a quei tempi era il capoluogo di provincia; nel 1954 si ebbe il trasferimento del paese di Camporeale dalla provincia di Trapani a quella di Palermo.
Nel marzo 1955 Almerico fu costretto a dimettersi dalla carica di sindaco, ma la sua attività politica continuò come segretario della sezione della Democrazia Cristiana di Camporeale.
Pasquale Almerico fu assassinato il 25 marzo 1957 a Camporeale, in via Minghetti, da cinque uomini a cavallo armati di mitra. Anche un giovane passante, Antonio Pollari, rimase ucciso.
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domenica 24 marzo 2013

24 Marzo 1994
Luigi Bodenza assistente di polizia penitenziaria

Luigi Bodenza è stato un agente di polizia penitenziaria ucciso a Gravina di Catania il 24 marzo 1994. Mentre stava rientrando in casa venne affiancato da un’auto al cui interno si trovavano due sicari della mafia che lo uccisero sparandogli numerosi colpi d’arma da fuoco.
24 Marzo 1966
Carmelo Battaglia 43 anni, dirigente sindacale e assessore socialista

Il 24 marzo 1966, a Tusa (Messina) fu ucciso Carmelo Battaglia, assessore al patrimonio - in una giunta di sinistra - al comune di Tusa, e dirigente sindacale.

Questo omicidio, avvenuto a tre anni dall'insediamento della Commissione parlamentare antimafia (avvenuto in seguito alla strage di Ciaculli (58)), <<svelò>> l'esistenza di organizzazioni mafiose anche in una zona ritenuta, fino ad allora, immune: la provincia, <<babba>>, di Messina.

In realtà, nel lembo occidentale della provincia, confinante con le province di Palermo ed Enna, e comprendente buona parte della catena dei Nebrodi, già da tempo si erano verificati gravi fenomeni delittuosi tipici delle <<zone di mafia>> (estorsioni, abigeati, danneggiamenti, attentati) (59).

Negli ultimi dieci anni (1956-66), si erano registrati ben 12 omicidi, tutti consumati in un territorio compreso tra i comuni di Mistretta, Tusa, Pettineo e Castel di Lucio, che fu soprannominato il <<triangolo della morte>> (v. G. Messina, 1995). Dietro questi delitti vi era la <<mafia dei pascoli>>, e le lotte scatenate al suo interno per il controllo dell'economia allevatoria dei Nebrodi. L'assassinio di Carmelo Battaglia, rappresentò, quindi, il 13° anello di una lunga catena di sangue. Ma, a differenza delle altre vittime, il sindacalista era stato assassinato perché si era apertamente, e legalmente, ribellato all'ordine costituito, promuovendo, nel suo paese, un movimento organizzato di contadini e pastori.

Brevemente, i fatti. Carmelo Battaglia era stato uno dei soci fondatori della cooperativa <<Risveglio Alesino>> di Tusa, nata nel 1945 per la concessione delle terre incolte. Nel 1965,i contadini e coltivatori soci di questa cooperativa, insieme a quelli soci della cooperativa <<S. Placido>> di Castel di Lucio, erano riusciti ad acquistare, dalla baronessa Lipari, il feudo Foieri, di 270 ettari. Subito dopo l'immissione nel possesso del fondo, sorsero forti contrasti con il gabelloto comm. Giuseppe Russo - ex vice-sindaco DC di Sant'Agata di Militello - e con il sovrastante Biagio Amata, che avevano avuto in gestione il feudo fino ad allora. Costoro pretesero dai nuovi proprietari la cessione di una parte dell'ex-feudo, per farvi svernare i propri armenti. Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa <<Risveglio Alesino>> e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia.

L'assessore socialista - che aveva difeso con fermezza i diritti dei contadini - fu ucciso all'alba del 24 marzo, proprio mentre si recava sul feudo Foieri. Gli assassini non si limitarono a sparargli addosso. Vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti. Così, sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su di una grossa pietra. Il giornalista Felice Chilanti scrisse:

"uno ha sparato, altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa di chinare, in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso (in M. Ovazza, 1993, p. 19).

Dunque,

"(...) chiunque sia stato a sparare, ha siglato il delitto con lo stile inconfondibile, solito degli assassini dei Carnevale, dei Li Puma, dei Cangelosi, dei Rizzotto, dei Miraglia, dei capilega e degli organizzatori del movimento operaio e contadino in Sicilia; (...) il delitto ha chiaro il segno dell'odio secolare contro chi è fermo nel perseguimento di pertinaci obiettivi di giustizia e di rigenerazione sociale; la sanguinaria imprecazione contro colui che partecipa più attivamente alla rivolta organizzata dalle masse contro lo sfruttamento e il privilegio, contro chi osa opporsi ad una condizione passiva della miseria siciliana e contribuisce a trasformarla in una carica di lotta sistematica e irrefrenabile; c'è ancora più chiara la volontà primitiva di ammonire, di costringere a desistere chi, continuando a lottare, è protagonista temibile, <<pericoloso>>,e preferisce non sottrarsi alla vendetta della lupara, sempre possibile, sempre eventuale, come fragorosa ed anonima difesa di un'ordine di vergogne sociali da rispettare" (M. Ovazza, 1993, p. 20).

L'omicidio di Carmelo Battaglia e i 12 omicidi consumati precedentemente nel <<triangolo della morte>> rimasero impuniti.
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giovedì 21 marzo 2013

21 Marzo 1990
Nicola Gioitta Iachino 29 anni, imprenditore

Nicola Gioitta Iachino nato il 14 maggio 1961 ad Alcara Li Fusi in provincia di Messina. La sua breve vita è stata vissuta tra Siracusa e Niscemi. Proprietario di una gioielleria situata in una delle vie principali di Niscemi, assassinato il 21 marzo 1990 con due colpi d'arma da fuoco e sgozzamento post morte. Il primo colpo fu alle spalle, nel girarsi l'hanno colpito tra la fronte e l'occhio sparando diritto nel cervello. Già morto, hanno preferito infierire sul cadavere sgozzandolo, presumibilmente per dare un segnale a tutti i commercianti niscemesi invogliandoli a pagare il pizzo! Mio padre aveva 28 anni quando fu assassinato, io il 19 maggio di quell'anno avrei compiuto 2 anni, qundi il mio ricordo di quest'uomo è del tutto inesistente, le sue gesta, i suoi movimenti, le sue espressioni sono totalmente mancanti nella mia mente! la mafia quel 21 marzo ha tolto il fiore più bello che Dio potesse donarmi. Anche se non ho nessun ricordo, la mafia mi ha levato tutto! Dal pilastro di vita al semplice rimprovero... Non ricordo di averlo mai chiamato PAPà e ciò che per sempre sarà un peso per me è il fatto che non saprò mai se lui è fiero di me... fiero di ciò che ha lasciato al mondo! Tutti me lo ricordano come un bel uomo, affascinante educato e molto colto, sopratutto privo di cattiveria e malvagità! Nicola non meritava quella fine, sopratutto non merita questo silenzio che dal 1990 c'è sulla nostra storia. Massacrato in vita e torturato da morto, visto che ancora oggi, dopo 20 anni, nessuno riesce a dirmi cosa sia realmente successo quel giorno di primavera, anche se in cuor mio provo ad immaginarlo! La mafia è un problema e come tutti i problemi avrà una fine,una soluzione... Credo nell'anti mafia perchè la vita mi ha imposto regole troppo forti e grandi sin dalla più tenera età... Credo nell'anti mafia perchè uomini come Falcone, Borsellino, mio padre, Chinnici, Cassarà, Dalla Chiesa e tutte le vittime innocenti della mafia hanno perso la vita per assicurarmi un futuro libero... libero dall'omertà, libero dall'abuso di potere proposto da uno stato capeggiato da uomini che se ne fregano dei figli di commercianti uccisi per danaro e potere! Una cosa vorrei dire ai nostri politici e a tutti i mafiosi... LA RICCHEZZA PIù GRANDE CHE UN UOMO PUò AVERE IN VITA è CIò CHE PORTA NEL CUORE E NON IN TASCA O IN BANCA! Mi ritengo un ragazzo ricchissimo, per come mi ha cresciuto mia madre e per come difendo il valore del nome di mio padre! Non ho mai creduto in superman o in qualsiasi altro eroe immaginario... per me l'eroe è chi lotta ogni giorno per i propri ideali... CHI SI MASSACRA DI FATICA TUTTO IL GIORNO PER PORTARE UN PEZZETTINO DI PANE AI PROPRI FIGLI SENZA CERCARE FORTUNA NELLA MALA VITA! Per me Nicola Gioitta Iachino è un eroe, perchè non si è piegato davanti al terrore che la mafia impone! Credo nell'antimafia e lotterò sempre per difendere il mio cognome, costi quel che costi! Vivo la mia vita sempre a testa alta, innalzando e gridando forte VIVA FALCONE, VIVA BORSELLINO, VIVA MIO PADRE E TUTTE LE VITTIME INNOCENTI DELLE MAFIE... VIVA IL LORO CORAGGIO, VIVA LA LORO FEDE... VIVA IL LORO RICORDO... UN UOMO MUORE SOLO QUANDO SARà DIMENTICATO, NEL RICORDO ETERNO NON SI MUORE MAI... ED IO NON DIMENTICHERò L'ESSENZA DEL LORO SACRIFICIO!
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domenica 17 marzo 2013

17 Marzo 1958
Vincenzo Di Salvo 32 anni, operaio e dirigente sindacale

Licata, 18 - Nella tarda serata di ieri, alle 21 circa, con un colpo di pistola in pieno petto è stato assassinato l'operaio edile Vincenzo Di Salvo di 32 anni, abitante a Licata in Via Incorvaia, 7. Il Di Salvo, un lavoratore onesto e incensurato, è stato trovato, riverso al suolo, in una pozza di sangue, nelle vicinanze di una scalinata che da Via Marconi porta a Via Santa Maria, cioè nelle immediate vicinanze del centro abitato. La vittima lascia la moglie e due figli in tenera età, che senza il suo sostegno vengono così a trovarsi nella miseria più nera.

La notizia del crimine, appena sparsasi in città, ha destato vivissima impressione: la notorietà della vittima e la sua attività di dirigente della Lega edili hanno orientato i sospetti in una direzione ben specifica. In particolare, l'assassino viene indicato in un noto mafioso locale, sul quale gli investigatori nutrirebbero dei sospetti.

Vincenzo Di Salvo, come abbiamo accennato, dirigeva la Lega edili aderente all'organizzazione unitaria e contemporaneamente prestava la sua attività lavorativa presso la ditta Iacona, impresa appaltatrice dei lavori di costruzione delle fognature cittadine. In qualità di dirigente sindacale, il Di Salvo era alla testa, da una settimana circa, dello sciopero dei dipendenti della impresa, non essendo riusciti i lavoratori ad ottenere dal 1 febbraio, il pagamento dei salari e degli assegni familiari maturati.

Sabato scorso, a conclusione di un incontro tra rappresentanti dei lavoratori e del datore di lavoro, alla presenza del Sindaco e di un sottufficiale dei carabinieri, si giungeva ad un accordo: i lavoratori avrebbero sospeso l'azione sindacale a patto che l'azienda avesse pagato entro il giorno successivo i salati e tutte le altre spettanze. Diversamente gli operai avrebbero ripreso la loro livertà d'azione proseguendo nello sciopero.

Purtroppo la domenica è passata ed anche il lunedi senza che la "Iacona" , la quale aveva promesso di pagare i salari e le altre spettanze in cantiere e soltanto quando il lavoro fosse stato riprese, mantenesse i suoi impegni.

Una folla commossa ha accompagnato stamane all'estrema dimora le spoglie dell'operaio assassinato.
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sabato 16 marzo 2013

16 Marzo 1990
Emanuele Piazza 30 anni, poliziotto

Emanuele Piazza (Palermo, 1960 – Capaci, 16 marzo 1990) è stato un poliziotto italiano.
Piazza entra nelle forze dell’ordine come agente della Polizia di Stato. Successivamente, si dimette per trasferirsi nella sua città natale, operando poi come agente dei servizi (SISDE) e “cacciatore di latitanti”. Durante il suo ultimo incarico lavorerà anche come autista e guardia del corpo per alcuni politici.
Il delitto. Emanuele Piazza scompare dalla sua abitazione di Sferracavallo, a Palermo, il 16 marzo 1990. Il giorno seguente avrebbe dovuto partecipare alla festa di compleanno del padre Giustino, ma non si presenta. Preoccupati, il padre e il fratello si recano a cercarlo in casa e verificano la sua assenza, ma notano che in cucina c’è un tegame con della pasta cotta e non più servita, mentre sul ripiano vi è una scatola di cibo destinata al cane che Emanuele possiede, ma la scatola è stranamente lasciata aperta; l’animale, inoltre, si mostra affamato. Tutti segni che indicano che il ragazzo è, forse, uscito all’improvviso, ma non è più tornato. Giustino Piazza, noto avvocato, decide allora di denunciarne la scomparsa. Nonostante le sollecitazioni del padre, da quel momento amici e referenti di Emanuele Piazza alzano un muro di silenzio sui loro rapporti, arrivando persino a negare che lavorasse per il Sisde, sin quando Giovanni Falcone si interessa al caso e ottiene conferma dal direttore del servizio, Riccardo Malpica, che Piazza avesse qualifica di agente in prova: era il 22 settembre del 1990, ben sei mesi dopo la sua scomparsa. Del caso si occupano anche le trasmissioni televisive Chi l’ha visto? nel 1998, e Blu Notte, nel 2003, parallelamente al caso della scomparsa dell’agente Antonino Agostino, ma nel frattempo i genitori dei due agenti cercheranno invano la verità. Per Emanuele Piazza, la ricostruzione dei fatti avvenne grazie alle rivelazioni di due collaboratori di giustizia, tra cui il suo stesso assassino, Francesco Onorato: quel 16 marzo Emanuele viene attirato fuori dalla sua abitazione da Onorato, ex pugile e suo vecchio compagno di palestra, con la scusa di cambiare un assegno in un magazzino di mobili di Capaci (a pochi minuti di distanza da Sferracavallo). Onorato condusse Piazza in uno scantinato, e l’agente venne strangolato. In seguito il suo cadavere venne sciolto nell’acido in un casolare della campagna di Capaci, a pochi centinaia di metri dal luogo dove nel 1992 troverà la morte lo stesso giudice Falcone.
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mercoledì 13 marzo 2013

13 Marzo 1985
Giovanni Carbone imprenditore

Palermo uccisione dell'imprenditore Giovanni Carbone: probabilmente aveva resistito a tentativi di estorsione.

martedì 12 marzo 2013

12 Marzo 1909
Joe Petrosino 49 anni, poliziotto statunitense

Giuseppe Petrosino nasce il 30 agosto 1860 a Padula, in provincia di Salerno, dove la povertà e la disoccupazione costringono i lavoratori ad emigrare oltreoceano: gran parte della popolazione di molti paesi del Meridione e nelle aree depresse dell'Italia post-unitaria, si imbarca per cercare fortuna negli Stati Uniti, la “terra delle opportunità”.
Anche il sarto Prospero Petrosino, padre di Giuseppe, lascia l'Italia assieme ai suoi quattro figli, portandosi in valigia grandi speranze di riscatto per ritrovare invece in America, come tanti connazionali, condizioni ancor più dure di quelle appena abbandonate.

Il logorante, disperato viaggio in terza classe è per gli emigranti solo un preludio della vita difficile che li attende a New York: una crudele selezione decide la concessione dei documenti, e dunque i destini di tante famiglie, sull'isola di Ellis Island dove sono raccolti come in un lazzaretto tutti gli stranieri appena sbarcati; gli alloggi a disposizione si trovano in edifici fatiscenti e sovraffollati, le cosiddette five cents houses.
Giuseppe vive a Mulberry street, al centro del quartiere più densamente popolato di italiani, si arrangia a lavorare come lustrascarpe e strillone, impegnandosi a migliorare la propria condizione: frequenta una scuola serale d'inglese ed appresa la nuova lingua, sceglie di americanizzare il proprio nome in “Joe”.

Ormai maggiorenne, Petrosino ottiene la cittadinanza americana e viene assunto nella nettezza urbana, che all'epoca è un reparto della polizia cittadina; verosimilmente, una collaborazione nel ruolo di informatore lo prepara ad approdare infine, nel 1883, all'arruolamento nel 23° distretto.
In divisa, Joe si trova presto a fare i conti con le gang che spadroneggiano a Little Italy e diviene, in quanto primo agente di madrelingua italiana, un validissimo elemento per la polizia altrimenti impossibilitata a contrastare la criminalità all'interno di una comunità impenetrabile. […]

Per far fronte al crescente dominio della malavita, che stringe nella sua morsa la popolazione italiana di New York (all'epoca, per numero di abitanti inferiore soltanto a Napoli), la polizia ingaggia una battaglia durissima e inizia ad ottenere i primi risultati importanti proprio grazie al solerte lavoro di Joe Petrosino.

Con metodi piuttosto bruschi, grazie anche a nuovi metodi di ricerca investigativa quali la schedatura, il travestimento e la creazione di una fitta rete di informatori, Petrosino combatte con successo taglieggiatori e delinquenti isolati, ed inizia ad occuparsi anche delle gang, le bande della criminalità organizzata colpevoli di estorsioni e delitti efferati.

L'agente Petrosino ripercorre le diverse tracce che, da singoli episodi di intimidazione, portano tutte ad una fantomatica associazione segreta denominata “Mano Nera”; tuttavia non riesce ad appurare con sicurezza se l'inquietante sigillo che accompagna minacce ed attentati, in origine adottato da gruppi anarchici, rimandi ad un'organizzazione effettivamente operativa o piuttosto racchiuda in un simbolo unico i diversi ed autonomi volti della malavita a Little Italy.
Una svolta determinante arriva nel 1903, quando il cadavere di Roberto Madonia, ritrovato compresso in un barile, è direttamente ricondotto al locale “Stella d'Italia” frequentato dai malavitosi agli ordini di Cascio Ferro: ottenuta la confessione del già carcerato Giuseppe Di Prima, Petrosino procede personalmente all'arresto di Joe Morello, proprietario del locale, e si vede tributare un trionfo dalla stampa quando le condanne al processo sembrano aver definitivamente sgominato la banda criminale.
Ciò nonostante Vito Cascio Ferro, il mafioso più importante e pericoloso, approfittando di un rilascio su cauzione riesce a raggiungere un rifugio sicuro in Sicilia.

L'esito dell'operazione, comunque felice, fa guadagnare a Petrosino la stima del presidente Theodore Roosevelt in persona, che nel 1905 lo promuove a Tenente e gli affida l'appena costituito Italian Branch, un dipartimento di polizia specificamente italo-americano.
Alla testa di questa particolare squadra, Petrosino conduce una guerra aperta contro la criminalità che finisce col registrare oltre 2500 arresti e 500 espulsioni, ma si convince che sia necessario un intervento in Italia per interrompere alla fonte il continuo afflusso di mafiosi verso New York.[…]

Il capo della polizia newyorkese, Teddy Bingham, autorizza così Petrosino a recarsi in missione segreta a Palermo, per esaminare i casellari giudiziari alla ricerca di dati compromettenti sugli affiliati alla Mano Nera. Il progetto ha il benestare di Roosevelt ed è finanziato da banchieri e affaristi come Rockefeller, per i quali la mafia costituisce un danno economico considerevole.
Il 9 febbraio 1909, il tenente Petrosino si imbarca in incognito per l'Italia, alla caccia di prove scritte che possano confermare l'esistenza di un torbido legame tra mafia e politica, ma al momento della partenza il suo principale Bingham si lascia sfuggire indiscrezioni che compromettono l'anonimato della missione.

A Roma, il capo della polizia Francesco Leonardi accoglie l'illustre collega oriundo alla sua prima tappa e dirama alle prefetture, in particolare in Sicilia, l'invito ad offrire la massima collaborazione possibile per la riuscita delle operazioni di investigazione.
La trasferta è però per Petrosino una corsa contro il tempo il cui esito è già deciso, e si rivela estremamente rischiosa tanto più perché condotta allo scoperto: Cascio Ferro ha ordinato l'eliminazione del suo nemico giurato, e due sicari si sono messi in viaggio da New York per raggiungerlo in Sicilia.

Nel marzo 1909, Joe Petrosino arriva a Palermo e fa visita al console americano Bishop per illustrargli la propria intenzione di perseguire, assieme ai mafiosi, anche gli elementi collusi dell'imprenditoria e della politica locale, compresi alcuni notabili candidati alle imminenti elezioni.
Il 5 marzo, l'accertamento decisivo al tribunale si risolve però in un fallimento: le cartelle penali dei criminali indagati risultano inspiegabilmente vuote o deliberatamente cancellate.

Riconoscendo sulle affissioni elettorali i volti di personalità entrate in contatto negli Stati Uniti con Cascio Ferro, Petrosino realizza di essere, nei fatti, rimasto da solo nella battaglia, e di non potersi fidare ciecamente delle autorità italiane: rifiuta perciò la scorta che gli offre il questore palermitano Ceola, persuaso di poter contare sugli informatori profumatamente pagati con il finanziamento della missione.

A Caltanissetta, il 12 marzo Joe Petrosino riesce finalmente a trovare intatte preziose informazioni sui pregiudicati della mafia, ed ottiene il definitivo riscontro del fatto che i mafiosi godono di un'insospettabile protezione nei palazzi del potere. Ma la stessa sera del 12 marzo 1909 rientra a Palermo e, appena uscito dal suo alloggio presso l'Hotel de France per incontrare un confidente, è bersaglio di un agguato in Piazza Marina.
Raggiunto da quattro colpi di pistola, il tenente Joe Petrosino muore senza poter concludere la sua importante missione, come una delle prime vittime di un sistema perverso che non cessa di uccidere ancora oggi.
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lunedì 11 marzo 2013

11 Marzo 1989
Nicola D’Antrassi 60 anni, imprenditore

Nicola D’Antrassi (San Felice Circeo 1929 – Scordia (CT) 11 marzo 1989) imprenditore ucciso dalla mafia a 60 anni. D’Antrassi era un uomo stimato dall’intera città impegnato nella lavorazione e il commercio della frutta in genere oltre alle arance. A dispetto dei mafiosi che in lui avevano trovato resistenza, Nicola D’Antrassi, diventerà un simbolo per la società civile che avversaria delle mafie. Proprio come nel caso di Libero Grassi, un altro imprenditore ucciso a Palermo. Ancora oggi Scordia ricorda, celebrandolo, “l’avvocato D’Antrassi” che non essendo neanche scordiense seppe per primo dare un segnale alla mafia del pizzo che allora veniva normalmente accettata dagli imprenditori di quel territorio controllato dai clan.
D’Antrassi venne ucciso all’uscita dell’azienda in cui lavorava, dopo aver ricevuto una telefonata da qualcuno che lo invitava a prendere un caffè al bar “La Bussola”, all’ingresso del Paese, a meno di un chilometro di distanza. Appena sceso dalla macchina, in prossimità del bar, di fronte ad un rifornimento di benzina di proprietà di un commerciante di Scordia, un uomo gli si avvicina alle spalle esplodendo un colpo di pistola e colpendolo alla testa. Dopo tanti anni, non si sa ancora nulla sull’esito del processo relativo a quel delitto.
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11 Marzo 1983
Salvatore Pollara costruttore

A Palermo, uccisione del costruttore edile Salvatore Pollara. Aveva collaborato con la giustizia per fare processare i responsabili dell'omicidio del fratello Giovanni, scomparso nel 1979.
11 Marzo 1948
Giuseppe Letizia 13 anni, pastore

Questa purtroppo è la storia di un ragazzino che, come si suol dire, ha avuto la grossa sfortuna di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato...
Giuseppe Letizia aveva solo 13 anni quando, una sera come tante, ricevette dal padre l'incarico di sorvegliare lo sparuto gregge di famiglia, al pascolo in contrada Malvello, nella campagna corleonese...
Era il 1948, l'immediato dopo-guerra, il periodo in cui la mafia esce dalle campagne e tenta con successo la scalata al potere!
Quella notte Giuseppe aveva trovato rifugio in un vecchio casolare abbandonato, senza immaginare (e come avrebbe potuto?) che sarebbe diventata la scena di un terribile delitto, quello di Placido Rizzotto.
Il povero ragazzo non potè fare altro che assistere impotente, nascosto dal buio della notte, al massacro del sindacalista, rapito ed ucciso da alcuni uomini di Michele Navarra, l'allora leader dei Corleonesi.
Il giovane venne ritrovato la mattina seguente in evidente stato di shock, ma il padre, non potendo sapere quello che era successo poche ore prima, si convinse che Giuseppe stesse delirando in preda ad un attacco febbrile. Il ragazzo non delirava, cercava bensì di raccontare quanto aveva visto all'interno del casolare...
Purtroppo per lui il caso volle che l'ospedale in cui venne portato fosse proprio quello diretto dal dott. Navarra, il mandante dell'omicidio;
Preso in cura da un certo dott. Dell'Aria (che subito dopo essersi occupato del caso sarebbe emigrato per sempre in Australia) il ragazzo morì il giorno seguente, ufficialmente per tossicosi.
La vicenda fu presto dimenticata dai più, solo un paio di testate ("L'Unità" e "La voce della Sicilia") approfondirono l'accaduto avanzando l'ipotesi che il povero Giuseppe fosse stato ucciso perchè testimone dell'omicidio Rizzotto...
Giuseppe è diventato suo malgrado un piccolo eroe, testimonianza del fatto che la mafia non ha scrupoli ad eliminare qualsiasi ostacolo si ponga tra sè ed il potere, sia esso un uomo, una donna o, come questo caso, un bambino!
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domenica 10 marzo 2013

10 Marzo 1948
Placido Rizzotto 34 anni, sindacalista, socialista

Placido Rizzotto nacque a Corleone il 2 gennaio 1914 da Carmelo e da Giovanna Moschitta. Dopo il servizio di leva, a 26 anni, fu richiamato alle armi, con destinazione la Carnia. E fu proprio sui monti del Nord-Est che, dopo l’8 settembre 1943, preferì stare al fianco delle brigate partigiane, piuttosto che continuare a combattere la guerra voluta dal fascismo. L’esperienza con i partigiani gli insegnò a gustare gli ideali di giustizia e libertà e la necessità di lottare per conquistarli e renderli concreti. Dopo la Liberazione, tornato a Corleone, organizzò i contadini e i braccianti poveri per aiutarli a conquistare la terra e migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro. Li aiutò anche a costituire la cooperativa agricola "Bernardino Verro", dando vita alle prime lotte per l’applicazione dei decreti Gullo. Per fermare i contadini, tra la fine del 1946 e gli inizi del 1948, gli agrari e la mafia
scatenarono una violenta offensiva contro i dirigenti politici e sindacali della sinistra, assassinandoli uno dopo l’altro. A Portella della ginestra, il 1° maggio 1947, addirittura fu consumata una terribile strage, in cui morirono 11 persone, tra cui donne e bambini. A Corleone, la mafia e gli agrari scelsero come obiettivo Placido Rizzotto, che la sera del 10 marzo 1948 venne sequestrato ed ucciso da un "commando" mafioso. La voce popolare indicò subito in Luciano Liggio l’autore del sequestro e dell’assassinio di Rizzotto. L’ipotesi trovò conferma alla fine del 1949, quando il giovane capitano dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa arrestò Pasquale Criscione e Vincenzo Collura. Interrogati, questi confessarono di avere partecipato al sequestro Rizzotto, ma indicarono in Liggio l’autore del delitto. Precisarono anche che il corpo del sindacalista era stato buttato in una foiba di Rocca Busambra. Dalla Chiesa organizzò le ricerche, fece recuperare alcuni resti umani dalla foiba, che i familiari di Rizzotto riconobbero come appartenenti al loro congiunto. Al processo, però, i due mafiosi ritrattarono e furono assolti, insieme a Liggio, in tutti e tre i gradi di giudizio con la classica formula della "insufficienza di prove".


Placido Rizzotto la sera del 10 marzo del 1948 fu sequestrato, torturato e ucciso dalla feroce mafia del feudo, diretta all’epoca dal medico boss Michele Navarra. Una prima volta la foiba di Roccabusambra, da cui due anni fa la Polizia ha recuperato i resti adesso all’esame della scientifica, fu esplorata il 13 dicembre del 1949 dall’allora capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa e dai suoi carabinieri. Allora, furono recuperati i resti di tre cadaveri. Uno di questi fu riconosciuto come quello di Placido dai suoi familiari. In particolare, la madre Rosa Mannino riconobbe
la calotta cranica, dove ancora erano attaccati i capelli marrone del sindacalista. Il fratello Antonino riconobbe, invece, un paio di scarponi di tipo americano con suole e tacchi di gomma, che gli aveva regalato lui. "A me venivano stretti", dichiarò ai giudici. La cordicella elastica, usata da Placido per sostenere le calze, fu riconosciuta invece dalla sorella più piccola, Giuseppina. "L’ho data proprio io a mio fratello Placido - disse ai magistrati - la mattina del 10 marzo, perché la sua si era rotta". Tutti questi materiali sono stati incredibilmente "smarriti" negli archivi del palazzo di giustizia di Palermo o di Roma. Per l’assassinio di Placido Rizzotto, il capitano Dalla Chiesa denunciò l’astro nascente della mafia di Corleone, Luciano Liggio, e due suoi "picciotti", Pasquale Criscione e Vincenzo Collura. Criscione e Collura furono arrestati nel novembre del 1949 e confessarono il delitto. "Abbiamo partecipato al sequestro Rizzotto - dissero a Dalla Chiesa – ma ad ucciderlo è stato Liggio". Ma davanti ai giudici
i due ritrattarono e, in tutti e tre gradi di giudizio, furono tutti assolti con la formula della "insufficienza di prove". Adesso, i nuovi reperti, recuperati nell’agosto del 2008, grazie all’impegno dei poliziotti della squadra investigativa del commissariato di Corleone, potrebbero servire a gettare nuova luce sulle modalità del sequestro e dell’uccisione di Rizzotto. Dalla Foiba, che si apre sul versante nord di Roccabusambra, sono stati recuperati diversi reperti ossei ed i finimenti di un animale da soma (un "morso" in ferro), che potrebbero avvalorare la "voce popolare", secondo cui Rizzotto non è stato ucciso su Roccabusambra, come raccontato da Criscione e Collura, ma in una masseria di contrada "Malvello". Qui, però, prima di essere ucciso, pare che sia stato a lungo
seviziato, tanto era l’odio della mafia nei suoi confronti. Il cadavere, poi, sarebbe stato fatto a pezzi nella stalla della masseria, messo in una "bisaccia" e trasportato a dorso di mulo fino alla foiba. E qui sarebbero stati buttati l’animale ancora vivo con tutto il suo carico. Una tesi avvalorata dai finimenti di mulo e del "morso" in ferro trovati dai poliziotti. Quella sera del 10 marzo, ad assistere alle varie fasi dell’assassinio e dello squartamento del cadavere di Rizzotto c’era il pastorello Giuseppe Letizia, di appena 13 anni, che dormiva la vicino. Letizia sarebbe
poi stato avvelenato all’Ospedale dei Bianchi di Corleone, di cui direttore sanitario a quel tempo era il capo mafia Michele Navarra. Le atroci modalità del delitto e lo squartamento del cadavere spiegherebbero lo stato di shock in cui trovato il pastorello ed il suo delirio febbrile. Nonostante il tempo trascorso, due anni fa, dopo minuziose perlustrazioni e approfondite indagini per individuare l’esatta foiba dov’era stato buttato il corpo del sindacalista, i poliziotti sono riusciti a recuperare alcuni reperti, su cui adesso occorre completare i test del Dna.
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sabato 9 marzo 2013

9 Marzo 1979
Michele Reina 47 anni, segretario provinciale DC

Michele Reina, 47 anni, segretario provinciale della DC, fu assassinato a Palermo mentre alle 22 andava al cinema con la moglie e due amici. I giudici hanno sostenuti che Cosa Nostra con l’eliminazione di Reina iniziò a ridiscutere il suo rapporto con il mondo politico, rivendicando sempre maggiori fette di potere e, quindi, di vantaggi economici e giudiziari.



È la sera del 9 marzo del 1979. Sono da poco passate le 22,30 quando scatta l'agguato contro Michele Reina, segretario provinciale della DC a Palermo. L'uomo politico ha da poco lasciato la casa di un amico dove ha trascorso la serata e sta salendo in auto, dove lo attendono la moglie e due amici. I sicari si avvicinano e, da distanza ravvicinata gli sparano contro tre colpi secchi di calibro 38, dandosi subito dopo alla fuga, a bordo di una Fiat Ritmo rubata poche ore prima; la targa applicata sull'auto risulterà più tardi appartenere ad una Fiat 128, anch'essa rubata intorno alle 19 del giorno stesso del delitto.
Appena un'ora dopo, l'omicidio viene rivendicato con una telefonata anonima al centralino del "Giornale di Sicilia": "Abbiamo giustiziato il mafioso Michele Reina" dice la voce che "firma" l'agguato a nome di "Prima linea", in quel periodo uno dei gruppi armati più attivi del terrorismo rosso. L'indomani mattina, una seconda telefonata giunge al centralino del quotidiano palermitano della sera "L'Ora". Il telefonista dice di parlare a nome delle "Brigate Rosse", minaccia altri attentati e afferma: "Faremo una strage se non sarà scarcerato il capo delle Brigate Rosse, Renato Curcio".
Una pista, quella terroristica, che però agli investigatori appare subito inverosimile e che viene ritenuta con più probabilità una mossa di Cosa nostra per sviare le indagini.
L'omicidio di Reina avviene all'indomani di un accordo politico che il segretario provinciale della DC, aveva portato a termine con il Partito Comunista. Un accordo che, però, non aveva riscosso l'entusiasmo e l'approvazione di grande parte suo partito; la maggioranza, anzi, si era subito manifestata contraria.
Le indagini si dirigono su due direzioni, due binari paralleli che, irrealmente, ad un certo punto si incontrano: la prima ipotesi, la più accreditata, è quella mafiosa; la seconda, quella privilegiata al Palazzo di Giustizia, è quella politica. Due piste che, come dicevamo, si incrociano. Tant'è che dopo un paio di giorni si parla, di un movente caratterizzato da un intreccio di interessi politico-mafiosi.
Ai funerali di Reina - frattanto - partecipano i vertici della Democrazia Cristiana nazionale: il segretario nazionale Benigno Zaccagnini, l'uomo-ombra di Andreotti Franco Evangelisti, i siciliani Piersanti Mattarella, Salvo Lima, Giovanni Gioia e Mario D'Acquisto.
Tre giorni dopo l'agguato mortale, giunge una nuova telefonata anonima al centralino del giornale "L'Ora": "Non abbiamo giustiziato Michele Reina, anche se la mafia fa di tutto per adddossarci questo delitto". Passano pochi minuti e il telefono squilla ancora. Di nuovo l'anonimo: "Qui Prima Linea, abbiamo le prove di quanto detto poco fa. Faremo di tutto per farvele avere". Delle telefonate al giornale "L'Ora" fa cenno l'allora capo della squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano: "Noi stiamo esaminando il delitto Reina come un fatto di sangue, senza privilegiare alcuna matrice. Certo, alla luce delle telefonate arrivate al centralino di un giornale palermitano le cose si incominciano a complicare".
Omicidio ReinaLe indagini proseguono, ma non portano a grosse novità, fino a quando il 16 luglio del 1984, davanti a Giovanni Falcone e al dirigente della Criminalpol Giovanni De Gennaro, Tommaso Buscetta inizia il suo lungo racconto su Cosa Nostra. Buscetta, in quei giorni, ha da poco compiuto 56 anni; ma il suo racconto parte da molto più lontano negli anni, dal 1963, dalla strage di Ciaculli, risalendo fino alla prima guerra di mafia e proseguendo fino all'ascesa al potere dei Corleonesi. Buscetta è un fiume in piena: descrive Cosa nostra nei minimi particolari e parla dei tanti, troppi, omicidi compiuti dagli uomini d'onore. Sull'uccisione di Michele Reina, in quel primo racconto verbalizzato dice: "Anche l'onorevole Reina è stato ucciso su mandato di Salvatore Riina".
"Eletto segretario provinciale della DC nell'anno 1976 - scrivono i giudici istruttori nell'ordinanza di rinvio a giudizio contro Greco Michele + 18 - il Reina era stato uno dei principali fautori e sostenitori della costituzione della nuova maggioranza interna alla DC. Dopo la sua elezione, aveva contribuito insieme a Rosario Nicoletti, allora segretario regionale, alla formazione della giunta Scoma, che rappresentava il primo momento di attuazione della politica di apertura alle sinistre. […] La fattiva dinamicità del Reina, alla cui base vi era forse anche una personale e pragmatica aspirazione ad accrescere il proprio personale peso politico, determinò una sua progressiva sovraesposizione […]"
Solo otto anni più tardi, il 22 aprile del 1992, a Palermo si aprirà il processo per i cosiddetti "omicidi politici": tra questi, anche quello di Michele Reina. Nell'aprile del 1999, dopo i primi due gradi di giudizio, il processo è approdato in Cassazione, dove sono state confermate sia l'impianto accusatorio che le pene irrogate. Con Salvatore Riina, sono stati condannati al carcere a vita Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Antonino Geraci.
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IL CASO REINA. L' assassinio del segretario provinciale della Dc Michele Reina è stato deciso dai vertici di Cosa nostra e dà l' avvio a quella nuova strategia di terrorismo mafioso che comincerà a delinearsi nel corso del 1979 con gli assassinii del capo della squadra mobile Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova.... Ma subito dopo i magistrati descrivono la situazione politica creatasi a Palermo alla fine degli anni ' 70: Il sostegno fornito dai partiti della sinistra ai governi delle amministrazioni locali si traduceva nella simultanea riduzione del potere di contrattazione e quindi della capacità di pressione delle lobbies politico-mafiose. E ancora: I nuovi equilibri politici avevano quindi ostruito i canali privilegiati attraverso i quali Cosa nostra aveva in precedenza veicolato e pilotato i propri rilevanti interessi all' interno del circuito politico istituzionale. E' in questa delicatissima fase che muore il segretario provinciale democristiano Michele Reina. Perché? Come si stava muovendo Reina? Pur restando fedele alla linea politica seguita dalla sua corrente (era vicino a Salvo Lima, ndr) aveva conquistato al suo ruolo di segretario provinciale spazi di autonomia gestionale... dopo la sua elezione aveva contribuito insieme al segretario regionale Rosario Nicoletti alla formazione della giunta Scoma, che rappresentava il primo momento di attuazione della politica di apertura alle sinistre.... La requisitoria spiega anche che aveva cercato di respingere le pressioni mafiose sull' amministrazione comunale. UN OMICIDIO ESEMPLARE. Ma la morte di Michele Reina non serve solo a fermare un pericolo immediato per gli affari dei boss. E' un messaggio per tutto il Palazzo. L' omicidio assolve a una funzione di esemplarità nei confronti di quei settori del ceto dirigente locale che avevano iniziato a coltivare il progetto di emancipare la politica e l' amministrazione dalla tutela mafiosa surrogando progressivamente il sostegno elettorale proveniente dalle lobbies politico-mafiose con quello offerto da nuove aree sociali e, soprattutto, quelle rappresentate dai partiti della sinistra. E' un terribile segnale anche per Santi Mattarella, un segnale, scrivono ancora i giudici, non raccolto dal Presidente.
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mercoledì 6 marzo 2013

Victor Klemperer
Victor Klemperer era un uomo fortunato, sebbene non sapesse di esserlo. Era difficile per un ebreo tedesco sopravvivere a 12 anni di nazismo e ai bombardamenti alleati, senza neanche finire in un campo di sterminio. Klemperer ebbe l'enorme fortuna di aver sposato un'ariana, una donna che non divorziò (malgrado le pressioni ricevute) e accettò di continuare a vivere con lui nella degradazione e nell'umiliazione crescenti. Consapevole che nel momento stesso in cui l'avesse lasciato, il marito sarebbe stato deportato.
Klemperer, uomo senza particolari qualità, era stato fino al 1933 professore di filologia e lingue romanze. Perse il lavoro in quanto ebreo (malgrado avesse dovuto pronunciare, pochi mesi prima del licenziamento, un giuramento di fedeltà al Fuhrer). L'aver partecipato alla Prima Guerra Mondiale gli garantì la pensione; l'essere sposato a un'ariana gli garantì la vita ma non le umiliazioni; quelle le subì tutte - sia lui che la moglie, "la puttana di un ebreo".
Per dodici anni scrisse un diario - straordinaria testimonianza dal basso della vita sotto il nazismo - e uno studio sulla lingua nazista, a parziale compensazione di ciò che per lavoro non poteva più fare. LTI, Lingua Tertii Imperii. In questo piccolo saggio Klemperer afferma e cerca di dimostrare, pur nella povertà di mezzi (a un certo punto agli ebrei fu impedito l'accesso in biblioteca), la tesi che la lingua di una collettività determina i pensieri dei suoi componenti.
La citazione iniziale è di Rosenzweig, "la lingua è più del sangue"; ma Klemperer ricorda anche Schiller, "la lingua colta che crea e pensa per te".
Per 300 pagine il pedante professore si sforza di mostrare in che modo il regime nazista impiegò il linguaggio per influenzare il pensiero della popolazione. Certi termini, se usati con sufficiente frequenza e ripetizione, smettono di avere un significato negativo per assumerne uno positivo, o viceversa. Klemperer usa di continuo esempi pratici; il "fanatismo", termine dalla connotazione fino al 1933 negativa nella lingua tedesca, si trasforma lentamente in una qualità. La volontà "fanatica" diventa non la volontà di un esaltato, di un folle, ma la volontà che non tentenna davanti a nessuna difficoltà.
La trasformazione avviene a più livelli. Gli ebrei sono associati invariabilmente al termine parassiti. L'associazione è così automatica, così scontata, che alla fine - per tutti - essi diventano tali, e ciò che è un'affermazione del regime diventa una verità per il popolo.
Ecco, questa era la premessa. E questo è il motivo per cui scrivo queste righe proprio qui. Le parole sono importanti.
Non è irrilevante affermare in continuo, ripetere, martellare, che i politici sono "tutti ladri", "parassiti", "zombie" che vanno "cacciati fuori" a pedate, "seppelliti", che i partiti vanno "spenti". Non è né irrilevante e neppure casuale; testimonia invece una precisa volontà in tal senso, alla quale tutti quelli che ripetono questi concetti si prestano inconsapevolmente.
Ripetiamo invece con forza:
  • Non esiste una sola democrazia al mondo che non abbia partiti. Ci possono essere dittature con più partiti, ma non esistono democrazie monopartitiche.
  • Gli esseri umani non sono parassiti. Che siano ebrei, assassini, zingari o politici non sono parassiti, perchè i parassiti si sterminano.
  • Gli avversari politici non si seppelliscono né si buttano fuori dal Parlamento - o dal partito - a pedate, perché se lo si fa la democrazia diventa solo una parola.
  • Se il potere reale è in mano ad una sola persona, quella non è democrazia. Non basta chiamare democrazia una dittatura perché si trasformi nel suo opposto.
  • Lo scontro politico non è una guerra, perché in guerra gli avversari si uccidono.
L'uso dei termini da parte del Movimento cinque Stelle e il loro contesto sono strutturati in modo da nascondere la carica di violenza (del resto parliamo di un partito fondato da un professionista della risata e un esperto di comunicazione e marketing), ma intanto il linguaggio si diffonde; i concetti si fanno strada nelle menti; l'anormalità si trasforma nella normalità. Siamo già molto avanti su questo percorso.

Il processo


 
(due scope)





























  
(due calci)



 


































(due mani in Parlamento)




































(due parassiti)

Il risultato


































(due famiglie felici)

6 Marzo 1995
Domenico Buscetta 45 anni, nipote del pentito Tommaso

PALERMO - Ormai è guerra. Cosa nostra ha riaperto le ostilità, ha ripreso la mattanza contro i parenti dei pentiti. Ieri sera ha colpito Domenico Buscetta, 45 anni, nipote di Tommaso che per primo collaborò con lo Stato e che ieri ha rilasciato un' intervista a Repubblica. E' stato assassinato in un agguato dopo le 19. Due killer gli hanno sparato con una calibro 38 alla testa. A Palermo è di nuovo emergenza e i magistrati Scarpinato e Lo Forte lanciano l' allarme. La mafia non ha dimenticato, dopo anni di silenzio si è ricordata che ci sono ancora in giro parenti di quell' "infame" che ha aperto il primo squarcio nell' impenetrabile organizzazione, provocando il pentimento di altri capi e picciotti. Domenico Buscetta è stato ucciso mentre usciva da un bar. I sicari lo attendevano a bordo di un' auto sulla quale sono poi fuggiti. Il nipote dell' ex boss dei due mondi è stato ucciso a pochi metri di distanza da dove, dieci anni fa, venne assassinato in un agguato il capitano dei carabinieri Mario D' Aleo e altri due militari. La vittima, che non aveva precedenti penali, era figlio di Vincenzo Buscetta, fratello di Tommaso, ucciso con il figlio Benedetto all' interno della sua fabbrica di specchi in viale Delle Alpi, a Palermo, il 29 dicembre dell' 82. La mattanza contro il pentito, però, era cominciata già l' anno precedente, nell' 81, quando un commando di sicari venne inviato a Torino per assassinare Mariano Cavallaro, fratello della prima moglie di Tommaso Buscetta. Un anno dopo, l' 11 settembre dell' 82, scomparvero i due figli di Tommaso Buscetta, Benedetto e Antonio, 34 e 32 anni, nati dal matrimonio con Domenica Cavallaro. Erano usciti da casa sulla loro Volvo appena acquistata e di loro non si seppe più nulla. Non venne trovata nemmeno la macchina. I due figli di Buscetta erano "entrati" nelle indagini antimafia perché avevano ricevuto 54 banconote da centomila lire provenienti dal sequestro di Armellino. I soldi li avevano avuti da Pippo Calò, che però non aveva detto ai due che si trattava di banconote segnate, provenienti da un sequestro di persona. La vendetta trasversale riprese poi il 26 dicembre dell' 82, quando furono uccisi il genero di Buscetta, Giuseppe Genova e due suoi nipoti, Orazio e Antonio D' Amico, di 20 e 22 anni. Il triplice delitto avvenne a Palermo, vivino la statua della Libertà, dove Genova gestiva una pizzeria. Alla cassa era seduta sua moglie, Felicia, figlia di don Masino, che venne risparmiata dai sicari che probabilmente non la conoscevano. Tre giorni più tardi furono uccisi Vincenzo Buscetta e suo figlio Benedetto, fratello e nipote di don Masino. I due Buscetta furono colpiti nel loro laboratorio artigianale di vetreria in viale Delle Alpi, dove continuavano la tradizione di famiglia: vetrai come il padre e il nonno, un' attività alla quale anche Tommaso Buscetta era stato avviato da ragazzo e che aveva cercato di trasferire durante un periodo trascorso da emigrato a Buenos Aires. Quasi contemporaneamente all' uccisione del fratello e del nipote a Palermo, in Florida furono assassinati Giuseppe Tramontana che era stato testimone di nozze di Buscetta ed un amico del pentito, Tommaso Romano. Infine, il 7 dicembre del 1984 la vendetta trasversale colpì a Bagheria Pietro Buscetta, marito della sorella del pentito, Serafina, che sfuggì per caso ai killer. Da allora sembrava che Cosa nostra avesse dimenticato, che avesse deciso di interrompere le vendette trasversali, di non fare più rumore nella speranza che la pressione dello Stato si allentasse. Invece negli ultimi anni la giustizia ha colpito duramente. Su capi e gregari di Cosa nostra sono piovute pesanti condanne, Riina ha già tre ergastoli sulle spalle, la repressione si è fatta più dura ed il 41 bis, il regime del carcere duro, è stato prorogato. Cosa nostra ha così deciso di riprendere le ostilità e in meno di un mese sono già sette i morti ammazzati a Palermo. La prima vittima, Giusto Giammona, 23 anni, assassinato a Corleone il 28 gennaio; un mese dopo, stessa sorte per la sorella, Giovanna e per il marito Francesco Saporito. Poi la lupara e le 38 colpirono il figlio del boss Gaetano Grado e nipote di Totuccio Contorno, Marco Grado, assassinato con un amico. Il 26 febbraio venne giustiziato Francesco Brugnano, indicato come confidente del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, morto suicida sabato. Ieri la vendetta di Cosa nostra ha colpito il nipote di Tommasino. La mattanza continua. Ed è allarmato Roberto Scarpinato, sostituto procuratore a Palermo e pubblico ministero del processo a Giulio Andreotti: "Bisogna fermare questa macchina di morte che si è messa in moto con un' impressionante violenza. Bisogna capire con certezza qual è, al di là dei suoi obiettivi parziali, il bersaglio finale. Potrebbero prepararsi eventi molto gravi". E gli fa eco Guido Lo Forte, procuratore aggiunto: "Dico no a facili ironie sui pentiti, che quando decidono di collaborare firmano la loro condanna a morte. Quella in atto è un' offensiva contro di loro". - di FRANCO VIVIANO
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lunedì 4 marzo 2013

4 Marzo 1976
Giuseppe Muscarella 50 anni, sindacalista comunista

A Mezzojuso (Palermo) assassinio del dirigente dell'Alleanza coltivatori Giuseppe Muscarella.
Due anni prima aveva rotto con la Coldiretti e molti contadini poveri e piccoli allevatori avevano aderito all'Alleanza coltivatori. Aveva promosso una campagna per l'acquisto collettivo di ferilizzanti rompendo il monopolio delle cosche e aveva proposto la costituzione di una cooperativa. Anche grazie allo sviluppo del movimento dei contadini-allevatori le sinistre avevano conquistato il Comune. Prima del delitto c'erano stati atti intimidatori contro numerosi contadini della sona.


Articolo del 5.03.1976 da LA STAMPA.it

Sindacalista del pci è ucciso in Sicilia mentre di notte torna a casa a cavallo

Palermo, 4 marzo. Vendetta mafiosa nelle campagne di Mezzojuso, paesino a 30 chilometri da Palermo: il sindacalista Giuseppe Muscarella, 50 anni, sposato e padre di quattro bambini, è stato ucciso con due fucilate alle spalle. Gli assassini, dopo averlo freddato, gli hanno impiccato la cavalla sulla quale stava rientrando a casa. Il delitto risale a ieri sera ma soltanto stamane alcuni contadini di contrada «Curila» hanno scoperto il cadavere occultato fra i cespugli, vicino ad un piccolo rustico appartenente alla vittima. Muscarella presiedeva la locale sezione della " Alleanza coltivatori siciliani", l'organizzazione contadina del pei che stasera ha fatto sentire la propria voce con una durissima presa di posizione in cui si parla di « omicidio mafioso ». Finora la tragica notizia è stata tenuta nascosta ai quattro bambini (che hanno dai 3 ai 12 anni) ed uno dei quali, Salvatore, di 8 anni, è gravemente ammalato di cuore: il padre stava facendo economie su economie per raccogliere i soldi necessari per farlo operare dal professor De Backey ad Houston, negli Stati Uniti. Questo delitto segue di appena otto mesi l'uccisione — anch'essa di stampo mafioso — di Calogero Monreale, 34 anni, segretario dell' "Alleanza coltivatori siciliani" di Roccamena, non molto distante da Mezzojuso. Monreale fu assassinato a pistolettate e gli autori del crimine non sono stati ancora scoperti. Monreale e Muscarella sono stati vittime di vendette locali, di « fatti personali », oppure sono caduti come altri sindacalisti in Sicilia (Salvatore Carnevale e Carmine Battaglia) uccisi per ordine dell'* alta mafia che 15-20 anni fa non voleva insidiati i feudi dalle rivendicazioni dei braccianti? Però a Mezzojuso, piccolo centro di origine albanese, non vi sono feudi né s'è assistito finora a scontri sindacali di particolare entità. Giuseppe Muscarella alleva maiali e galline e, incensurato, passava per un uomo tutto casa, lavoro e sezione dell' "alleanza" dov'era sempre presente alle assemblee. La moglie Giuseppina Gattuso, 41 anni, gestisce un negozietto di generi alimentari. La donna è stata lungamente interrogata ma non ha saputo indicare uno spiraglio sicché le indagini sono praticamente ferme. Gli investigatori tengono conto però di alcuni precedenti senza dubbio significativi: infatti sei anni fa Giuseppe Muscarella subì un primo « avvertimento » mafioso quando, una notte, gli sterminarono un piccolo gregge di pecore (gliene scannarono sei e « sgarrettarono » una dozzina); più tardi gli ammazzarono alcuni maiali. a. r.
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domenica 3 marzo 2013

3 Marzo 1946
Masina Perricone 33 anni, casalinga

Antonio Guarisco, comunista, si batteva per i diritti dei contadini; alle prime elezioni dopo il fascismo venne candidato a sindaco di Burgio. Il 3 marzo del 1946 subì da un attentato mafioso. Guarisco restò ferito, al suo posto morì Masina Perricone, una donna di Burgio in attesa di un figlio, centrata da un proiettile vagante. Guarisco non si lasciò intimidire, fece un’agguerrita campagna elettorale e si presentava ai comizi con le braccia
bendate per le ferite riportate. Venne eletto ma portò a lungo i segni di quell’intolleranza. Il nome di Masina Perricone non risulta negli albi ufficiali delle vittime della mafia della Regione. È rimasto per anni sepolto per un errore di superficialità e distrazione. Il dattilografo (o chi per lui) nel trascriverlo ha fatto più di una confusione e invece di indicarla come vittima dell’agguato mafioso a Guarisco l’ha inclusa nello spazio riservato a Gaetano Guarino, sindaco di Favara, ucciso due settimane dopo.
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sabato 2 marzo 2013

2 Marzo 1948
Epifanio Li Puma 36 anni, mezzadro, sindacalista

La sua vita s’è svolta essenzialmente nella sua Raffo, anche se la sua azione toccò l’intero comprensorio delle Madonie. Mezzadro di idee antifasciste alla fine della seconda guerra mondiale è stato promotore del movimento dei contadini per la riforma agraria come organizzatore sindacale (della Cgil), politico (era un esponente del Partito Socialista Italiano) e di cooperative. Di orientamento nettamente riformista era contrario ad ogni estremismo ed alle teorie rivoluzionarie.
Nel secondo dopoguerra, sindacalista e capolega dei mezzadri e braccianti senza terra, fu determinato e irriducibile nella promozione dei diritti dei lavoratori contro gli agrari eversori della legalità.
Uomo simbolo della giustizia sociale, eroe delle Alte Madonie, in Sicilia, non volle piegarsi alla prepotenza e alle minacce di un potere e di un sistema malsano.
È stato barbaramente assassinato dalla mafia agraria, al soldo dei baroni, nei terreni di Alburchìa tra Petralia Soprana e Gangi. Nonostante ai suoi funerali, a Petralia Soprana, fossero stati apertamente denunciati i mandanti del suo omicidio, nessuno pagò per la sua morte.
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2 Marzo 1988
Donato Maria Boscia 31 anni, ingegnere

Aveva 31 anni. Aveva una carriera lunghissima davanti a sé. Era un ingegnere con un cuore grande così e con un'onestà limpida. Si chiamava Donato Maria Boscia e la sera del 2 marzo 1988 fu freddato a Palermo da cinque colpi di pistola. Fu la mafia a decretare il brutale assassinio. Il maxiprocesso, celebrato e conclusosi a Palermo nel 1997 con 22 condanne di cui 14 all' ergastolo, dimostrò che era coinvolto nell' omicidio del giovane ingegnere di Gioia del Colle anche Salvatore Riina. Che Balduccio Di Maggio era implicato nei fatti. Che Donato Maria Boscia morì perché stava costruendo una sezione dell' acquedotto siciliano sul quale la mafia non era riuscita a mettere le mani. Domani, il prefetto di Bari, Tommaso Blonda, consegnerà ai genitori di Donato Maria, la medaglia d' oro al valor civile. Durante la conferenza stampa di ieri, il prefetto ha parlato con visibile commozione del giovane ingegnere. «È un dolore immenso e allo stesso tempo un orgoglio infinito», ha detto Blonda. «Si era laureato a 23 anni al Politecnico di Torino in ingegneria - racconta l' anziano padre Vito - e da subito aveva cominciato a ricevere proposte di lavoro. Dopo il servizio militare scelse di lavorare per la Ferrocementi di Roma e in poco tempo aveva già fatto tanta carriera. Gli assegnarono la direzione del cantiere per l'acquedotto a Palermo: doveva sfondare il Monte Grifone e aveva scommesso con gli operai che sarebbe riuscito a farlo entro il 14 aprile dell' 88. Poi, la disgrazia e gli operai continuarono a lavorare anche di notte e senza paga, ma riuscirono a traforare l' ultimo muro il 14 aprile. Scherzando diceva che sarebbe tornato da Palermo in una bara, ma noi non potevamo sospettare anche se dei segnali li avevamo avuti. Attentati ai mezzi meccanici, danni. Poi un giorno, Balduccio Di Maggio che si presenta da lui fingendo di essere un operaio in cerca di lavoro. Ma queste sono cose che abbiamo saputo solo dopo». La sera del 2 marzo, Donato stava tornando a casa. Smontava dal servizio alle 17, s' intratteneva sempre un po' di più sul cantiere con gli operai. Gli orari della sua giornata erano sempre gli stessi e i killer lo sapevano. Bloccarono la sua auto ad un incrocio, lo freddarono con cinque colpi di pistola. «Mi do la colpa di quel suo modo di essere - dice il padre - Ai miei figli ho fatto sempre da fratello maggiore, qualche volta anche da fratello minore». (il.fi.)
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