venerdì 30 novembre 2012

30 Novembre 1977
Attilio Bonincontro 53 anni, Agente di custodia

Attilio Bonincontro era nato a Noto (SR) il 27 gennaio 1924. Faceva il Brigadiere del Corpo degli Agenti di Custodia in servizio presso la Casa Circondariale Ucciardone di Palermo. Il 30 novembre 1977 venne colpito a morte da una raffica di proiettili nell’androne della propria abitazione.

giovedì 29 novembre 2012

29 Novembre 1983
Sebastiano Alongi imprenditore

A Prizzi (Palermo) scompare il piccolo imprenditore Sebastiano Alongi. La moglie, Anna Pecoraro, costituitasi parte civile nel procedimento contro ignoti, ha denunciato i favoritismi e gli interessi mafiosi nella concessione degli appalti, che avrebbero portato all'isolamento e all'uccisione del marito.
28 Novembre 1949
Salvatore Messina Maresciallo dei carabinieri
Francesco Butifar Appuntato

Alle ore 10.30, del 28 novembre 1949, il Maresciallo Capo Salvatore MESSINA, Comandante della Stazione Carabinieri di Bagheria Alta (PA), unitamente al dipendente Appuntato Francesco BUTIFAR, si recavano in una stalla ubicata in via Truden [a circa 100 mt. dal luogo dove si è svolta la cerimonia di intitolazione della piazza], per le ricerche di un carro agricolo oggetto di furto. Giunti sul posto, i militari sorprendevano 6 individui di cui uno intento a tagliare i capelli di altro.
Il Maresciallo procedeva alla loro identificazione, lasciando l’Appuntato BUTIFAR a guardia, sull’ingresso.
Nel corso delle operazioni, il Maresciallo si accorgeva della presenza di una pistola lasciata su una cassa vuota, riuscendo ad impossessarsene. A questo punto, uno dei malviventi estraeva una pistola dalla cintola e colpiva il maresciallo MESSINA al quale, nel cadere, sfuggiva di mano l’arma.
In un tentativo estremo, il Sottufficiale cercava di estrarre la propria pistola d’ordinanza, venendo nuovamente colpito a morte. Nel medesimo frangente altri malviventi ferivano gravemente anche l’Appuntato BUTIFAR che, tuttavia, riusciva a trascinarsi dietro un riparo dal quale rispondeva al fuoco, ferendo uno dei malfattori.
Di seguito, il graduato, in un supremo sforzo, tentava anche di inseguire per strada i fuggitivi, abbattendosi a terra dopo pochi metri, privo di forze. Rinvenuto da un collega, occasionalmente in transito in quella strada, veniva trasportato presso l’Ospedale Militare di Palermo dove, tuttavia, giungeva cadavere.
Fonte

mercoledì 28 novembre 2012

28 Novembre 1946
Paolo Farina sindacalista

Paolo Farina, sindacalista, venne ucciso il 28 novembre 1946 a Comitini (AG).

domenica 25 novembre 2012

25 Novembre 1985
Biagio Siciliano 14 anni, studente
Maria Giuditta Milella 17 anni, studentessa

A volte la mafia uccide con la sua sola presenza, senza dovere impugnare armi o progettare attentati. È quello che successe il 25 Novembre 1985.
Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta: due giudici istruttori nel mirino della mafia. Condividono la scorta, causa scarsità di fondi. Le auto di scorta sfrecciano veloci per le strade, ansiose di evitare fermate o ingorghi, con l’urgenza di non fermarsi e di non rallentare per non trovarsi vittime di un agguato. Viaggiano a sirene spiegate, in corteo, ma a volte non basta.

Quel giorno le auto dei giudici sfrecciano verso il palazzo di giustizia. Un’auto, una fiat uno, sbarra loro la strada all’improvviso. Le auto cercano di evitarla e sbandano piombando su alcuni studenti del liceo Meli di Palermo che attendono l’autobus.
Biagio Siciliano, di 14 anni, muore sul colpo. Giuditta Milella, di 17 anni, morirà all’ospedale una settimana dopo. Molti altri ragazzi rimangono feriti, alcuni molto gravemente.

Sappiamo molto di come reagì Borsellino a questa tragedia. Lo ha raccontato il suo biografo, lo hanno raccontato i suoi figli. Per Borsellino è un colpo durissimo. Telefona in lacrime al consigliere istruttore Caponnetto, che era rientrato a Firenze per un breve periodo di vacanza. Caponnetto rientra d’urgenza a Palermo per stargli vicino. Borsellino non si darà pace per giorni, continuerà a recarsi in ospedale a visitare i ragazzi feriti e a parlare con i loro familiari. Riuscirà a scuotersi solo parecchio tempo dopo, quando la madre di un ragazzo ancora in coma gli dirà che mai lo avrebbe ritenuto responsabile, nemmeno se suo figlio fosse morto.

Ecco, questo ci dice qualcosa di come reagirono i genitori di quei ragazzi a queste morti insensate. Reagirono così, da cittadini. Non si scagliarono contro i magistrati e le loro scorte, anche se sarebbe stato comprensibile e umano. Straziati dal dolore, sostennero quei magistrati, li spronarono a continuare a combattere. E con loro i compagni di Biagio e Giuditta. Questa storia racconta tanto della gente di Sicilia, ma tanto davvero…

Lo stesso Borsellino dichiarò “la mafia dovrà essere chiamata a rispondere del sacrificio di queste vittime innocenti”.

Ventitré anni fa, c’era una scuola a piazza Croci, a Palermo: il liceo classico “Giovanni Meli”. E c’era una fermata d’autobus. I ragazzi non si preoccupavano troppo del percorso che bisognava affrontare per arrivare dal portone alla pensilina verde.
Per passare dalla stanchezza delle lezioni di latino, dallo sfiancante ritmo di Rosa rosae… alla promessa del ritorno a casa sull’autobus “4” affollato fino all’inverosimile. Quel giorno – era il 25 novembre del 1985 – la storia sembrava la stessa. Sì, la stessa storia normale di sempre. Il ritorno a casa, il pranzo con i genitori, i compiti, gli amici, le cotte, la sera, lo zaino per il giorno dopo. Qualcuno sentì un sibilo di sirena in lontananza e non si preoccupò troppo. In fondo, era normale che le macchine di scorta ai magistrati sfrecciassero in via Libertà. Qualcuno si sporse sulla strada, dalla fermata, per scorgere la sagoma dell’autobus. Una macchina di scorta ai giudici Leonardo Guarnotta e Paolo Borsellino, guidata da un carabiniere, carambolò su un’altra auto all’incrocio e finì la sua corsa nel cuore della fermata. Biagio Siciliano, un ragazzo della IV D, morì quasi subito. Maria Giuditta Milella, della IIIB, spirò in ospedale, giorni dopo. Biagio era figlio di Nicola che faceva l’operaio e di Maria Stella. Maria Giuditta era figlia di Carlo, vicequestore, e di Francesca. Seguirono giorni convulsi. Guarnotta e Borsellino straziati dall’incidente e dal senso di colpa. I funerali, la rabbia della gente. Chi scrive, quel giorno, era alla fermata come tanti. E si salvò per un caso. Ora, è rimasta soltanto una targa, con un mazzo di fiori, alla fermata di piazza Croci. E al posto della scuola c’è una banca.
Fonte
25 Novembre 1946
Giovanni Severino sindacalista

Giovanni Severino, sindacalista, venne ucciso il 25 novembre 1946 a Joppolo Giancaxio (AG).

sabato 24 novembre 2012

24 Novembre 1982
Carmelo Cerruto 56 anni, agente di custodia

Carmelo Cerruto era nato a Modica (RG) il 1 dicembre 1926. Brigadiere del Corpo degli Agenti di Custodia prestava servizio presso l’Istituto per Minori di San Cataldo. Venne ucciso a colpi d’arma da fuoco il 24 novembre 1982, alle ore 8,30 in via Regina Elena, mentre si reca in servizio.

venerdì 23 novembre 2012

Falcone e i pentiti

I motivi che spingono i pentiti a parlare talora sono simili tra loro, ma più spesso diversi. Buscetta durante il nostro primo incontro ufficiale dichiara: “Non sono un infame. Non sono un pentito. Sono stato mafioso e mi sono macchiato di delitti per i quali sono pronto a pagare il mio debito con la giustizia “. Mannoia: “Sono un pentito nel senso più semplice della parola, dato che mi sono reso conto del grave errore che ho commesso scegliendo la strada del crimine”. Contorno: “Mi sono deciso a collaborare perché Cosa Nostra è una banda di vigliacchi e assassini”.
Mannoia è quello che più ha risvegliato la mia curiosità. Avevo avuto a che fare con lui nel 1980, in seguito a una indagine bancaria che indicava come sia lui sia la sua famiglia tenessero grosse somme di denaro su diversi libretti di risparmio. Mannoia al termine del processo fu condannato a cinque anni di carcere, il massimo della pena previsto allora per associazione a delinquere. Non ero riuscito a farlo condannare per traffico di droga. Durante gli interrogatori mi era sembrato un personaggio complesso e inquietante. Non antipatico, dignitoso e anche coerente. Nel 1983 evase di prigione e fu arrestato di nuovo nel 1985.
Nel frattempo Buscetta mi aveva parlato di un certo Mozzarella – era il soprannome di Mannoia -, “killer di fiducia di Stefano Bontate”. Nel 1989 al Mannoia uccidono il fratello, Agostino, che adorava. Capisce che il suo spazio vitale nell’ambito di Cosa Nostra si sta restringendo. Perché o hanno ucciso suo fratello a torto – e deve chiederne conto e ragione -, oppure lo hanno ucciso a ragion veduta; in entrambi i casi significa che anch’egli sarà presto eliminato. Fa una lucida analisi della situazione e decide di collaborare.
Le cose sono andate così. Nel settembre 1989 il vicequestore Gianni De Gennaro mi chiama per avere informazioni sull’attuale situazione giudiziaria di Francesco Marino Mannoia. Una donna, che si era qualificata come la sua compagna, era andata a trovarlo per dirgli che Mannoia era pronto a collaborare, ma che voleva avere a che fare solo con due persone: con lui e con Falcone dato che, diceva la donna, “non si fida di nessun altro”.
Con l’aiuto del Dipartimento penitenziario del ministero di Grazia e Giustizia, Mannoia viene trasferito in una speciale struttura carceraria, allestita a Roma appositamente per lui. Ufficialmente è detenuto a Regina Coeli, dove peraltro viene condotto per i suoi incontri. Per tre mesi abbiamo parlato in tutta tranquillità. Poi, diffusasi la notizia della sua collaborazione, Cosa Nostra gli uccide in un colpo solo la madre, la sorella e la zia. Il pentito reagisce da uomo e porta a termine le sue confessioni.
Mannoia è un superstite; “soldato” di Stefano Bontate, quindi membro di una famiglia ritenuta perdente a seguito della guerra di mafia, era riuscito a rimanere neutrale e aveva continuato, fra il 1977 e il 1985, a raffinare eroina – era il miglior chimico dell’organizzazione – per tutte le famiglie che gli facevano ordinazioni. Anche in carcere aveva continuato a mantenere buoni rapporti con tutti i detenuti. Applicava al meglio un antico proverbio siciliano: “Calati, juncu, ca passa la china – Abbassati, giunco, che passa la piena”. Aspettava in silenzio di prendersi la rivincita sui “Corleonesi”. Da qui la sua straordinaria confessione, una delle più dense mai rilasciate, e una massa di informazioni che siamo ben lontani dall’avere completamente sfruttato.
Sono stato pesantemente attaccato sul tema dei pentiti. Mi hanno accusato di avere con loro rapporti “intimistici”, del tipo “conversazione accanto al caminetto”. Si sono chiesti come avevo fatto a convincere tanta gente a collaborare e hanno insinuato che avevo fatto loro delle promesse mentre ne estorcevo le confessioni. Hanno insinuato che nascondevo “nei cassetti” la “parte politica” delle dichiarazioni di Buscetta. Si è giunti a insinuare perfino che collaboravo con una parte della mafia per eliminare l’altra. L’apice si è toccato con le lettere del “corvo”, in cui si sosteneva che con l’aiuto e la complicità di De Gennaro, del capo della polizia e di alcuni colleghi, avevo fatto tornare in Sicilia il pentito Contorno affidandogli la missione di sterminare i “Corleonesi”!

Insomma, se qualche risultato avevo raggiunto nella lotta contro la mafia era perché, secondo quelle lettere, avevo calpestato il codice e commesso gravi delitti. Però gli atti dei miei processi sono sotto gli occhi di tutti e sfido chiunque a scovare anomalie di sorta. Centinaia di esperti avvocati ci hanno provato, ma invano.
La domanda da porsi dovrebbe essere un’altra: perché questi uomini d’onore hanno mostrato di fidarsi di me? Credo perché sanno quale rispetto io abbia per i loro tormenti, perché sono sicuri che non li inganno, che non interpreto la mia parte di magistrato in modo burocratico, e che non provo timore reverenziale nei confronti di nessuno. E soprattutto perché sanno che, quando parlano con me, hanno di fronte un interlocutore che ha respirato la stessa aria di cui loro si nutrono.
Sono nato nello stesso quartiere di molti di loro. Conosco a fondo l’anima siciliana. Da una inflessione di voce, da una strizzatina d’occhi capisco molto di più che da lunghi discorsi.

Sono dunque diventato una sorta di difensore di tutti i pentiti perché, in un modo o nell’altro, li rispetto tutti, anche coloro che mi hanno deluso, come in parte Contorno. Ho condiviso la loro dolorosa avventura, ho sentito quanto faticavano a parlare di sé, a raccontare misfatti di cui ignoravano le possibili ripercussioni negative personali, sapendo che su entrambi i lati della barricata si annidano nemici in agguato pronti a far loro pagare cara la violazione della legge dell’omertà.
Provate a mettervi al loro posto: erano uomini d’onore, riveriti, stipendiati da un’organizzazione più seria e più solida di uno Stato sovrano, ben protetti dal loro infallibile servizio d’ordine, che all’improvviso si trovano a doversi confrontare con uno Stato indifferente, da una parte, e con un’organizzazione inferocita per il tradimento, dall’altra.
Io ho cercato di immedesimarmi nel loro dramma umano e prima di passare agli interrogatori veri e propri, mi sono sforzato sempre di comprendere i problemi personali di ognuno e di collocarli in un contesto preciso. Scegliendo argomenti che possono confortare il pentito nella sua ansia di parlare. Ma non ingannandolo mai sulle difficoltà che lo attendono per il semplice fatto di collaborare con la giustizia. Non gli ho dato mai del tu, al contrario di tanti altri; non lo ho mai insultato, come alcuni credono di essere autorizzati a fare, e neppure gli ho portato dolci siciliani, come qualcuno ha insinuato: “Falcone porta tutti i giorni i cannoli a Buscetta...”. Tra me e loro c’è sempre un tavolo, nel senso proprio e metaforico del termine: sono pagato dallo Stato per perseguire dei criminali, non per farmi degli amici.
A volte ci si chiede se ci sono pentiti “veri” e pentiti “falsi”. Rispondo che è facile da capire se si conoscono le regole di Cosa Nostra. Un malavitoso di Adrano (Catania), un certo Pellegriti che aveva già collaborato utilmente coi magistrati per delitti commessi in provincia di Catania, aveva stranamente dichiarato di essere informato sull’assassinio a Palermo del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. Nel 1989 mi reco con alcuni colleghi a trovarlo in prigione per saperne di più e il Pellegriti racconta di essere stato incaricato da mafiosi palermitani e catanesi di recapitare nel capoluogo siciliano le armi destinate all’assassinio.
Era chiaro fin dalle primissime battute che mentiva. Infatti è ben strano che un’organizzazione come Cosa Nostra, che ha sempre avuto grande disponibilità di armi, avesse la necessità di portare pistole a Palermo; né è poi pensabile, conoscendo leferree regole della mafia, che un omicidio “eccellente”, deciso al più alto livello della Commissione, venga affidato ad altri che a uomini dell’organizzazione di provata fede, i quali ne avrebbero dovuto preventivamente informare solo i capi del territorio in cui l’azione si sarebbe svolta; mai comunque estranei come il Pellegriti. I riscontri delle dichiarazioni di Pellegriti, subito disposti, hanno confermato, come era previsto, che si trattava di accuse inventate di sana pianta.
Nel 1984 ci viene segnalato un altro “candidato” al pentimento: Vincenzo Marsala. Nel corso del processo per l’omicidio del padre, aveva pronunciato accuse molto gravi contro le famiglie di Termini e di Caccamo, sostenendo di aver ricevuto le informazioni in suo possesso dal padre.
Lo faccio condurre a Palermo e dal tenore di alcune sue risposte mi convinco che si tratta al novantanove per cento di un uomo d’onore, nonostante i suoi dinieghi. Gli dico allora: “Signor Marsala, a partire da questo momento lei è indiziato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Decida che cosa fare”. Mi guarda e insiste di non far parte di Cosa Nostra. Interrompo l’interrogatorio e lo rinvio. Qualche settimana dopo ha fatto sapere di essere pronto a parlare seriamente. La sua confessione di mafioso si è rivelata utilissima.
Conoscere i mafiosi ha influito profondamente sul mio modo di rapportarmi con gli altri e anche sulle mie convinzioni.
Ho imparato a riconoscere l’umanità anche nell’essere apparentemente peggiore; ad avere un rispetto reale, e non solo formale, per le altrui opinioni.
Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso – il tradimento, o la semplice fuga in avanti – provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi. L’imperativo categorico dei mafiosi, di “dire la verità”, è diventato un principio cardine della mia etica personale, almeno riguardo ai rapporti veramente importanti della vita. Per quanto possa sembrare strano, la mafia mi ha impartito una lezione di moralità.
Questa avventura ha anche reso più autentico il mio senso dello Stato. Confrontandomi con lo “Stato-mafia” mi sono reso conto di quanto esso sia più funzionale ed efficiente del nostro Stato e quanto, proprio per questa ragione, sia indispensabile impegnarsi al massimo per conoscerlo a fondo allo scopo di combatterlo.
Mi rimane comunque una buona dose di scetticismo, non però alla maniera di Leonardo Sciascia, che sentiva il bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia. Il mio scetticismo, piuttosto che una diffidenza sospettosa, è quel dubbio metodico che finisce col rinsaldare le convinzioni. Io credo nello Stato, e ritengo che sia proprio la mancanza di senso dello Stato, di Stato come valore interiorizzato, a generare quelle distorsioni presenti nell’animo siciliano: il dualismo tra società e Stato; il ripiegamento sulla famiglia, sul gruppo, sul clan; la ricerca di un alibi che permetta a ciascuno di vivere e lavorare in perfetta anomia, senza alcun riferimento a regole di vita collettiva. Che cosa se non il miscuglio di anomia e di violenza primitiva è all’origine della mafia? Quella mafia che essenzialmente, a pensarci bene, non è altro che espressione di un bisogno di ordine e quindi di Stato.
E’ il mio scetticismo una specie di autodifesa?
Tutte le volte che istintivamente diffido di qualcuno, le mie preoccupazioni trovano conferma negli eventi. Consapevole della malvagità e dell’astuzia di gran parte dei miei simili, li osservo, li analizzo e cerco di prevenirne i colpi bassi.
Il mafioso è animato dallo stesso scetticismo sul genere umano. “Fratello, ricordati che devi morire” ci insegna la Chiesa cattolica. Il catechismo non scritto dei mafiosi suggerisce qualcosa di analogo: il rischio costante della morte, lo scarso valore attribuito alla vita altrui, ma anche alla propria, li costringono a vivere in stato di perenne allerta. Spesso ci stupiamo della quantità incredibile di dettagli che popolano la memoria della gente di Cosa Nostra. Ma quando si vive come loro in attesa del peggio si è costretti a raccogliere anche le briciole. Niente è inutile. Niente è frutto del caso. La certezza della morte vicina, tra un attimo, una settimana, un anno, pervade del senso della precarietà ogni istante della loro vita.
Conoscendo gli uomini d’onore ho imparato che le logiche mafiose non sono mai sorpassate né incomprensibili. Sono in realtà le logiche del potere, e sempre funzionali a uno scopo. Ho imparato ad accorciare la distanza tra il dire e il fare. Come gli uomini d’onore.
In certi momenti, questi mafiosi mi sembrano gli unici esseri razionali in un mondo popolato da folli. Anche Sciascia sosteneva che in Sicilia si nascondono i cartesiani peggiori...
Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità?

Fonte
23 Novembre 1989
Leonarda Costantino 62 anni
Lucia Costantino 50 anni
Vincenza Marino Mannoia 24 anni

Vengono uccise a Bagheria (Palermo), Leonarda Costantino, Lucia Costantino e Vincenza Marino Mannoia, rispettivamente madre, zia e sorella del boss Francesco Marino Mannoia, che aveva cominciato a collaborare con la giustizia.
Fu una vendetta trasversale, nel tentativo inutile di far tacere il pentito.
Libera non le annovera tra le vittime innocenti di mafia, forse perché tutte appartenenti a una famiglia mafiosa.
Il giudice Falcone si riferirà spesso a questo delitto quando invocherà una legge che consenta una protezione efficace dei collaboratori di giustizia e dei loro familiari.



Queste morti mi offrono lo spunto per aprire una parentesi sui pentiti.
Su di loro è stato detto tutto e il contrario di tutto, dimostrando spesso ignoranza o, peggio, malafede. Tra le altre cose sono stati trattati da infami non solo dai loro “compagni di delitto” come era naturale che fosse, ma dalla cosiddetta società civile. Si dimentica per esempio che moltissima parte del maxiprocesso istruito dal pool di Falcone e Borsellino si basa sulla testimonianza di due pentiti, Totuccio Contorno e Tommaso Buscetta.
Falcone definì Buscetta come “un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti”, intendendo che il pentito aveva fornito una chiave di lettura della struttura ma anche dei codici comportamentali di Cosa Nostra.
Credo che niente meglio delle parole del giudice Falcone stesso, possa far capire quale fosse il suo rapporto con loro, e quanto li ritenesse fondamentali per riuscire a vincere la guerra contro Cosa Nostra.
Posterò un suo testo a questo proposito, tra i tanti. L’ho scelto perché parla proprio di Francesco Marino Mannoia. Nel sito da cui l’ho preso ne sono disponibili molti altri. È un brano lungo, tratto dal suo libro Cose di Cosa Nostra, ma per favore leggetelo fino in fondo: sono sicura che coglierete quanto profondo fosse in Falcone la capacità di entrare in sintonia con queste persone, e il suo rispetto per loro. Il giudice li rispettava, e cercava di comprenderli, senza semplificare né liquidare con disprezzo i loro drammi e i loro tormenti.
Spero che sia uno spunto per parlare tutti insieme dei pentiti.
23 Novembre 1947
Giuseppe Maniaci dirigente del partito comunista

Giuseppe Maniaci, segretario della Confederazione (Federterra) e dirigente del partito comunista, venne ucciso a Terrasini (PA) il 23 novembre 1947.

domenica 18 novembre 2012

18 Novembre 1945
Giuseppe Scalìa sindacalista

Era il 18 novembre del 1945 quando a Cattolica Eraclea, piccolo centro dell’Agrigentino, fu ucciso in un attentato il sindacalista socialista Giuseppe Scalia, tra i fondatori della cooperativa agricola La Proletaria.
Scalia passeggiava davanti alla sede della Camera del Lavoro in compagnia del vice-sindaco socialista Aurelio Bentivegna. Contro i due furono lanciate bombe a mano da un gruppo di sicari mafiosi. Non furono aperte neanche le indagini.
Finita la guerra, Scalia si era posto con altri contadini alla testa del movimento bracciantile. La sua azione fu convinta e coraggiosa, per questo venne scelto per la carica di segretario della Camera del Lavoro locale. Nei mesi in cui ricoprì questo incarico crebbe la stima di tutti verso la sua persona e la sua intelligenza politica. Contemporaneamente crebbe l’odio della mafia locale e degli agrari che cercavano di conservare i propri privilegi.
Nonostante le minacce di morte e il clima di paura che dominava in quegli anni nelle campagne, Scalia perseverò nel suo impegno, spesso recandosi nei centri vicini per sostenere le lotte dei contadini di Siculiana, Montallegro e Sciacca.
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sabato 17 novembre 2012

17 Novembre 1920
Stefano Caronia Arciprete

Arciprete impegnato per la sua attività di "prete sociale", legata all'insegnamento di Leone XIII e all'azione di Don Sturzo.

Vecchio esponente del Partito Popolare Italiano e sostenitore dell'azione delle cooperative popolari si impegnò nella battaglia contro feudatari locali a favore della popolazione di Gibellina, domandando a Roma l'esproprio dei feudi circostanti, a favore della locale Cooperativa Agricola, sollecitando all'azione i suoi compaesani con queste parole:

« A tutta la classe dei borghesi e degli agricoltori perché non restino indifferenti, perché non si lascino turlupinare dai feudatari, né dagli intermediari, grossi gabelloti già arricchitisi col frutto del sudore dei lavoratori. »
(S. Caronia)

Nell'agosto 1920 320 persone si erano già inscritte nella sezione locale del PPI in appoggio a questa battaglia, che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere di carattere amministrativo. Venne ucciso con tre colpi di rivoltella, nel pomeriggio tardo del 17 novembre 1920, in pieno centro paese, vicino alla Cooperativa di Consumo che aveva contribuito a far crescere.
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venerdì 16 novembre 2012

16 Novembre 1948
Giovanni Tasquier brigadiere

Giovanni Tasquier, Brigadiere di Pubblica Sicurezza della Questura di Palermo, venne ucciso il 16 novembre 1948 a Giardinello (PA) in località Ponte Nocella in un agguato dalla banda Giuliano. Tasquier faceva parte di una pattuglia mista Polizia-Carabinieri quando la jeep sulla quale viaggiava venne investita da raffiche di mitra esplose in agguato. Tasquier rimase ucciso sul colpo mentre tre carabinieri rimasero feriti.

mercoledì 14 novembre 2012

14 Novembre 1982
Calogero Zucchetto 27 anni, poliziotto

Calogero Zucchetto (Sutera, 3 febbraio 1955 – Palermo, 14 novembre 1982) è stato un poliziotto italiano.
Si occupava di mafia ed in particolare collaborava alla ricerca dei latitanti che allora erano molto numerosi. All’inizio degli anni ottanta, presso la squadra Mobile della Questura di Palermo, collaborò con il commissario Ninni Cassarà alla stesura del c.d. “rapporto Greco più 161″ che tracciava un quadro della guerra di mafia iniziata nel 1981, dei nuovi assetti delle cosche, segnalando in particolare l’ascesa del clan dei corleonesi capeggiato da Totò Riina. Riuscì ad entrare in contatto anche con il pentito Totuccio Contorno che si rese molto utile con le sue confessioni per la redazione del rapporto dei 162.
Con il commissario Cassarà andava in giro in motorino per i vicoli di Palermo ed in particolare per quelli della borgata periferica di Ciaculli, che conosceva bene, a caccia di ricercati. In uno di questi giri con Cassarà incontrò due killer al servizio dei corleonesi, Pino Greco detto “scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo, che aveva frequentato quando non erano mafiosi. Questi lo riconobbero e non si fecero catturare. All’inizio di novembre del 1982, dopo una settimana di appostamenti, tra gli agrumeti di Ciaculli riconobbe il latitante Salvatore Montalto, boss di Villabate, ma essendo solo e non avendo mezzi per catturarlo rinunciò alla cattura, avvenuta poi il 7 novembre con un blitz del Cassarà.
La sera di domenica 14 novembre 1982, all’uscita dal bar “Collica” in via Notarbartolo, un’elegante via del centro di Palermo, fu ucciso con cinque colpi di pistola alla testa sparati da due killer in sella ad una moto.
Successivamente gli autori del delitto vennero individuati in Mario Prestifilippo e Pino Greco, gli stessi che aveva incrociato in motorino. Come mandanti furono in seguito condannati i componenti della “cupola mafiosa”, cioè gli appartenenti all’organo più importante della “Cosa Nostra”, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Calogero Ganci ed altri.
Fonte

Sessanta giorni dopo l’uccisione di Dalla Chiesa, il 14 novembre 1982, venne assassinato in un elegante bar del centro di Palermo, Calogero Zucchetto, poliziotto della sezione investigativa che aveva da poco compiuto ventisette anni. E i giornali italiani, forse stanchi per l’overdose dell’argomento mafia nell’ultimo periodo dedicarono un modesto rilievo a quell’agguato che invece confermava, ancora una volta, quanto fosse alto il potere militare delle cosche sul territorio. Era un’agente semplice Zucchetto, perché meravigliarsi se avevano tolto di mezzo anche lui? In realtà Zucchetto svolgeva un delicatissimo lavoro sul rapporto dei “162” – quello che piaceva a Dalla Chiesa – e per conto del suo direttore superiore – il funzionario della sezione investigativa, Ninni Cassarà – faceva da esca in ambienti mafiosi pur di riuscire a mettere insieme un tassello dietro l’altro. Un bel ragazzo, dall’aria un po’ dinoccolata, che aveva iniziato il suo apprendistato a diciannove anni, e per una breve parentesi aveva preso parte alle prime rudimentali scorte affiancate al giudice Falcone. Esuberante, gran lavoratore, intelligenza pronta, Zucchetto aveva manifestato subito il desiderio di “andare in strada”. Trascorreva nottate intere nelle discoteche e nelle paninerie palermitane. Aveva ottimi agganci anche nel mondo grigio della prostituzione, delle case di appuntamenti, delle sale corse, del mercato ortofrutticolo, punti di riferimento naturali questi di una varia umanità che a Palermo spesso incontra la mafia sul suo cammino.
[…]Spesso con il suo “vespone” anche quando non era in servizio, se ne andava in giro per i viottoli degli agrumeti di Ciaculli, gli occhi bene aperti a spiare i movimenti degli uomini dell’esercito del boss Michele Greco, soprannominato il “Papa(?!)”. Alla fine di ottobre giunse alla mobile la “soffiata” giusta: qualcuno giurava di aver visto in un’auto, dalle parti di Villabate, il boss Salvatore Montalto, che da tempo si era dato alla latitanza. Per accertare questa circostanza Zucchetto – incaricato da Cassarà di occuparsi del caso – impiegò una decina di giorni, trascorsi con altri collaboratori in uno snervante lavoro di appostamento a bordo di un’auto senza radio (quindi non collegate con la centrale) per non alimentare i sospetti.
Finalmente la mattina del 28 ottobre, dalle parti di Ciaculli, il poliziotto ficcanaso incontrò tre uomini che parlavano fra loro, accanto alle auto dalle quali erano scesi.
Un brivido scosse Zucchetto: ma quello non era Salvatore Montalto? E quell’altro non era il feroce super killer Pino Greco soprannominato “ “scarpuzzedda”? E c’era anche Mario Prestifilippo, “Mariuzzo”,giovanissimo tiratore scelto che si sarebbe macchiato di decine e decine di delitti per conto delle cosche legate ai corleonesi. Una pesca davvero miracolosa quel giorno. Tanto miracolosa da non potere essere messa a segno con la semplice “esca” Zucchetto. […] Dovette precipitarsi alla cabina telefonica più vicina, chiese rinforzi, ma volò via del tempo prezioso. Un buco nell’acqua: i tre si erano dileguati. Il 31 ottobre, appena tre giorni dopo, Zucchetto e altri poliziotti si nascosero alla meno peggio tra piccoli alberi di limoni poco distanti dalla villa dove Salvatore Montalto, ancora ignaro di tutto, trascorreva la sua latitanza. […] Ancora una volta i poliziotti preferirono attendere l’occasione più propizia. Il primo novembre ’82, il cerchio si strinse: Ninnì Cassarà e Calogero Zucchetto, con l’aria innocente di due giovani universitari, ripercorsero in vespa la zona proibita. Si imbatterono in “scarpuzzedda” e Prestifilippo ed ebbero entrambi la spiacevole sensazione che la loro presenza questa volta non fosse passata inosservata. Il 7 novembre ’82 la villa del latitante Salvatore Montalto venne accerchiata con tutti i crismi, e l’irruzione dei poliziotti si concluse con la cattura del boss. Zucchetto non prese parte al blitz. Non firmò alcun atto di servizio. Le precauzioni non servirono: anni prima, quando ancora i Prestifilippo non erano ricercati perché non inseriti nel rapporto dei “162”, Zucchetto li aveva conosciuti e frequentati. Il poliziotto aveva tradito la loro antica ospitalità. Si era spinto fin dentro quella roccaforte di mafia – la borgata di Ciaculli - dove i latitanti razzolavano indisturbati. Una bella lezione, ormai, non gliela levava nessuno.
Zucchetto aveva l’abitudine di lavorare anche di domenica, e quindi poteva benissimo essere ammazzato anche di domenica: un modo sbrigativo scelto dalla mafia per ripetere che non gradisce i funzionari troppo zelanti, e anche un modo di approfittare della maggiore rilassatezza della vittima designata. Zucchetto venne ucciso alle 21 e 25 del 14 novembre, con cinque colpi di pistola calibro 38, davanti al bar Collica, dopo aver consumato la sua ultima birra e il suo ultimo panino.
[…]Zucchetto fu il primo di un’altra lunga serie. Sarebbe stato assassinato Cassarà , il suo diretto superiore. Sarebbe stato assassinato Giuseppe Montana, l’altro funzionario che dava la caccia ai latitanti. Cassarà e Montana capirono più degli altri il significato vero dell’eliminazione di Zucchetto. Si resero conto che le famiglie dell’eroina stavano tornando – dopo l’uccisione di Boris Giuliano a prender di petto la polizia.
Cassarà, Montana e Zucchetto, avevano contribuito alla stesura di quel rapporto dei “162”, primo tentativo serio di inquadrare ciascuna famiglia al posto giusto, disegnando la mappa dei cosiddetti “vincenti” e “perdenti”.
[…] Ma la morte del poliziotto – esca venne letta con la giusta chiave solo dagli addetti ai lavori.
Saverio Lodato, Trent’anni di mafia
Vorrei ricordare un ragazzo che nei momenti migliori della sua vita non esitò a lottare contro quel cancro chiamato Cosa Nostra. Come dirò, poteva evitare di partecipare al blitz, ma la sua onestà, il suo attaccamento a quei principi morali che avevano sempre contraddistinto il suo comportamento, non gli impedì d’essere presente alla cattura del Capo mafia Salvatore Montalto di Villabate.
Ventisette anni fa, domenica 14 novembre 1982, davanti al bar Collica di via Notarbartolo, l’Agente Calogero Zucchetto, per noi della Mobile palermitana “Lillo” fu barbaramente assassinato da killers di Cosa Nostra.
Lillo, una settimana prima della cattura, era stato visto insieme a Ninni Cassarà alle Balate di Villabate/Ciaculli, mentre a bordo della Vespa ritornavano dal sopralluogo della villa/covo del Montalto. Nel percorrere la stradina dell’agro, incrociarono una A/112 con a bordo Pino Greco “scarpuzzedda”, Mario Prestifilippo “mariolino” e Giovanni Fici, tutti latitanti di Cosa Nostra. Gli occupanti l’auto riconobbero Lillo.
Un paio di sere dopo, mentre Lillo s’apprestava a salire sulla sua auto parcheggiata davanti casa, notò che Mariolino Prestifilippo era lì a lanciargli un silenzioso avvertimento. Cassarà, informato della presenza del mafioso, volle accelerare il blitz per la domenica successiva, ossia il 7 novembre, invitando lo stesso Lillo a non partecipare. Lillo, invece, risentitosi affermò che sarebbe intervenuto lo stesso, tanto “ormai mi hanno riconosciuto e quindi penseranno subito a me e male che vada mi faranno saltare la macchina in aria”. Domenica 14 il dramma.
Nel corso della mia carriera di poliziotto ho conosciuto tante persone, ma ragazzi seri e preparati come Lillo ne conobbi davvero pochi. In Lillo apprezzai la sincerità e il comportamento da persona perbene: l’onestà era la linfa con la quale nutriva il suo impegno antimafia. Egli, volle a tutti i costi lasciare la sua pattuglia per transitare nella mia, confidandomi le motivazioni del repentino cambiamento. La piena fiducia accordatami, mi indusse a credere che Lillo era intellettualmente un galantuomo dotato di principi altamente morali. Ed io oggi voglio ricordarlo con quel sorriso silente che spesso mi deliziava nei nostri solitari e taciturni (entrambi parlavamo poco) appostamenti sul costone della montagna che sovrasta Ciaculli.
Grazie Lillo per avermi dato quella fiducia che non hai riposto in altri e per avermi dato la possibilità di ricambiare l’amicizia. Noi due non avemmo tanto tempo per stare insieme, purtroppo i cosiddetti Uomini d’onore, impedirono il nostro progetto di lavorare insieme, ma di una cosa sono certo che Cosa Nostra non riuscì a toglierti dal mio cuore. Grazie Lillo per l’amicizia. Il tuo segreto è ben custodito."
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sabato 10 novembre 2012

10 Novembre 1992
Gaetano Giordano 55 anni, parrucchiere

Gaetano Giordano(Riesi 9 giugno 1937 – Gela 10 novembre 1992). Dopo il militare apre un’attività di parrucchiere per uomo. Nel 1963 conosce Franca Evangelista, genovese, arrivata a Gela per motivi di lavoro del padre. In seguito Franca e Gaetano si frequentano, si fidanzano e si sposano, consolidando l’attività economica che nel frattempo si era trasformata in negozi di profumeria (unici per molto tempo nel territorio gelese). Nascono due figli Massimo e Tiziana in una realtà di lavoro sana e fiorente. Marito e moglie collaborano nell’attività commerciale in un contesto familiare e lavorativo concreto e normale, i ragazzi studiano con profitto e, finito il liceo a Gela, accedono alla Luiss di Roma. Negli anni 1980-90 Gela è una polveriera; incendi e sparatorie fra clan rivali per la supremazia del territorio. I commercianti, che sino ad allora come fatto di costume, si adeguavano a pagare il pizzo( pochi esclusi, compresi noi, non erano disturbati) cominciavano a scalpitare, cercando di uscire da questo mal costume. Nel 1989 a seguito di una richiesta estorsiva si fa regolare denuncia. Il 10 novembre del 1992 senza che nulla facesse presagire quanto poi è successo, alle ore 20, Gaetano Giordano veniva ucciso sotto casa con cinque colpi alla schiena mentre con il figlio, ferito nella sparatoria, stava rientrando a casa. Dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia si scopre che l’uccisione di Gaetano Giordano è stata decisa a sorte tramite estrazione del biglietto con il suo nome (altri 3-4 commercianti che come lui avevano denunciato erano segnati negli altri bigliettini quindi papabili vittime). All’età di 55 anni Gaetano Giordano cessava di vivere per mano di alcuni mafiosi che vengono poi arrestati l’anno dopo.
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Gaetano Giordano non era un eroe. Aveva due figli ed era il proprietario di un noto negozio in pieno centro storico, a Gela. Conosceva la legge della mafia, sapeva benissimo di dover pagare il pizzo per non incappare in situazioni spiacevoli e pericolose per lui e per la sua famiglia; conosceva anche la storia di Libero Grassi e ne ricordava soprattutto l’epilogo, pertanto sapeva a cosa si andava incontro se si disobbediva alle leggi della mafia, ma tutto ciò non gli importava. O meglio, Gaetano era consapevole, più di tutti gli altri suoi concittadini, del fatto che, per riemergere dalle tenebre dell’incubo del pizzo e della sudditanza nei confronti dei poteri criminali, era necessaria una rivoluzione partecipata di tutto il popolo, una rivoluzione nella quale tutti i commercianti e gli imprenditori dovevano imporsi il coraggio di urlare il proprio “no” in faccia all’estorsore che, periodicamente, si presentava alle porte delle imprese per riscuotere il pizzo. La voglia di sentirsi partecipe di un’ondata di cambiamento fu il principio dell’odissea di Gaetano. Il suo estorsore era un ragazzino, uno di quei tipacci prelevati dalla strada troppo presto, un ventenne la cui massima aspirazione era ritrovarsi in galera nel giro di qualche anno. “Aveva la faccia da bambino e un sorriso innocente” ricorda Franca, la moglie dell’imprenditore. Si chiamava Ivano Rapisarda, per gli amici e colleghi “Ivano Pistola”, ed indubbiamente meno innocenti del suo sorriso erano le motivazioni che lo spingevano a bussare alla porta di Gaetano, il quale, alla richiesta della tassa da pagare alla mafia, aveva sempre risposto con un “no” secco e deciso. Tuttavia, Ivano Pistola non amava essere cacciato in malo modo dai negozi come un criminale qualunque, così ebbero inizio le ritorsioni e l’imprenditore iniziò a pagare le conseguenze del suo coraggio: dopo innumerevoli minacce, gli incendiarono il negozio e gli arrecarono danni per 200 milioni. Stanco di dover fare i conti con un’organizzazione che si sostituiva allo Stato e pretendeva forse più dello Stato, Gaetano denunciò tutto ai carabinieri e il Pistola finì tra le sbarre senza deludere le aspettative. Cosa nostra però non poteva permettere che tutto ciò avvenisse senza intralci, così, il 10 novembre del 1992, decise di troncare la vita dell’imprenditore.

Cinque colpi di pistola e la fine di un uomo che non amava reputarsi un eroe e, anzi, quando si lodava il suo coraggio, era solito rispondere: "Io coraggioso? Macche'. Io ho una fifa da matti. Ma non posso piegarmi proprio ora che i commercianti hanno fatto la rivoluzione con le denunce degli estorsori".

Gaetano Giordano non era un eroe; era semplicemente un imprenditore per il quale pagare il pizzo non sarebbe mai stato “normale” o necessario. Gaetano Giordano era un uomo normale, ma sappiamo benissimo che comportarsi da uomini normali, in alcune situazioni ed in determinate realtà, diviene qualcosa di eroico, dunque anche Gaetano Giordano è da considerarsi un eroe, della stessa tempra di coloro che tutt’oggi combattono la medesima battaglia per reclamare il proprio diritto alla Libertà e il proprio NO alle prepotenti richieste della mafia.
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10 Novembre 1988
Carmelo Zaccarello 24 anni

Carmelo era un bravo ragazzo.
La sua vita si è spenta prima di poter festeggiare il suo venticinquesimo compleanno.
Il destino con lui è stato terribilmente cinico, inflessibile. La sua era ed è una normale famiglia perbene, onesta di Siracusa. Il padre, morto poco tempo fa, gestiva un piccolo bar, il “Bar Moka", in Via Roma, nel cuore di Ortigia. Carmelo lo aiutava abitualmente e ancora di più nei momenti di maggiore afflusso di clienti, come la sera della vigilia di San Martino.
L’ultima sera della sua vita, il 10 Novembre 1988, il ragazzo stava lavorando nel bar con la sua fidanzata, Cinzia, e il padre. Qualcuno sorseggiava il buon caffè di “zio” Pippo Zaccarello, qualche altro mangiava le calde tradizionali “zippole”, chiacchierando e ridendo. Poi, all’improvviso, si è scatenato un inferno. Spari, grida, sangue dovunque. Una strage: due morti e quattro feriti. Due bande di farabutti appartenenti a opposte “famiglie” mafiose si sono violentemente affrontate in quei pochi metri quadrati. Carmelo è morto lì, ucciso da quelli che la stampa impropriamente definisce col vocabolario della criminalità: “uomini d’onore”. Cinzia rimane ferita. Il padre sconvolto vede morire il suo giovane figliolo.
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10 Novembre 1979
Giovanni Bellissima 24 anni, brigadiere
Salvatore Bologna 41 anni, appuntato
Domenico Mazzara 50 anni, appuntato

Il brigadiere Giovanni Bellissima, di 24 anni, originario di Mirabella Imbaccari, gli appuntati Domenico Mazzara di 50, di Reggio Calabria e Salvatore Bologna, di 41, di Palazzolo Acreide stavano scortando da Catania a Bologna il boss Angelo Pavone. Al casello autostradale di San Gregorio a Catania la Mercedes guidata da Angelo Paolello, di 42 anni, fu assalita da un commando. Mentre l’autista rimase ferito i tre carabinieri furono uccisi. I killer prelevarono Pavone che undici giorni dopo fu ritrovato cadavere in una discarica vicino alle falde dell’Etna.

venerdì 9 novembre 2012

9 Novembre 1995
Serfino Famà 57 anni, avvocato penalista

9 novembre 2010. Sono trascorsi 15 anni dall’omicidio per mano criminale dell’avvocato Serafino Famà. Egli nacque il 3 aprile del 1938 a Misterbianco in provincia di Catania; era un avvocato penalista, che considerava la sua funzione non semplicemente come un lavoro, lui ci credeva, indossava la toga e la onorava ogni giorno. Credeva nella giustizia, nel diritto di ogni uomo ad essere difeso, nella legalità. “Onestà e coraggio. Se ti comporti con onestà e coraggio non devi avere paura di nulla”. Per quel suo rifiuto ad una richiesta di un mafioso venne condannato a morte da quel boss che oggi collabora con la giustizia.

Sono le 21 del 9 novembre 1995: all'angolo tra viale Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca vengono esplosi sei colpi di pistola calibro 7,65 che colpiscono e uccidono l'avvocato Serafino Famà. Lui e il collega Michele Ragonese sono appena usciti dallo studio poco distante e stanno raggiungendo la macchina posteggiata in piazzale Sanzio, pronti a tornare a casa. Poi gli spari, Famà si accascia al suolo, è ancora vivo, ma per poco. Alle 21.20, al suo arrivo in ambulanza al Pronto Soccorso dell'ospedale Garibaldi, ha già smesso di respirare.
Per un anno e mezzo le indagini su quel delitto non portano a nessuna soluzione, fino al 6 marzo 1997, data in cui Alfio Giuffrida, affiliato e reggente del clan mafioso Laudani, manifesta la sua intenzione di collaborare con la giustizia.
Secondo i PM Ignazio Fonzo e Agata Santonocito, il mandante, dal carcere, è Giuseppe Di Giacomo (reggente del clan Laudani), gli esecutori materiali sono Salvatore Catti e Salvatore Torrisi, mentre lo stesso Giuffrida e Fulvio Amante osservano la scena da un'automobile. Il 16 marzo del 1998 il GUP del Tribunale di Catania dispone il rinvio a giudizio per loro e per altre quattro persone, accusate di omicidio volontario pluriaggravato, porto e detenzione illegali di arma da fuoco e ricettazione.
Il movente dell'omicidio è semplice: «Gli ha fregato i soldi...», dice il boss Di Giacomo al cognato Matteo Di Mauro, durante uno dei loro colloqui all'interno della casa circondariale di Firenze. Il soggetto, però, non è Serafino Famà, bensì l'avvocato Tommaso Bonfiglio, legale Di Giacomo, dal quale avrebbe ottenuto tra i duecento e i duecentocinquanta milioni di lire con la promessa di immediata scarcerazione, non avvenuta. Ma colpire Bonfiglio sarebbe stato un azzardo, avrebbe aggravato la situazione di Di Giacomo: il contrordine arriva pochi giorni dopo. Di Mauro comunica a Giuffrida «di lasciar perdere l'avvocato Bonfiglio, ma di fare l'avvocato Famà». Perché Famà?
Le ragioni di questa scelta sono da ricercarsi in un procedimento di alcuni anni prima: Di Giacomo era stato arrestato mentre si trovava a letto con Stella Corrado, moglie di suo cognato Matteo Di Mauro. L'infedeltà di Di Giacomo e della Corrado avrebbe potuto causare pesanti problemi all'interno del clan, qualora fosse stata resa pubblica. Di Giacomo aveva programmato l'omicidio della Corrado, ma era stato arrestato prima di poterlo portare a compimento; a quel punto ha sperato che la sua amante lo scagionasse durante una deposizione che avrebbe dovuto rendere al Tribunale di Catania in un processo a carico di Di Mauro, difeso dall'avvocato Famà. Ma Famà aveva consigliato alla donna di astenersi dal fare qualunque dichiarazione, e lei aveva accettato il consiglio del legale.

Nella sentenza sull'omicidio Famà, si legge: «Di Giacomo si lamentava dell’arresto subìto, che riteneva ingiusto anche per le modalità con cui era stato eseguito, e contava molto sulle dichiarazioni di Stella Corrado per dimostrare la sua innocenza». E ancora: «La mancata deposizione della Corrado, certamente conseguente all’intervento dell’avvocato Famà, era stata vista dal Di Giacomo come la causa diretta della irrealizzabilità del proprio scopo (cioè la scarcerazione, ndr)».
Cominciano gli appostamenti, vengono coinvolti altri membri del clan. Si trovano in una stalla ad Aci Bonaccorsi quando Gaetano Gangi e Mario Basile comunicano che Famà è chiuso nello studio, e ci rimarrà probabilmente il tempo necessario perché lo raggiungano e gli tendano l'agguato. Nel giro di poche ore, Serafino Famà è una vittima della mafia. I giudici, nelle motivazioni della sentenza di colpevolezza a carico degli imputati, pronunciata il 4 novembre 1999, scrivono: «Le risultanze processuali pertanto, per come sopra evidenziato, hanno dimostrato che il movente dell’omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletata dall’avvocato Famà».
Di Mauro, Di Giacomo, gli esecutori e gli autisti sono stati condannati all'ergastolo. Al collaboratore di giustizia Alfio Giuffrida è stata comminata la pena di diciotto anni di reclusione.


Di seguito è riportato un frammento di lettera di Flavia Famà, figlia di Serafino, scritta il 9 novembre 2009 in suo onore e in sua memoria:
"Sono passati 14 anni da quel 9 novembre del 1995 quando all'uscita dallo studio mio padre fu ucciso. Ucciso per dare l'esempio a chi, come lui, non intendeva ascoltare i "consigli" dei clienti. Nasce il 3 aprile del 1938 a Misterbianco in provincia di Catania. Mio padre era un avvocato penalista, non era solo un lavoro, lui ci credeva. Credeva nella giustizia, nel diritto di ogni uomo ad essere difeso, nella necessarietà di applicare e far rispettare la legge."Onestà e coraggio"; se ti comporti con onestà e coraggio non devi avere paura di nulla mi diceva. Catania, 1995, una città difficile, intrisa di omertà, paura e accondiscendenza, purtroppo non molto distante dalla Catania di oggi...Il fatto scatenante è stato un processo che indirettamente coinvolgeva un'assistita di mio padre: questa donna era in casa con un uomo quando quest'ultimo viene arrestato, l'avvocato difensore dell'uomo ritiene fondamentale per la scarcerazione del suo cliente la testimonianza della donna, mio padre non lo ritiene opportuno e nonostante le richieste dell'altro avvocato dice alla sua assistita di non essere tenuta a farlo ed anzi pare che glielo sconsigli. L'uomo viene condannato e decide di uccidere il suo avvocato, quest'ultimo si discolpa dicendo che tutto è dipeso dalle scelte di mio padre. Indipendenza e libertà non potevano essere tollerate da loro. Non si è mai capito quale sia stata la reale influenza dell'avvocato sulla decisione di quell'uomo che dal carcere fece partire l'ordine di uccidere. Un omicidio che ha lasciato un testimone oculare incolume, un collega e caro amico di mio padre che quella sera era lì con lui e che è rimasto a lungo sotto choc. Tutti a volto scoperto. Non ho voluto citare i nomi dei soggetti coinvolti soltanto perché non voglio che il ricordo di mio padre venga associato a quello dei suoi carnefici. Mi piacerebbe che venisse ricordato per la sua onestà intellettuale, per il coraggio con cui difendeva ogni giorno le sue idee. Com'è cambiata la mia vita, come ho vissuto e vivo questo legame profondo... è un'altra storia."

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giovedì 8 novembre 2012

8 Novembre 1991
Vincenzo Giordano benzinaio

Vincenzo Giordano era un benzinaio di Marina di Caronia, piccolo centro sulla statale Palermo Messina ucciso in un agguato l’8 novembre del 1991. Grazie alla testimonianza di Antonella Gangemi, all’ epoca diciassettenne si scoprirono le circostanze che portarono a questo delitto. Il fratello di Antonella, Calogero, era di 2 più grande, ma era già inserito in una banda di spacciatori. Un gruppo di balordi che decide di uccidere Vincenzo Giordano per ritorsione: l’ uomo si era rivolto ai carabinieri perché’ impedissero a quei giovani di farsi vedere nei pressi del distributore. La risposta della gang fu immediata: la sera dell’ 8 novembre il benzinaio venne ucciso con una scarica di lupara al volto.
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8 Novembre 1947
Vito Pipitone 39 anni, segretario della camera del lavoro di Marsala

Vito Pipitone, nacque a Marsala il 27.03.1908; venne ucciso a Marsala in seguito ad un agguato mafioso in data 08.11.1947.
Il sindacalista aveva portato avanti diverse battaglie contro il latifondo ed era riuscito a strappare ai notabili vari feudi, tra cui alcuni in contrada fiocca, tra Marsala e Mazara. […]
Lasciò la moglie, Di Dia Filippa (allora di anni 37 – deceduta nel 1989) e quattro figli, Pietro (allora aveva 8 anni), Maria Pia (allora di anni 6), Antonio (allora di anni 4) e Melchiorre (allora di anni 2 – deceduto nel 1959).
È un contadino, ma anche un dirigente delle cooperative dei contadini riunite nella Confederterra, capo della Lega contadina di quella parte del territorio di Marsala rifacentesi alla odierna contrada Terrenove-Bambina e dirigente della Camera del Lavoro di Marsala. Vito si batte per garantire ai lavoratori un giusto stipendio, la pensione, per evitare che lavorino più di otto ore al giorno. Ha già partecipato ad altre occupazioni di terre incolte in alcuni feudi del territorio marsalese, per esempio dei feudi “Rinazzo” e Ciavolo, utilizzando le “occupazioni delle terre” come forme di pressione verso le Commissioni circondariali che dovrebbero decidere queste concessioni, e che vanno lentissime, frenate dalle pressioni dei grandi proprietari, ed è riuscito a strappare ai notabili alcuni feudi distribuiti poi ai braccianti.
All’occupazione di Rinazzo avevano preso parte migliaia di contadini che, a dorso di muli o su carri o in bicicletta, erano arrivati dalle varie contrade di Marsala. Nei luoghi della occupazione i contadini avevano approvato ordini del giorno con i quali rivendicavano l’intensificazione del lavoro della Commissione Circondariale addetta alla assegnazione delle terre incolte alle cooperative, l’incarico alle leghe contadine per l’assunzione della manodopera bracciantile disoccupata, la stipula di un nuovo contratto per i braccianti agricoli.
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martedì 6 novembre 2012

6 Novembre 1981
Sebastiano Bosio 52 anni, medico

Sebastiano Bosio era un chirurgo palermitano, nato nel capoluogo siciliano il 18 agosto del 1929. Dopo la laurea in Medicina, egli aveva seguito corsi di specializzazione in Francia, venendo anche a contatto con medici di spessore, come Michael De Backey, uno dei fondatori della moderna cardiochirurgia. Negli anni ’60, allestì una sala operatoria in un casello ferroviario abbandonato della linea Palermo – Messina, per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’inefficienza della pubblica amministrazione, problematica che gli stava molto a cuore. Nel 1974 divenne primario della Chirurgia Vascolare dell’ospedale Civico di Palermo.
Il 6 novembre del 1981, all’età di cinquantadue anni, fu ucciso da due killer di Cosa nostra, in via Simone Cuccia. La mafia seppe depistare da subito le indagini, mettendo in giro la voce che il chirurgo avesse curato il killer dei clan perdenti, Salvatore Contorno, e che per questo fu punito dalle cosche rivali. Per anni, fino al 2009, il nome di Sebastiano Bosio è stato accostato a quello di Contorno; poi si è aperta una nuova pista per gli investigatori, secondo i quali Bosio fu ucciso per la sua onestà e per la sua avversità nei confronti dei mafiosi, a cui non riservava lo stesso trattamento che riservava ai cittadini perbene. Il pentito Francesco Di Carlo ha spiegato che il chirurgo aveva trattato con estrema insufficienza un picciotto che era stato ferito durante un blitz della polizia, a Villagrazia di Palermo. L’ambiente in cui Bosio si trovava a lavorare inoltre, non era dei più trasparenti e decorosi. Sempre Di Carlo, parla di un collega del medico che intratteneva rapporti d’amicizia con il boss Vittorio Mangano e della situazione di isolamento in cui era costretto, a causa della sua tenace intransigenza e del rigore con cui portava avanti il suo lavoro. I depistaggi però, hanno congelato le indagini attorno al nome di Contorno e dopo trent’anni, la verità appare più che mai distante, anche in virtù del fatto che i quattro proiettili estratti dal corpo del medico sono misteriosamente scomparsi e risulta dunque quasi impossibile un riscontro che potrebbe arrivare dalla perizia balistica. Il processo, che si basa solo sulle dichiarazioni di un pentito, è arricchito dalle testimonianze dei familiari, che raccontano di un Sebastiano turbato in seguito ad una telefonata dell’ex direttore sanitario Beppe Lima, fratello del più noto Salvo Lima, durante la quale pare che abbia detto: “Tu non puoi impormi nulla perché nel mio reparto comando io. Se continui, ti denuncio”. Non una vicenda semplice da delineare dunque, quella che ha visto coinvolto il chirurgo palermitano Sebastiano Bosio, un’altra vittima, oltre che della mafia, di un sistema occulto di poteri criminali ed istituzionali.
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sabato 3 novembre 2012

3 Novembre 1947
Calogero Caiola

San Giuseppe Jato (Palermo) viene ucciso Calogero Caiola. Doveva testimoniare per la strage di Portella della Ginestra.
3 Novembre 1915
Bernardino Verro 49 anni, dirigente del Partito Socialista, sindaco di Corleone

Dovette essere davvero un ribelle temerario questo Bernardino Verro da Corleone se, nel 1892, all'età di 26 anni, osò definire "usurpatori e sfruttatori del popolo" gli amministratori comunali, che l'avevano assunto come impiegato. Sicuramente un sovversivo, un "disobbediente", un "cani ca nun canusci patruni", per dirla tutta. E la risposta dei "padroni" del municipio - che poi erano i più ricchi proprietari terrieri di questo grosso centro agricolo a 60 chilometri da Palermo e, alcuni, anche componenti della famigerata associazione segreta dei "fratuzzi" (come allora si chiamavano i mafiosi) - non si fece attendere: lo licenziarono immediatamente. La rappresaglia politica, però, non scoraggiò affatto Verro, che, insieme a Calogero Milone, Biagio Gennaro, Francesco Puccio, Liborio Termini, Angelo Provenzano e Francesco Streva, costituì il circolo repubblicano-socialista "La Nuova Età", con l'obiettivo di battersi per il rinnovamento sociale e politico di Corleone. Un pugno nello stomaco per i notabili del paese, che con rabbia dovettero prendere atto del "brutto" carattere del giovane Verro, sempre più vicino alla nascente ideologia socialista. E, quando in Sicilia spuntarono come funghi i fasci contadini, uno dei primi a nascere - l'8 settembre 1892 - fu quello di Corleone, presieduto proprio da Bernardino Verro. "Il nostro fascio - dichiarò con orgoglio al giornalista Adolfo Rossi, in un'intervista per "La Tribuna" di Roma dell'autunno 1893 - conta circa seimila soci tra maschi e femmine, ma ormai si può dire che, meno i signori, ne fa parte tutto il paese, tant'è vero che non facciamo più distinzione fra soci e non soci. Le nostre donne hanno capito così bene i vantaggi dell'unione tra i poveri, che oramai insegnano il socialismo ai loro bambini". L'unione tra i poveri: era questo il messaggio semplice e rivoluzionario dei fasci. Verro e gli altri "apostoli" del socialismo isolano lo spiegavano così ai contadini: "Se voi prendete una verga sola la spezzate facilmente, se ne prendete due le spezzate con maggiore difficoltà. Ma se fate un fascio di verghe è impossibile spezzarle. Così, se il lavoratore è solo può essere piegato dal padrone, se invece si unisce in un fascio, in un'organizzazione, diventa invincibile".

Fame e miseria, volontà di scrollarsi di dosso secoli di schiavitù feudale e speranza di riscatto sociale costituirono la molla che spinse enormi masse di senza terra e di senza lavoro ad unirsi, a rivendicare patti agrari più giusti e condizioni di vita più umane. Alla loro testa si misero intellettuali e professionisti, che ne assicurarono la direzione: Bernardino Verro a Corleone, Nicolò Barbato a Piana dei Greci, Giacomo Montalto a Trapani, Lorenzo Panepinto a S. Stefano di Quisquina, Giuseppe De Felice Giuffrida a Catania. Un fenomeno rilevante, che mise in crisi il blocco agrario, in un contesto in cui l'intero Stato italiano era investito da una profonda crisi economica ed era incerto sulla strada da seguire per far fronte all'irrompere sulla scena sociale del movimento socialista e del movimento cattolico.
Verro, da "modesto travet del ruolo esecutivo di gruppo C - scrive lo storico Francesco Renda - divenne, nell'arco di pochi mesi, una potenza politica, che tratta da pari a pari coi maggiori esponenti politici dell'isola". E il 31 luglio 1893, al congresso dei fasci che si celebra a Corleone, ormai "capitale contadina", ottiene l'approvazione dei "Patti di Corleone", che rappresentano il primo contratto sindacale scritto dell'Italia capitalistica. La loro forza non stava tanto nei contenuti (proponeva l'applicazione generalizzata della mezzadria, depurata dagli orpelli angarici, imposti negli ultimi anni dai padroni), ma nell'idea semplice e rivoluzionaria che i contadini non dovevano più trattare da soli con i padroni, ma come organizzazione. Assumendo come piattaforma rivendicativa "I Patti", in autunno si svilupparono imponenti scioperi contadini, conclusi quasi ovunque con successo. Ma nei primi di gennaio del 1894 i Fasci siciliani furono sciolti d'autorità e repressi nel sangue dal governo Crispi. Verro e gli altri capi socialisti furono arrestati, processati dai tribunali militari e condannati a 16-18 anni di galera. Scarcerato qualche anno dopo per l'intervenuta amnistia, Verro continuò con decisione la sua attività politico-sindacale a favore dei contadini, organizzando gli scioperi dei primi anni del '900. Nel 1906 a Corleone nacque la cooperativa "Unione agricola", che diventò lo strumento per attuare le "affittanze collettive", un sistema, cioè, per sottrarre i contadini alla intermediazione parassitaria dei gabellati mafiosi e contrattare uniti e direttamente con i proprietari l'affitto degli ex feudi. Fu lo stesso Verro a descrivere in maniera incisiva le nuove condizioni create dalle affittanze collettive. "Codesti antichi gabellati mafiosi - dichiarò egli il 31 gennaio 1911 - finchè erano stati i soli a pretendere in affitto gli ex feudi, avevano potuto imporre ai proprietari e ai contadini le condizioni più favorevoli ai loro interessi, mentre invece col sorgere della cooperativa agricola e coi relativi scioperi i contadini erano venuti a trovarsi di fronte ad una concorrenza formidabile, in quanto che la cooperativa offriva ai proprietari delle terre estagli più elevati di quelli imposti dai gabellati mafiosi. Da qui l'odio profondo di costoro, che venivano lesi nei loro interressi…". Un odio che già aveva decretato la morte di due militanti socialisti: il bracciante agricolo Luciano Nicoletti, assassinato dalla mafia il 14 ottobre 1905, e il medico Andrea Orlando, freddato il 13 gennaio dell'anno successivo.
Ma la mafia di Corleone aveva un motivo in più per odiare Verro: lo considerava un "traditore". Nell'aprile del 1893, infatti, il capo dei contadini corleonesi aveva aderito all'organizzazione dei "fratuzzi" con tanto di cerimonia di iniziazione, che lui stesso descrisse in un memoriale*. L'aveva fatto in un momento particolare, quando il cerchio degli agrari gli si stava stringendo pericolosamente attorno, con l'intento di assassinarlo. Avvicinato da Calogero Gagliano, che gli promise la protezione della mafia contro gli agrari, Verro giocò la partita azzardata di far parte dell'organizzazione per provare a neutralizzarla. Ma ben presto si rese conto dell'impossibilità di conciliare gli interessi del movimento contadino con quelli dei gabellati mafiosi. Già durante il grande sciopero del settembre 1893, i "fratuzzi" si mobilitarono per boicottarlo, fornendo agli agrari la manodopera necessaria per la coltivazione delle terre che i contadini si rifiutavano di coltivare. D'allora Verro se ne allontanò e - come testimoniato dagli stessi organi di polizia - divenne il loro più acerrimo nemico. Non a caso, in un pubblico comizio tenuto la sera del 31 ottobre 1910 in piazza Nascè, Verro attaccò violentemente la mafia, il sindaco Vinci e i suoi assessori. "Siete riusciti a rendere Corleone il più disgraziato dei comuni della Sicilia, lasciandogli solo il triste vanto di essere la sede della Cassazione della mafia siciliana", fu l'accusa che il leader contadino lanciò agli amministratori comunali. E la reazione non si fece attendere. Sei giorni dopo, mentre Verro si trovava seduto nella farmacia del dott. Francesco Palazzo, gli furono sparati contro due colpi di fucile caricato a mitraglia, che fortunatamente lo ferirono di striscio al polso sinistro. "Per questa volta i picciotti fecero fumo!", ironizzò Verro, rivolto ai curiosi che erano arrivati in farmacia dopo la sparatoria.
Fallito l'attentato, la mafia e gli agrari provarono a far fuori Verro con l'arma della calunnia. Il cassiere della cooperativa "Unione agricola", Angelo Palazzo, aveva falsificato delle cambiali, truffando il Banco di Sicilia. Datosi alla latitanza, ebbe degli abboccamenti col pretore di Corleone, al quale confidò che era stato Verro il vero autore delle cambiali false. In base a queste dichiarazioni il dirigente contadino venne arrestato in maniera plateale il 21 settembre 1912 a Roma, dove stava partecipando al congresso delle cooperative. L'arresto segnò il periodo più difficile e doloroso della vita di Verro. All'amico avvocato Gioacchino Giordano, che lo andava a trovare in carcere, disse: "Credilo, se mi avessero accusato di avere voluto far saltare il Quirinale, se io fossi accusato di un delitto politico qualsiasi, che comportasse, magari, la pena di morte, la fucilazione, la forca, resterei tranquillo. Ma, vedi, mi hanno imputato di falso!". "E gli occhi gli luccicavano: quel ciglio che era restato sempre asciutto pei propri dolori e aveva avuto lacrime solo per le sofferenze altrui, era bagnato", racconta Giordano.
Perché Angelo Palazzo avesse coinvolto Verro nel falso in cambiali è chiaro: intanto per attenuare le proprie responsabilità e poi perché spinto dagli esponenti della mafia locale, ai quali si era avvicinato, che così avevano trovato un sistema indolore per sbarazzarsi del capo contadino, infangandone persino l'onore.
Verro rimase in carcere per dieci lunghi mesi, ma finalmente nel luglio 1913 fu liberato e potè fare ritorno a Corleone, accolto entusiasticamente dai contadini, che sapevano della sua onestà. Tutti erano convinti che le accuse infamanti e la terribile esperienza del carcere l'avessero fiaccato, ma Verro stupì amici e avversari. Iniziò nuovamente ad organizzare i contadini, riprese a combattere e ottenne successi strepitosi. Nel 1914 venne eletto consigliere provinciale, insieme al compagno di partito Vincenzo Schillaci, la lista socialista vinse le elezioni comunali e Verro, con 1.455 voti di preferenza, risultò il primo eletto, diventando il primo sindaco socialista della città.

Per la mafia e gli agrari fu troppo. Nel primo pomeriggio del 3 novembre 1915, Bernardino Verro, uscito dal municipio, si stava dirigendo a casa salendo da via Tribuna, dove lo attendevano la compagna, Maria Rosa Angelastri, e la figlioletta di appena un anno, Giuseppina Pace Umana .
Aveva appena licenziato i due vigili urbani che lo scortavano, quando fu fatto segno di numerosi colpi di pistola (undici, di cui quattro sparatigli a bruciapelo al capo), che lo uccisero. La vita di Verro si concluse nel fango di via Tribuna, che impietosamente si mescolò col suo sangue. Il processo per il suo assassinio si concluse - incredibilmente - con la richiesta del pubblico ministero, il commendatore Wancolle, di assolvere tutti gli imputati per non aver commesso il fatto, che il tribunale immediatamente accolse.
Fonte

*Così lo descrive in Cosa Nostra di John Dickie
Verro fu richiesto di ripetere il giuramento di fedeltà dei Fantuzzi prima di stendere la mano destra perché il pollice venisse punto con uno spillo. Il sangue fu spalmato sull’immagine del teschio, che venne quindi bruciata. Alla luce della fiamma, Verro scambiò un bacio fraterno con ciascuno dei mafiosi presenti. Gli fu spiegato che per presentarsi come un membro dei Fantuzzi doveva toccarsi gli incisivi e lamentarsi per un mal di denti.

Riporto la descrizione perché è estremamente simile a quella che verrà descritta dal primo vero pentito di mafia, Leonardo Vitale e successivamente da Tommaso Buscetta. L’immagine di solito è quella della madonna e viene tenuta in mano mentre brucia. Il rituale, arcaico ma dotato di una sua suggestione, rende bene la segretezza e la “chiusura” di Cosa Nostra, e la sua natura di vero e proprio organismo parallelo a quelli statali.

venerdì 2 novembre 2012

2 Novembre 1946
Giovanni Santangelo contadino
Vincenzo Santangelo contadino
Giuseppe Santangelo contadino

Giovanni, Vincenzo e Giuseppe Santangelo vennero uccisi il 2 novembre 1946 a Belmonte Mazzagno (PA) da un gruppo di banditi. I tre contadini facevano parte di una Cooperativa in attesa dell’assegnazione di un feudo. Con loro erano due ragazzi, fatti allontanare da tredici banditi che sparano ai contadini alla nuca come se si trattasse di un'esecuzione. È rimasto oscuro il movente ma è evidente l'intento di terrorizzare i contadini della zona.