domenica 29 luglio 2012

strage di via Pipitone Federico

29 Luglio 1983, Strage di via Pipitone Federico
Rocco Chinnici 58 anni, magistrato
Mario Trapassi 32 anni, maresciallo dei carabinieri
Salvatore Bortolotta 48 anni, carabiniere
Stefano Li Sacchi portiere dello stabile

Rocco Chinnici (Misilmeri, 19 gennaio 1925 – Palermo, 29 luglio 1983) è stato un magistrato italiano, assassinato dalla mafia.
Dopo la maturità conseguita nel 1943 presso il Liceo Classico “Umberto” a Palermo, si è iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, si è laureato il 10 luglio 1947.
È entrato in Magistratura nel 1952 con destinazione al Tribunale di Trapani. Poi è stato pretore a Partanna per dodici anni, dal 1954. Nel maggio del 1966 è stato trasferito a Palermo, presso l’Ufficio Istruzione del Tribunale, come giudice istruttore.
Nel novembre 1979, già magistrato di Cassazione, è stato promosso Consigliere Istruttore presso il Tribunale di Palermo.
«Un mio orgoglio particolare» – ha rivelato Chinnici – «è una dichiarazione degli americani secondo cui l’Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre Magistrature d’Italia. I Magistrati dell’Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero». Il primo grande processo alla mafia, il cosiddetto maxi processo di Palermo, è il risultato del lavoro istruttorio svolto da Chinnici, tra l’altro considerato il padre del Pool antimafia, che compose chiamando accanto a sé magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello.
Chinnici partecipò, quale relatore, a molti congressi e convegni giuridici e socio-culturali e credeva nel coinvolgimento dei giovani nella lotta contro la mafia. È stato il primo magistrato a recarsi nelle scuole per parlare agli studenti della mafia e dei pericoli della droga.
«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi» – diceva – «fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai».
In una delle sue ultime interviste, Chinnici ha detto:
«La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare».
Rocco Chinnici è stato ucciso il 29 luglio 1983 con una Fiat 127 imbottita di esplosivo davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, all’età di cinquantotto anni. Ad azionare il detonatore che provocò l’esplosione fu il killer mafioso Pino Greco. Accanto al suo corpo giacevano altre tre vittime raggiunte in pieno dall’esplosione: il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta del magistrato, e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico Stefano Li Sacchi.


Alle otto e cinque del 29 Luglio ’83, in una giornata di caldo africano, Rocco Chinnici scendeva dal terzo piano della sua abitazione in via Pipitone Federico, al numero civico 63. Tutto normale. Scontato, previsto. Una sequenza che lui, in quel momento il giudice più esposto del tribunale di Palermo, aveva vissuto decine di volte: un saluto al portinaio dello stabile, due agenti già in attesa sul marciapiede, l’autista alla guida dell’alfetta blindata pronta a sgommare, due auto d’appoggio che a una ventina di metri di distanza chiudevano un paio di traverse. Ma quella mattina andò diversamente.
Appostato a breve distanza il sicario si stava godendo la scena. Eccolo che arriva il giudice più testardo d’Italia. Quest’altro rompicoglioni convinto che qualcuno gli abbia lasciato in eredità la lotta alla mafia. Un altro crociato che potrebbe andarsene a passeggio con moglie e figli se solo fosse prudente e conciliante, invece sta mettendo nei guai mezza città. […]
Il sicario premette il pulsantino del telecomando. E un istante dopo mezza Palermo tremò di terrore. Via Pipitone Federico diventò un cortile di Beirut, con lo stesso odore acre della guerra, le autoambulanze e le auto di polizia impazzite in mezzo a quel macello, gli occhi sbarrati dei passanti che si erano sentiti accarezzare da un alito gelido.[…]
Per non correre rischi avevano parcheggiato una 500 (stracolma di esplosivo) esattamente di fronte al numero civico 63. In maniera tale che l’alfetta del magistrato sarebbe stata costretta a fermarsi in doppia fila proprio accanto al’autobomba.[…]
Ma chi era Chinnici? […] A Milano, il 2 Luglio ’83, per svolgere una relazione sulla criminalità organizzata, [aveva detto] “il sessanta o settanta per cento dei fondi erogati dalla Regione siciliana alle aziende agricole finiscono a famiglie direttamente o indirettamente legate alla mafia. Si sta tornando al Medioevo, agli immensi latifondi […], La pubblica amministrazione è talmente permeata di mafia, le istituzioni sono talmente permeate di mafia per cui sembra veramente difficile poter arrivare da un anno all’altro alla soluzione del problema […] Oggi non c’è opera pubblica in Sicilia che non costi quattro o cinque volte quello che era stato il suo costo preventivato non già per la lievitazione dei prezzi ma perché così vuole l’impresa mafiosa, impresa alla quale è spesso interessato anche un ‘colletto bianco’”.[…]
Certe cose a Palermo non bisogna dirle. Anzi è consigliato per essere “apprezzati” negarle o smentirle. Invece Chinnici andava a ruota libera, pensava ad alta voce. E pensava anche – dimostrando in questo un’incoscienza senza pari – che il terzo livello esiste, e che senza il terzo livello la mafia che spara, che fa le stragi, che taglieggia popolazioni intere, non avrebbe motivo d’esistere. Spiegò pochi giorni prima della sua morte: “c’è la mafia che spara; la mafia che traffica in droga e ricicla soldi sporchi; c’è l’alta finanza legata al potere politico […] Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più elevati.” Se l’avessero lasciato fare avrebbe certamente raggiunto l’obiettivo.
Saverio Lodato. Trent’anni di mafia

sabato 28 luglio 2012

28 Luglio 1985
Giuseppe “Beppe” Montana 34 anni, poliziotto

Nato il 1951 ad Agrigento
Morto il 28 luglio 1985 a Santa Flavia
Figlio di un funzionario del Banco di Sicilia, si trasferì a Catania dove crebbe. Ottenne la laurea in Giurisprudenza e successivamente vinse il concorso per entrare nella Polizia. Entrò a far parte della squadra mobile di Palermo ed in seno a questa fu posto alla testa della neonata sezione “Catturandi”, occupandosi della ricerca dei latitanti. In questa veste ottenne risultati di rilievo, scoprendo nel 1983 l’arsenale di Michele Greco ed assicurando alle galere nel 1984 Tommaso Spadaro , divenuto boss del contrabbando di sigarette e del traffico di droga. Aveva inoltre collaborato al “maxi blitz di San Michele” del pool antimafia, eseguendo parte dei 475 mandati di cattura. Con il pool avrebbe continuato a lavorare a stretto contatto fino all’ultimo suo giorno, consolidando con quella struttura un rapporto nato con il giudice Rocco Chinnici, impegnato in prima linea nella “sfida” con la Cosa Nostra. Tre giorni prima della morte di Montana, il 25 luglio 1985 la Catturandi aveva arrestato otto uomini di Michele Greco, che si era sottratto alla cattura. Un altro Greco, Pino, detto “Scarpuzzedda”, era a capo di una cosca che controllava il territorio della zona di Ciaculli in cui si nascondeva il latitante Salvatore Montalto. Montana conosceva bene il soggetto perché stava provando a far costituire Scarpuzzedda e cercava anche di convincere la sua amante, Mimma Miceli, a consegnarlo alla giustizia. Nel 1983 l’agente Zuchetto , infiltrato nelle mafie di Ciaculli, era stato ucciso da Greco perché stava quasi per metter le mani sul Montalto. Fra i mafiosi, non si sa con quanta fondatezza, si era diffusa la voce che Montana ed il suo superiore Ninni Cassarà avrebbero ordinato ai loro uomini che Greco e Prestifilippo non sarebbero stati da prender vivi. Lunga ed intensa fu la collaborazione, accompagnata da un rapporto umano profondo, con Cassarà, che sarebbe stato ucciso nove giorni dopo di lui. Montana era anche dirigente della locale sezione del Sindacato Autonomo di Polizia. Fra le indagini seguite da Montana, anche quella sulla vicenda del Palermo calcio, che condusse in carcere il presidente Salvatore Matta accompagnatovi da diversi faldoni di intercettazioni telefoniche che ne indicavano una gestione finanziaria a dir poco disinvolta. Il 28 luglio 1985, il giorno prima di andare in ferie, Beppe Montana venne ucciso a colpi di pistola (una 357 Magnum ed una calibro 38 con proiettili ad espansione) mentre era con la fidanzata a Porticello, frazione del comune di Santa Flavia, nei pressi del porto dove era ormeggiato il suo motoscafo con il quale teneva d’occhio le ville estive dei mafiosi.

Con una squadra di quindici uomini dava l'assalto ai castelli dei latitanti mafiosi che a Palermo, in quel momento, ammontavano a circa duecento. Già in questa sproporzione numerica, stava una delle ragioni del suo soprannome: Serpico. Un Serpico chiamato a dirigere, a poco più di 30 anni, la sezione «catturandi» della Squadra mobile di Palermo, a quel tempo autentica polveriera. Un Serpico eternamente in azione, eternamente in movimento, quasi mai seduto alla scrivania del suo ufficetto in piazza Vittoria, sede, allora come oggi, della Squadra mobile di Palermo.
Una domenica sera di 20 anni fa - il 28 luglio 1985 - Serpico, al secolo Beppe Montana, 34 anni compiuti da poco, commissario di polizia, veniva affrontato da due killer di mafia fra le barche di Porticello, a pochi chilometri da Palermo, e assassinato con quattro colpi di pistola calibro 38. Era in pantaloncini corti, maglietta e zoccoli, disarmato. L'indomani sarebbe andato in ferie. Iniziava così a Palermo una nuova estate di fuoco. Pagò con la vita l'arresto di latitanti pericolosi: da Masino Spadaro, il re dei contrabbandieri della Kalsa che faceva da trait d'union fra i mafiosi palermitani e i camorristi napoletani degli Zaza e dei Bardellino, a Salvatore Rotolo che aveva personalmente eliminato il medico del Policlinico, Paolo Giaccone, «colpevole» agli occhi dei clan di non avere addomesticato una perizia balistica. Ma fu soprattutto il blitz di Bonfornello, conclusosi con la cattura di Tommaso Cannella, uomo di fiducia di Totò Riina nel comprensorio del termitano (insieme ad altri 7 boss) a segnare la sua fine.
Saverio Lodato, L’ultima estate del Serpico italiano, l’Unità

venerdì 27 luglio 2012

Andreotti, un imputato troppo innocente

di Gian Carlo Caselli

Fonte


Lo ammetto. Sono un mostro. Nel senso latino di monstrum: un essere fuori dell’ordine naturale. Eh sì, perché sono l’unico giudice in Italia (credo al mondo) che può «vantare» una legge scritta apposta per lui, contro di lui. Nel paese delle leggi ad personam, che hanno inquinato il sistema violando i principi fondamentali dell’ordinamento e la stessa regola di «buona fede legislativa», troviamo – tanto per non farci mancare nulla – anche una legge «contra personam», scritta apposta per impedirmi di partecipare alla nomina del nuovo procuratore nazionale antimafia dopo che Piero Luigi Vigna era scaduto dall’incarico.

Perché tutta questa attenzione? Detto e ripetuto pubblicamente da fior (si fa per dire) di uomini politici: dovevo pagare il processo al senatore Andreotti perché, come capo della Procura di Palermo – dove avevo chiesto di essere mandato dopo le stragi Falcone e Borsellino – avevo osato indagare e poi processare il Divo Giulio. La legge «contra personam» sarà poi dichiarata incostituzionale e cassata dal nostro ordinamento, ma frattanto i giochi erano ormai irreversibilmente fatti: io (il mostro) estromesso dal concorso, senza che nessuno trovasse nulla da ridire, né chi si vedeva tolto dai piedi un concorrente, né il Csm che aveva accettato disinvoltamente di concludere una procedura inquinata da un cambiamento delle regole a partita aperta e ormai quasi conclusa.

Peccato che da «pagare», per il processo Andreotti, non ci fosse un bel niente. Al contrario, la conclusione del processo dà sostanzialmente ragione all’accusa, che perciò non ha nulla da farsi perdonare, anzi. Vero è che la stragrande maggioranza dei cittadini italiani è convinta (in perfetta buona fede, perché questo le è stato fatto credere con l’inganno) che Andreotti sia innocente. Di più: vittima di una persecuzione che lo ha costretto a un doloroso calvario di una decina d’anni per l’accanimento giustizialista di un manipolo di manigoldi. Ma la realtà vera è ben diversa, come anche questo lavoro di Giulio Cavalli facilmente dimostra.

Per parte mia, cosa dire di più? Può essere utile una breve storia del processo. In primo grado l’imputato Andreotti viene effettivamente assolto. Di fatto per insufficienza di prove, ma assolto. Contro l’assoluzione ricorrono la Procura della repubblica e la Procura generale. La Corte d’appello di Palermo riforma la sentenza del tribunale. L’imputato è dichiarato responsabile del delitto di associazione a delinquere con Cosa nostra per averlo «commesso» (sic) fino al 1980; il delitto è commesso ma prescritto, e solo per questo motivo all’affermazione di colpevolezza non segue la condanna. Dopo il 1980 la Corte conferma l’assoluzione.

Contro la sentenza d’appello ricorre in Cassazione l’accusa, perché vuole che la colpevolezza sia riconosciuta anche dopo il 1980. Ma in Cassazione (attenzione!) ricorre anche la difesa. È la prova provata che fino al 1980 non c’è stata assoluzione. Non esiste al mondo, infatti, che l’imputato assolto ricorra contro se stesso. Se lo fa, è per ottenere un’assoluzione vera (non spacciata come tale in favore di telecamere urlando «E vai!»). Ora, poiché la Suprema corte ha confermato definitivamente e irrevocabilmente la sentenza d’appello, è semplicemente falso sostenere che Andreotti è stato assolto. Fino al 1980 è stata provata la sua responsabilità per il delitto – ripeto – di associazione a delinquere con Cosa nostra. Fatti gravissimi, meticolosamente elencati e provati per pagine e pagine di motivazione, sfociano nel dispositivo finale. Dimenticavo: ricorrendo in Cassazione l’imputato avrebbe potuto rinunciare alla prescrizione, ma si è ben guardato dal farlo. Forse perché troppo... innocente.

La sentenza che pochi hanno letto

Andiamo a rileggere l’ultima pagina della sentenza della Corte d’appello di Palermo del 2 maggio 2003 (poi confermata in Cassazione) che, a quanto pare, in pochissimi hanno letto e moltissimi non hanno mai voluto o potuto conoscere.

I fatti che la Corte ha ritenuto provati in relazione al periodo precedente la primavera ’80 dicono che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha quindi coltivato, a sua volta, amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunziati; ha omesso di denunziare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza. [...] Dovendo esprimere una valutazione giuridica sugli stessi fatti, la Corte ritiene che essi non possano interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo. [...] Si deve concludere che ricorrono le condizioni per ribaltare, sia pure nei limiti del periodo in considerazione [cioè prima della primavera del 1980, nda], il giudizio negativo espresso dal tribunale in ordine alla sussistenza del reato e che, conseguentemente, siano nel merito fondate le censure dei pubblici ministeri appellanti. Non resta, allora, che [...] emettere, pertanto, la statuizione di non luogo a procedere per essere il reato concretamente ravvisabile a carico del sen. Andreotti estinto per prescrizione.

All’università insegnavano (e forse ancora si insegna) che la pronuncia di Cassazione «facit de albo nigrum... aequat quadrata rotundis». Latino facile, evidentemente ignorato dai commentatori della sentenza Andreotti. Eppure, che le parole sono pietre e quelle della Cassazione addirittura macigni lo sanno tutti. Persino... er Monnezza. Mi riferisco a uno dei polizieschi anni Settanta interpretati da Tomas Milian. Per convincere un amico, il maresciallo Giraldi urla: «Aò, quello che te sto a di’ è Cassazione!». Come a dire, non puoi dubitarne. Evidentemente ciò che vale per er Monnezza non vale per il resto del nostro paese.

Dunque «è Cassazione» il fatto che, per un congruo periodo di tempo, il senatore Andreotti è stato colluso con Cosa nostra. Questa verità dovrebbe rimanere scolpita nella memoria del paese, specialmente se parliamo di una persona che per sette volte è stata presidente del Consiglio e per ventidue volte ministro. E invece no. Queste parole sono state sapientemente esorcizzate, stravolte, cancellate. Le sentenze (emesse in nome del popolo italiano) vanno motivate affinché il popolo possa sapere per quali motivi appunto si viene assolti o condannati, ma anche perché il popolo possa conoscere i fatti che stanno alla base dei motivi per cui una persona è chiamata a rispondere di determinate azioni di fronte a un tribunale. Qui il popolo è stato truffato.

Dalla motivazione di tutte le sentenze – anche da quella di primo grado, che assolve per insufficienza di prove – emerge una realtà sconvolgente: scambi di favori e, soprattutto, riunioni (per discutere di fatti criminali gravissimi) con capimafia del calibro di Stefano Bontate, provate dalle veridiche dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia, testimone oculare di uno di questi incontri. Realtà sconvolgenti, consacrate (ribadisco) da una sentenza passata in giudicato.

Sarebbe lecito – almeno – attendersi riflessioni, dibattiti, confronti, analisi. Sarebbe opportuno chiedersi cosa mai sia successo davvero in quella stagione. Su che cosa si sia basato, almeno in parte, il meccanismo del consenso nel nostro paese. Niente di tutto questo. Tutto è stato cancellato, nascosto.

Se ne è parlato soltanto per stravolgere i fatti, da parte di tutti: autorevoli leader politici, illustri opinion maker, finanche vertici istituzionali. Dopo la cosiddetta «assoluzione» è stata una corsa alle telefonate di congratulazioni, alle pubbliche e stucchevoli attestazioni di stima. Il massimo dell’impudenza lo raggiunge il presidente della Commissione parlamentare antimafia Roberto Centaro che – all’indomani della sentenza della Corte d’appello – dichiara pubblicamente: «Il grande dibattito mediatico, che si è sovrapposto e ha sostituito il processo, ha seguito i ritmi dell’“analisi politica” (già sperimentata per la valutazione delle responsabilità per le stragi del 1992 e del 1993), pervenendo a un tentativo di condanna, o di attribuzione di mafiosità malamente sbugiardato [corsivo mio, nda] dalle pronunce giurisdizionali. Ciò ha comportato, comunque, l’insinuarsi di ombre e veleni. L’unico risultato è stata una crescente confusione nei cittadini e un senso di sfiducia nelle istituzioni, a fronte di affermazioni perentorie poi rivelatesi infondate in corso d’opera». Centaro ha visto un altro processo, vive in un altro mondo.

La verità negata

La verità è fatta a brandelli. E la sinistra non è stata da meno. Una forza politica che ha sempre fatto della «questione morale» un punto (apparentemente) fondante, non dico che della vicenda dovesse farne una bandiera, ma quanto meno discuterne. Invece l’ha a dir poco rimossa. Anna Finocchiaro, ad esempio, ha liquidato come «inutile perdita di tempo la discussione sulle vicissitudini giudiziarie del senatore Andreotti».

Clemente Mastella, ineffabile ministro della Giustizia, ha dichiarato che «invece di parlare della sentenza di Palermo, ad Andreotti bisognerebbe fare un monumento». In questo Mastella è stato ampiamente soddisfatto. Sulla vicenda processuale si è innestato un processo di santificazione mediatica con la sapiente e sottile tessitura dello stesso Andreotti. Grazie alla connivenza di molta politica e di molta informazione egli è riuscito a far passare in secondo piano i gravi fatti evidenziati dal processo, fino a cancellarli.

Ha esibito se stesso in mille circostanze su un’infinità di media, cerimonie e manifestazioni, rivitalizzando così il profilo di un grande statista di prestigio internazionale, apprezzato da molti (Vaticano in primis). Fino a sfiorare la nomina alla presidenza del Senato, dopo essere stato designato per rappresentare l’Italia ai funerali di Boris Eltsin. Senza disdegnare, nel contempo, incursioni da star nel mondo della pubblicità, facendo il testimonial della famiglia per la Chiesa cattolica o prestandosi, al fianco di una procace attrice, a promuovere una marca di cellulari.

Il risultato è stato una sorta di dilagante giudizio parallelo, nel quale il senatore ha cercato – riuscendoci – di offrire di sé un’immagine di altissimo profilo incompatibile con le bassezze processuali rimestate da piccoli giudici. Anzi – verrebbe da dire – dentro le quali grufolavano piccoli giudici. Una strategia che ha pagato, perché ha trovato un’infinità di sponde, che hanno stravolto la verità, massacrando la logica e il buon senso.

Con una conseguenza che va ben oltre il perimetro del processo Andreotti. Parlare di assoluzione, anche a fronte delle gravissime responsabilità provate fino al 1980, non è solo uno strafalcione tecnico. Significa in realtà legittimare (per il passato, ma pure per il presente e il futuro) una politica che contempla anche rapporti organici con il malaffare, persino mafioso. Per poi stracciarsi le vesti se non si riesce – oibò! – a sconfiggere la mafia. Lo ha sottolineato il corrispondente dell’«Economist» David Lane in un’intervista rilasciata al «Venerdì di Repubblica»: premesso che «i politici e i media hanno raccontato un’altra storia, come se la Suprema corte avesse detto che [Andreotti] era innocente», Lane si chiede che cosa questo fatto comporti «sulla determinazione nella lotta al crimine», e risponde che si tratta di «un messaggio chiaro, che piace ai mafiosi».
Ovviamente non è con messaggi di questo tipo che si vince la guerra alla mafia.

L’intelligente ironia di Giulio Cavalli, dunque, ci offre non solo preziosi elementi di conoscenza di una verità dolosamente nascosta. È anche un antidoto potente contro una patologia che affligge pesantemente il nostro paese: la perdita di memoria che sconfina nell’amnesia, l’irresponsabile sottovalutazione del pericolo che si corre quando si occulta il passato. In sostanza, una mancanza continuativa di coscienza etica, fino all’eclissi della questione morale.

(22 marzo 2012)

strage di Via Palestro

27 Luglio 1993, la Strage di via Palestro
Carlo Lacatena vigile del fuoco
Sergio Pasotto vigile del fuoco
Stefano Picerno vigile del fuoco
Alessandro Ferrari vigile urbano
Moussafir Driss immigrato marocchino

Milano un'autobomba esplode in via Palestro. 5 vittime: i pompieri Carlo Lacatena, Stefano Picerno e Sergio Pasotto, il vigile urbano Alessandro Ferrari e l'immigrato marocchino Dris Moussafir. Gravi danni al Padiglione d'arte contemporanea.

Nella stessa notte avvengono altri due attentati, a Roma.
Il primo è a San Giovanni in Laterano. Quest’ordigno provoca 7 feriti, di cui uno grave, e danni agli edifici della piazza.
Il secondo è alla chiesa di San Giorgio al Velabro. In questo caso viene danneggiato gravemente il portico della chiesa e altri edifici adiacenti e vengono ferite in maniera non grave alcune persone.

Gli attentati di Roma, Firenze e Milano mirano non solo a spostare l'attenzione fuori dalla Sicilia ma soprattutto a imporre alle istituzioni una politica di concessioni all'organizzazione mafiosa Cosa nostra: l'abolizione dell'ergastolo e del carcere duro, l'attenuazione della legislazione antimafia e la revisione dei processi.


Sono circa le 23 del 27 luglio 1993 quando una macchina con due vigili urbani di Milano viene avvicinata da un gruppo di persone in via Palestro, che segnalano una vettura parcheggiata nella strada dalla quale sta uscendo del fumo. In effetti, dopo pochi metri, i vigili vedono proprio di fronte al Padiglione di arte contemporanea (Pac) una Fiat Uno di colore grigio con del fumo biancastro che esce da uno dei finestrini anteriori leggermente abbassato.
I vigili chiamano immediatamente i pompieri – che arrivano in pochi minuti – poi aprono le portiere della vettura e il fumo si dilegua rapidamente, aprono anche il portellone posteriore e trovano nel cofano un involucro di grosse dimensioni, che occupa buona parte del baule. È chiuso con nastro adesivo ma sulla parte sinistra si vedono uno o due fili, che scompaiono nell’abitacolo. I vigili hanno subito l’impressione che si tratti di un ordigno esplosivo e ordinano di evacuare la zona. Dopo qualche minuto, un vigile, Alessandro Ferrari, su sollecitazione della centrale operativa del suo comando, si riavvicina all’auto per rilevarne il numero di targa prima che venga distrutto dall’eventuale esplosione; fanno la stessa cosa alcuni vigili del fuoco forse con l’intenzione di passare dall’altro lato della strada. Proprio in quel momento l’auto esplode.
Muoiono il vigile urbano Alessandro Ferrari e i vigili del fuoco Stefano Picerno, Sergio Pasotto e Carlo La Catena. Successivamente, sul lato opposto della strada, nei giardini pubblici antistanti alla Villa Reale, viene trovato agonizzante il cittadino marocchino Driss Moussafir, che morirà durante il trasporto in ospedale. Altre sei persone rimangono ferite.
L’esplosione distrugge la strada, un vicino distributore di benzina, il sistema di illuminazione pubblica e molte autovetture parcheggiate in zona; ma l’effetto più devastante è provocato dal fatto che l’esplosione raggiunge la condotta del gas sottostante alla sede stradale, che si incendia. Per ore fiamme altissime si levano al cielo senza che i Vigili del Fuoco riescano a domare l’incendio; finché, alle 4.30 circa del 28 Luglio 1993, esplode anche una sacca di gas formatasi proprio sotto il Pac.
La seconda esplosione ha sul padiglione effetti molto più dirompenti della prima: lo sventra completamente, danneggiando una trentina di opere; alcune vengono completamente distrutte.
Maurizio Torrealta, La trattativa

giovedì 26 luglio 2012

26 Luglio 1991
Andrea Savoca 4 anni

Andrea Savoca era un bambino di soli 4 anni ucciso il 26 luglio 1991 insieme con il padre Giuseppe Savoca, mafioso, dal clan di Riina. Il 14 giugno 2001 cinque ergastoli sono stati inflitti dalla Corte di assise di Palermo per l’omicidio del piccolo Andrea Savoca e del padre Giuseppe ad Antonio Erasmo Troia, Michelangelo La Barbera, Matteo Motisi, Santi Pullarà e Giovanni Battaglia, ritenuti mandanti ed esecutori dell’agguato sono stati condannati. Il bambino è stato ucciso perché in compagnia del padre al momento dell’agguato mortale. La cupola mafiosa decise l’eliminazione di Giuseppe Savoca invece perché, contravvenendo a quelle che erano le regole, compiva rapine ai danni dei Tir senza chiedere l’autorizzazione ai capi di cosa nostra. A dare una svolta alle indagini sono state le dichiarazioni di due pentiti di mafia, Salvatore Cancemi e Giovan Battista Ferrante.
26 Luglio 1992
Rita Atria 17 anni

Rita Àtria (Partanna, 4 settembre 1974 – Roma, 26 luglio 1992) è stata una testimone di giustizia italiana.
Rita Àtria nasce in una famiglia mafiosa ed a undici anni perde, ucciso dalla mafia, il padre Vito, mafioso della famiglia di Partanna. Sono gli anni dell’ascesa dei corleonesi e della guerra di mafia che li vedrà impegnati in sanguinosi omicidi di uomini delle cosche rivali per la presa del potere. Alla morte del padre, Rita si lega ancora di più al fratello Nicola ed alla cognata Piera Aiello. Di Nicola, anch’egli mafioso, Rita raccoglie le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna. Nel giugno 1991 Nicola Àtria viene ucciso dalla mafia, e sua moglie Piera Aiello decide di collaborare con la giustizia. Rita Àtria, a soli 17 anni, nel novembre 1991, decide di seguire le orme della cognata, cercando, nella magistratura, giustizia per quegli omicidi. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu Paolo Borsellino al quale ella si legò come ad un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre deposizioni hanno permesso di arrestare diversi mafiosi e di avviare un’indagine sul politico Vincenzino Culicchia per trent’anni sindaco di Partanna. Una settimana dopo la strage di via d’Amelio, Rita si uccise a Roma dove viveva in segretezza lanciandosi dal settimo piano.

Ne avevo sentito parlare da lui come di una figlia, ma non l’avevo ancora incontrata. Ero perciò molto curioso.
La prima volta che la vidi stava raggomitolata su una sedia. In quella stanza fredda e dalle pareti bianche, tappezzate di calendari dell’Arma dei carabinieri, al pianoterra del Palazzo di giustizia, ove ero sceso apposta per incontrarla. Per conoscerla. Era così rannicchiata da mettere a disagio, riuscendo a trasmettere tutta la sua insicurezza. Sembrava indifesa, tutta protesa a farsi piccola, a essere protetta. Ma lei, la ragazza, non dava l’impressione di sentirsi a disagio. Cercava di apparire, al contrario, tranquilla. Serena e determinata. Aveva occhi grandi e quegli occhi me li trovai puntati addosso, con forza, con insistenza. Quando entrai nella stanza mi fissò, in silenzio e a lungo. Non era disposta a distogliere lo sguardo, uno sguardo intenso e interrogativo. Aspettava. Aspettava di capire se poteva fidarsi di me. In tanti anni di silenzi, nel piccolo paese dove era nata, dove suo padre l’aveva allevata a pane e mafia, aveva imparato a diffidare di tutti e di tutto: dei nemici ma anche degli amici. Dello Stato ma anche della mafia. Chi era quell’uomo lì davanti che lei stava fissando? Perché era entrato nella stanza, senza neanche bussare? Era un uomo dello Stato o un mafioso? Uno di cui si poteva fidare o uno dei tanti infedeli? Non era uno di quegli infedeli che avevano rovinato la sua famiglia e la sua terra, quegli infedeli che erano stati capaci di rendere invincibile la mafia? Quelli che avevano trasformato un’organizzazione criminale come la mafia in qualcosa di più e di peggio, che lei non sapeva esprimere, quella Piovra, come tutti ormai la chiamavano in ogni parte del mondo. Quelli che avevano causato l’isolamento e la morte di tanti uomini dello Stato e della mafia stessa. Come suo padre e suo fratello. Era uno di quelli il giovane con la barba che la guardava curioso, ma a disagio per il suo sguardo puntato addosso? Oppure era una persona perbene e lei stava cadendo, come sempre più spesso le succedeva, in una di quelle ossessioni che non la lasciavano più, da quando aveva visto suo padre e suo fratello uccisi come cani, vittime del tradimento degli amici dei loro amici?
Tutto questo affollava la mente della ragazza mentre mi fissava con insistenza, raggomitolata su quella sedia, in posizione difensiva. Come un gatto, con i muscoli tesi e il pelo ritto, pronto a scattare. E quei suoi pensieri sembravano affiorare come ombre da una lanterna magica, e proiettarsi sul muro, inquietare le pareti della stanza, ammorbare l’aria, rendere tutti tesi e nervosi. Ricordo quegli attimi, lunghissimi, eterni. Eravamo sospesi. In attesa. D’incanto il suo sguardo si sciolse. Da interrogativo e dubbioso diventò insieme comprensivo e rassicurato, quasi complice. L’attesa si era interrotta, d’improvviso com’era iniziata. Perché era arrivato lui, il giudice, il deus ex machina della sua vita. E pure della mia, del resto. Paolo Borsellino[…]
L’epilogo fu tremendo. L’ultima volta che vidi Rita sembrava di nuovo allegra, una ragazza normale. Sorrideva, aveva raggiunto la cognata fuori dalla Sicilia. Aveva raccontato la sua storia, aveva dato alla giustizia gli strumenti per fare giustizia degli assassini del padre e del fratello. Sembrava essersi liberata della mafia che aveva nel cuore e nella mente. Era pronta a rinascere, ma per rinascere aveva bisogno del sostegno di lui, del suo giudice. Ma accadde l’Inevitabile, l’Assurdo, la Tragedia. Un’autobomba squarciò il cuore e le viscere di Palermo, il tritolo della mafia fece a pezzi il giudice con la sua scota, mise in ginocchio l’Italia e atterrò l’animo degli italiani onesti. Impotenti. Rabbia, sdegno, dolore. Nessuno pensò a lei, tutti pensarono a lui, il giudice che non c’era più, a quell’uomo allegro che non poteva più ridere, anche se chi lo vide quell’ultima volta giura di avergli visto un sorriso dipinto sulle labbra ormai fredde.
Lui non c’era più, lui, l’unico che avrebbe subito pensato a lei, che sarebbe corso da lei per cercare di consolare l’inconsolabile, di contrastare quella tristezza infinita. Fu un attimo, un lampo. L’immagine della fine del giudice, la sensazione della fine di tutto. Aveva perso di nuovo il padre, il fratello, lo zio. Era di nuovo sola, per sempre, in un’anonima casa dei sobborghi di Roma. Di nuovo cambiare casa e identità? Di nuovo cancellare il passato per ricostruire un altro futuro?
No, è troppo. Rita non ce la fa.
La rividi, come la prima volta, rannicchiata, raggomitolata, ma questa volta sulla strada, in una pozza di sangue. Si tolse la vita una settimana dopo la morte del suo giudice. Ma non è andata via senza lasciarci nulla. Il suo lascito sta tutto nel diario, che le aveva regalato Paolo, e dove Rita aveva annotato un messaggio semplice: “Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.
Antonio Ingroia, Nel labirinto degli dei

lunedì 23 luglio 2012

Nel 1925 un politico tedesco pubblicò un libro dal titolo La mia battaglia.

Nel 2011 un politico italiano pubblicò un libro dal titolo Siamo in guerra.

La storia ha un modo tutto suo per metterci in guardia.

La storia ripropone vecchie cose e vecchie idee sotto nuovi abiti. E' come un vecchio scrittore, che ha esaurito la vena creativa e perciò è costretto a ripetersi (P.A. Sorokin, 1922)

sabato 21 luglio 2012

21 Luglio 1979
Boris Giuliano 49 anni, poliziotto

Giorgio Boris Giuliano (Piazza Armerina, 22 ottobre 1930 – Palermo, 21 luglio 1979) è stato un poliziotto italiano, investigatore della Polizia di Stato e capo della Squadra Mobile di Palermo.
Diresse le indagini con metodi innovativi e determinazione, facendo parte di una cerchia nei fatti isolata di funzionari dello Stato che, a partire dalla fine degli anni settanta, iniziarono un’autentica lotta contro la mafia dopo che, nella deludente stagione degli anni sessanta, troppi processi erano falliti per mancanza di prove.
Venne ucciso dal mafioso Leoluca Bagarella [cognato di Totò Riina], che gli sparò sette colpi di pistola alle spalle il 21 luglio 1979, mentre pagava il caffè in un bar di via Di Blasi, a Palermo.



[Boris Giuliano era] un autentico mito per gli uomini che ebbero la ventura di lavorargli accanto. Un autentico mito per i poveri, i derelitti della città, che si precipitarono a migliaia ai suoi funerali.
Un mito: perché non si era mai visto un poliziotto forte e impavido davanti ai potenti, tanto quanto sapeva essere umano e attento alle ragioni di chi spesso si era fatto piccolo delinquente in mancanza d'altro. Semmai, in quegli anni, il cliché del poliziotto era all'opposto: voce grossa con i poveri cristi e tanta precauzione in più per i «don», i «blasonati», i «benestanti» della città.
Boris Giuliano fu l'ultimo grande poliziotto della stagione dei «confidenti» che popolavano vicoli e tuguri di un centro storico mai restaurato - unico in Europa - dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. L'ultimo grande poliziotto di quella terribile stagione della «Giuliette» iniziata nel 1963 con la strage di Ciaculli e con la conseguente istituzione della prima commissione di inchiesta sul fenomeno mafioso (con gli anni siamo arrivati alla settima commissione). L'ultimo grande poliziotto all'antica, prima cioè che venissero alla ribalta i pentiti e i pool antimafia della magistratura, che prendessero il via i maxi processi, quando ancora si sudava sui rapporti scritti a mano, sui fogli di carta carbone, e che poi venivano strimpellati, fra nuvole di fumo e bicchieri di pessimo bourbon, su vecchie macchine da scrivere con nastri che prima di essere cambiati dovevano rendere l'anima a Dio. L'economato della Squadra mobile non nuotava mai nell'oro.
[…] All' antica sì, ma modernissimo. Si trovò infatti sul crinale che divideva due epoche, anche se questo si sarebbe capito più tardi. Se infatti fosse appartenuto solo al passato, forse sarebbe rimasto in vita. […Giuliano] fu il primo a intuire che fra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, Palermo stava diventando pedina nevralgica nello scacchiere internazionale del traffico dell'eroina. Che a Palermo si raffinava l'oppio che arrivava ormai a sacchi interi dal triangolo d'oro della Thailandia del Laos e della Birmania. E che l'eroina, una volta prodotta, doveva pur finire da qualche parte. È stato così raccontato - ed è risaputo - che grazie al fiuto di questo kirghiso che d'estate portava rigorosamente giacche di lino bianco, vennero scoperti, in due valigie abbandonate sul nastro bagagli dell'aeroporto di Punta Raisi, i dollari (cinquecentomila), spediti come compenso dei «cugini americani» ai palermitani. Successivamente, in una casupola sul lungomare di Romagnolo, fra motoscafi pronti a prendere il largo, furono trovati quattro chili di eroina purissima per un valore, all'epoca, di tre miliardi. Era la prova del «teorema Giuliano». Teorema che sarebbe rimasto tale se all'appello fossero mancati i soldi o la droga. Invece il teorema trovò nuova conferma quando all'aeroporto Kennedy, quelli dell'antinarcotici di New York furono altrettanto fortunati riuscendo a mettere le mani sull' eroina (valore dieci miliardi) appena sbarcata da Palermo. Era la fine di un'epoca criminale, sotto un certo profilo persino leggendaria: l'epoca del clan dei marsigliesi. Quando a fabbricare clandestinamente la migliore eroina del mondo era Joseph Cesari, un chimico autodidatta, al quale si rivolgevano tutte le famiglie della mala marsigliese, corsa e siciliana. Cesari, miliardario e collezionista d'opere d'arte, nella sua hollywoodiana villa di Aubagne, piccolo centro alla periferia di Marsiglia, raffinava solo un paio di giorni alla settimana per non intossicarsi, sin quando l'8 ottobre 1964, la squadra antinarcotici francese lo arrestò in flagranza di reato. Boris Giuliano, che l'epilogo di quella storia lo conosceva, intuiva che ormai marsigliesi avevano fatto un passo indietro. E che con ogni probabilità Palermo era diventata il nuovo Eden della raffinazione. Qualche poliziotto, ormai in pensione, lo ricorda ancora nel suo ufficio alla Squadra mobile di Piazza Vittoria, alle prese con foto aeree della città e planimetrie, pronto a far decollare l'elicottero se solo si palesava il sospetto che in qualche anonima catapecchia i fornelli della raffinazione fossero accesi. Le intuizioni, la tenacia, l'intelligenza, certo. Ma anche gli ottimi studi, l'ottima conoscenza dell' inglese, che lo aveva portato a frequentare nel 1975 (il suo ingresso in polizia risaliva al 1962), il corso dell'Fbi in Virginia, unico poliziotto italiano allora prescelto. Non fu un caso che durante la sua «reggenza » della Mobile, agenti e funzionari Fbi o della Dea, furono di casa. Una sinergia tanto preziosa per le indagini, quanto devastante - come abbiamo visto – per i narcotrafficanti. Il risultato fu che l'Alta Mafia, quella che in quel periodo stava scoprendo quanto fosse lucroso il traffico degli stupefacenti, cominciò ad avvertire un profondo senso di fastidio. Ancora si potevano sopportare gli «sbirri» all'antica. Quelli che strappavano qualche informazione al poveraccio di quartiere. Quelli che entravano nel futuro con la testa rivolta al passato. Quelli che - in polizia c'era di tutto - dietro l'elargizione di una bustarella o la spesa gratis nelle macellerie e nelle pescherie di mafia chiudevano un occhio facendo magicamente scomparire all'ultimo momento un nome dal rapporto che stava per essere presentato al magistrato. Quelli che erano autentici doppiogiochisti. Ma adesso era troppo. È stato raccontato più volte che dopo il blitz di Romagnolo giunse al 113 la fatidica telefonata anonima: «Giuliano morirà». Ma quanto tempo ci sarebbe voluto per capire che il «dottor Giuliano », come tutti lo chiamavano rispettosamente, aveva urtato la suscettibilità di uno che di strada, dentro Cosa Nostra, ne avrebbe fatta parecchia. Quella droga sequestrata nella casupola di Romagnolo apparteneva a Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina. Come apparteneva a Bagarella quell'autentico arsenale trovato a seguito della stessa irruzione guidata personalmente da Giuliano: pistole calibro 357 Magnum, fucili a canne mozze, chili e chili di munizioni. Alle 8 del mattino, 21 luglio 1979, Boris Giuliano uscì di casa, in via Di Blasi. La macchina, una Giulietta, per l'appunto, con il fedele brigadiere che ogni mattina veniva a prenderlo per accompagnarlo in Questura, non era ancora arrivata. Giuliano pagò la pigione al portiere, lo salutò, raggiunse il bar Lux a due passi. Ordinò il suo primo caffè della giornata, l'ultimo caffè della sua vita. Era nervoso ma non lo dava a vedere. Tre giorni prima, dopo la telefonata al 113, aveva accompagnato la moglie Ines Leotta, e i figli Alessandro, Selima ed Emanuela, tutti allora molto piccoli, a Piedimonte Etneo, alle falde dell'Etna, dove avrebbero trascorso le vacanze. Aveva promesso di raggiungerli una settimana dopo, e se ne era tornato a Palermo. Ottimo tiratore scelto, Giuliano. E in più di un'occasione aveva risolto situazioni delicate senza mai strafare, tranne una volta in cui, anche se non per sua responsabilità, il morto, però, c'era scappato. Quella mattina al bar davanti al bancone, con le spalle rivolte alla porta, chissà cosa pensava. Il killer ebbe tutto il tempo di arrivargli a tiro. Il titolare e i baristi raccontarono dopo che il killer solitario tremava come una foglia. Sarà.
Solo anni dopo si seppe che quel killer solitario era Leoluca Bagarella. Proverbiale per la sua ferocia, per il suo sangue gelido, non per la sua indecisione.
Saverio Lodato

giovedì 19 luglio 2012

la strage di via D'Amelio

19 Luglio 1992, Strage di via D’Amelio
Paolo Borsellino 52 anni, magistrato
Emanuela Loi 25 anni, poliziotto
Walter Eddie Cosina 31 anni, poliziotto
Agostino Catalano 43 anni, poliziotto, caposcorta
Vincenzo Fabio Li Muli 22 anni, poliziotto
Claudio Traina 27 anni, poliziotto

Paolo Borsellino muore, 57 giorni dopo l’amico e collega di una vita Giovanni Falcone, un’assolata domenica di Luglio sotto la casa della madre. Muore dopo essersi acceso l’ultima sigaretta, la mano tesa a suonare il campanello. Muore assieme ai suoi 5 angeli custodi: il sesto, Antonio Vullo, è rimasto in auto, pronto a ripartire, nervoso e teso. Via D’Amelio è un budello chiuso, si entra da dove si esce, un posto ideale per un agguato. E poi è piena di macchine parcheggiate, sono dappertutto. Nessuno ha pensato di farne zona rimozione, nessuno controlla le auto parcheggiate, nonostante il magistrato vada a trovare la madre più volte la settimana.
Borsellino salta in aria assieme alla scorta, solo Vullo si salva, protetto dall’auto blindata, i palazzi intorno vengono sventrati, decine di famiglie restano senza casa. Sul retro dell’auto una borsa, la sua borsa, con il costume bagnato e l’agenda rossa, sparita per sempre.

A distanza di 19 anni le indagini sono ancora aperte. Perché? Perché su questa morte incombono le ombre buie della trattativa Stato – mafia. I condannati per la strage (Scarantino e altri 3) sono in realtà un depistaggio, come spiegherà solo recentemente il pentito Gaspare Spatuzza. Scarantino si è autoaccusato, ma le dichiarazioni di Spatuzza sono molto più coerenti, e soprattutto sono verificate. Spatuzza racconta di avere cambiato il blocco freni alla 126 rubata, per renderla più efficiente, particolare noto solo agli inquirenti e a chi – materialmente – aveva eseguito la riparazione.

Solo da poco Martelli allora guardasigilli e la Ferraro hanno finalmente ritrovato la memoria, e hanno confermato che Borsellino sapeva della trattativa, costretti dalle dichiarazioni di due pentiti, Brusca e Spatuzza e da quelle del figlio di un mafioso, Massimo Ciancimino.
In quei 57 giorni Borsellino va a Roma, a parlare con Gaspare Mutolo, che vuole pentirsi. A un certo punto fanno una pausa, Borsellino incontra Contrada e Parisi, forse arriva fino nell’ufficio di Mancino, o almeno così attesta la sua altra agenda, quella degli appuntamenti, grigia, che è rimasta a casa. Sta di fatto che quando ritorna da Mutolo il suo umore è completamente cambiato, come dichiarerà il pentito. Borsellino è nervoso, distratto, si accende una sigaretta dietro l’altra.
È cronaca giudiziaria di questi mesi, di questi giorni, recentissima.

Ricordare Paolo Borsellino non è facile, qualsiasi riassunto diventa riduttivo, perché era un uomo per molti versi incredibile. Basta leggere la sua biografia scritta da Lucentini per rendersene conto.
Vorrei comunque sottolineare alcune cose che penso di avere capito di lui.
La prima è che era profondamente di destra – anzi lui si definiva monarchico – e come tale un servitore fedele e integerrimo delle istituzioni. Si definiva monarchico, ma ha sempre difeso lo Stato democratico fino a morire per esso. Rideva di se stesso, quando scopriva di andare d’accordo con “i sinistri”. Sua sorella Rita racconta che quando lei si lamentava delle istituzioni lui le ricordava che non sono le istituzioni il problema, ma che a volte sono gli uomini che le rappresentano a non essere all’altezza.
La seconda è che non era un martire e che, seppur consapevole di essere il principale obiettivo nel mirino dei mafiosi dopo Capaci, non si rassegnò né andò incontro alla morte, ma lottò fino all’ultimo senza esclusione di colpi, come poteva e da par suo.
La terza è che era un uomo profondamente coraggioso, che conosceva la paura. Che si rammaricava – profondamente – quando era costretto a chiedere la scorta per un suo sostituto minacciato, perché “io sono il procuratore, se minacciano te significa che io non sono stato capace di proteggerti”. Che voleva evitare guai alla scorta, e per questo cercava di sfuggire loro in momenti precisi e definiti della giornata, in modo che i mafiosi potessero coglierlo da solo.
La quarta è che era un uomo con una carica umana inverosimile, che ha lasciato il segno in chiunque lo abbia incontrato.

La sua vicenda professionale è intrecciata a quella di Giovanni Falcone, per questo ho scelto di non ripercorrerla.
Voglio invece porre l’accento su questa sua carica umana – che Falcone più distaccato e timido non possedeva – che risulta evidente leggendo chi lo ricorda: Antonino Caponnetto parla di lui come di un figlio, Caselli lo ricorda con commozione, i suoi sostituti di Marsala con un affetto che rasenta – in Ingroia soprattutto – l’adorazione. Ingroia ancora oggi, a 52 anni e a 19 anni dalla morte del suo maestro, dice di sentirsi orfano di Paolo Borsellino.

Per questo lascio parlare quattro persone che lo hanno conosciuto.
Le prime due sono magistrati come lui, il primo è stato il suo capo, agli inizi della carriera di Borsellino: Nello Sciacca.
Il secondo è stato suo allievo, alla procura di Marsala e poi a quella di Palermo: Antonio Ingroia.
La terza è un giornalista: Saverio Lodato.
La quarta è il figlio Manfredi.
Tutte e quattro, insieme, ci regalano il ritratto di un Uomo con la u maiuscola.

Così il presidente del Tribunale di Enna Nello Sciacca, la mattina del 30 giugno 1967 nel salutare Enna per approdare al Tribunale di Catania, ricorda tra gli altri colleghi il giovane uditore giudiziario:
Un discorso a parte merita Paolo Borsellino. Qualcuno ha insinuato che egli è stato il mio giudice prediletto. Nulla di più falso. Ed infatti se collega c’è che, a diverse riprese, avrei voluto gratificare di qualche scappellotto, questi è proprio lui. Il fatto è che egli, tranne che nel campo del diritto, resta ancora terribilmente minorenne, talché in me si ridestano i mai sopiti istinti paterni. E adesso lasciando Enna, ve lo confesso, tremo per lui e lo raccomando a tutti voi che mi ascoltate. Cercate, per esempio, di spiegargli che Enna, anche se non è una città polare, non è nemmeno una città tropicale, con la conseguenza che in gennaio o febbraio non si può andare in giro senza cappello e pastrano. Cercate di spiegargli pure quante sigarette si possono impunemente fumare in un giorno, quanto pepe vada sparso sulle pietanze, e infine come non sia del tutto indispensabile, uscendo di casa, lasciare la luce accesa, la porta spalancata e tutti i rubinetti aperti. Lo ricorderò sempre come un caro ragazzo, che poteva essere mio figlio, e dietro il quale correvo giù per le scale del Tribunale gridando: “Paolo, accidenti a te, torna indietro, fuori piove e fa freddo...Paolo, torna indietro... almeno l’ombrello...”.
Umberto Lucentini, Paolo Borsellino

L’attesa si era interrotta, d’improvviso com’era iniziata. Perché era arrivato lui, il giudice. Il deus ex machina della sua [di Rita Atria] vita. E pure della mia, del resto. Paolo Borsellino era un uomo deciso ed esperto, portatore di una carica umana insostenibile, sapeva come prendere le persone, come entrare in relazione e perciò era capace di vincere la più chiusa diffidenza, la più coriacea scontrosità.
Era il mio capo. Il nostro primo incontro era avvenuto nel suo ufficio, nella Procura di Marsala. Presentandomi, gli rivolsi queste impacciate parole: “Procuratore, sono qui per il mio insediamento, quando crede che potrò iniziare a lavorare in questo ufficio?”. E lui, con tono grave: “Ma scusa, collega, ti sembro forse tanto vecchio da darmi del lei?”. Seguì una risata, piena e fragorosa, che ruppe il ghiaccio e rivelò una parte a me nascosta di quell’uomo-mito: era un giudice, ma era soprattutto un uomo, un uomo allegro. Dotato di una risata che gli illuminava il viso. E quando rideva, la sua allegria, che era allegria e freschezza d’animo, voglia di vivere, lo prendeva tutto, fino a scuoterlo nel profondo. I suoi baffi ridevano, il suo naso rideva, i suoi occhi ridevano, felici. La sua anima sorrideva. Ecco, era stata ancora una volta la sua risata a rompere il silenzio […] Era lui che mi aveva chiamato, anzi, che ci aveva chiamato. Perché, subito dopo, alla spicciolata arrivarono gli altri, i miei colleghi, a riempire quella stanza di varia umanità […] Tutti attorno a lui. Eravamo giovanissimi apprendisti. E lui il nostro maestro. Tutti intorno a lui come pulcini dietro la chioccia.
Antonio Ingroia Nel labirinto degli dei

Maggio 1992. Per l'esattezza il 2 maggio, verso le 8 del mattino. Ricevo a casa una telefonata di una segretaria della Procura che gentilmente, ma avverto nella sua voce un pizzico di preoccupazione, mi dice: «stamattina venga in Procura...c'è movimento...movimento che la riguarda...». Quel giorno nelle librerie usciva un mio libro intitolato: «Potenti. Sicilia anni novanta», pubblicato dalla Garzanti di allora per volere di un grande editore, Andrea Piccioli che poi, stufo delle logiche compromissorie di certo sistema editoriale italiano e con tanto di dichiarazione pubblica, decise di andare anticipatamente in pensione. Il libro conteneva un capitolo dal titolo: C'era una volta. Conteneva fra l'altro un duro attacco a Giuseppe Pignatone e Guido Lo Forte, sostituti procuratori dell'epoca (il primo sarebbe rimasto sino ai giorni nostri fedele alla sua visione delle cose, il secondo avrebbe vissuto senza riserve la stagione di Gian Carlo Caselli alla guida della Procura di Palermo). Ma soprattutto a Pietro Giammanco. Al palazzo seppi che a volermi incontrare era nientemeno che Paolo Borsellino, da poco giunto a Palermo da Marsala e ora alle dirette dipendenze proprio di Giammanco, il capo che aveva preso il posto di Curti Giardina, il procuratore che, quattro anni prima, aveva firmato l'arresto mio e di Bolzoni per il bizzarro reato di "peculato" (la violazione del segreto istruttorio non prevedeva infatti il carcere per i giornalisti), mentre l'operazione sul campo - come si dice - era stata affidata a Mario Mori, allora comandante del gruppo 1 dei carabinieri. Il Giammanco, che avevo conosciuto in carcere durante il mio primo interrogatorio, nel frattempo era infatti diventato "capo". Tutti "bravi ragazzi". D'altra parte, Giammanco, lui stesso non ne faceva mistero, era amico personale di Salvo Lima e Aristide Gunnella, e aggiungiamo noi - forse eufemisticamente - fu una delle cause non secondarie che avevano spinto Falcone, esattamente due anni prima, ad abbandonare anticipatamente la sede di Palermo per l'incarico a Roma al ministero di Grazia e giustizia. La porta dell'ufficio di Borsellino era spalancata. Mi affacciai sulla soglia e lo vidi circondato da pile di fotocopie. Mi apparve teso e nervoso. «Sono le fotocopie del suo libro, caro Lodato». «Strano - replicai - il libro se tutto va bene è arrivato in libreria da meno di un'ora e avete avuto già il tempo di fotocopiare?». Lui si sciolse in un accenno di sorriso: «Lei - e giocò sul titolo del libro - sottovaluta i potenti mezzi della nostra Procura... È vero. Ieri era il primo maggio e le librerie erano chiuse, ma lei che è l'autore, dovrebbe sapere che c'è una piccola libreria a Roma a Campo dei Fiori che è sempre aperta... E il mio "capo" aveva molta curiosità di leggerlo... Avranno mandato i motociclisti a Roma...i carabinieri a cavallo...non so che dirle...». Mi vennero i brividi mentre mi accorgevo di sottolineature rosse, nere, blu, un fosforescente tripudio di ipotetici capi d'accusa nei miei confronti. Balbettai: «ma perché se ne occupa lei?». Borsellino: «questo è il bello...il capo vuole che me ne occupi personalmente io...lei non sa che Giovanni e io siamo criticati per essere troppo amici del l'Unità e della sinistra?». Seguì il suo consueto e splendido sorriso sotto i baffi. Abbozzai: «quindi?». Borsellino: «quindi è meglio che per qualche giorno non si faccia vedere in giro... I miei colleghi non sono per niente contenti della sua ultima fatica letteraria...». Chiesi: «mi devo preoccupare?». Borsellino: «guardi se potessero strozzarla - e questa volta scoppiò a ridere per davvero - lo farebbero volentieri. Che posso dirle? Che chiederò un supplemento di istruttoria...insomma dirò che per leggere bene il suo libro ci vuole tempo...soprattutto perché se questa volta dobbiamo arrestarla dobbiamo arrestarla con tutti i crismi, evitando la brutta figura che la Procura fece quattro anni fa...Speriamo che mentre io continuo a leggere la bufera si calmi...». Borsellino continuò a leggere, per giorni e giorni, e anche di questo gli sono eternamente grato. Così fu. La bufera si calmò. Le minacciate querele non arrivarono mai. Ma non vi sembra singolare che Paolo Borsellino, ventun giorni prima della strage di Capaci e settantasette, se il calcolo non è errato, della sua stessa morte, veniva costretto a spendere il suo tempo a fotocopiare nella speranza che si trovassero gli estremi per arrestare un'altra volta lo stesso giornalista?
Saverio Lodato Così uccisero l’uomo d’altri tempi
Nel primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come lui solo sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.
Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi alla televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.
Si cambiò e, raccomandandomi di non allontanarmi da casa, si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia.
Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto, mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del palazzo di Giustizia.
Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.

La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’MSI siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.

Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.
Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dopo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.

Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.

Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggiava lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.

La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di …, desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.

Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ovverosia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, ovverosia una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino.
A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi di non essere più liberi ma condizionati, sotto ricatto fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.

Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.
Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.
Manfredi Borsellino in Era d’Estate

mercoledì 18 luglio 2012

18 Luglio 1990
Giuseppe Tragna 49 anni, funzionario di banca

Giuseppe Tragna è stato un funzionario di banca di Agrigento. Tragna venne assassinato il 18 luglio 1990 in via Gela a San Leone, con due colpi di pistola. L’ex direttore dell’Agenzia 2 della Banca Popolare Sant’Angelo di Agrigento era sposato e padre di tre figli. Venne ucciso a 49 anni in un agguato mafioso.

venerdì 13 luglio 2012

13 Luglio 1980
Pietro Cerulli 30 anni, agente di custodia

Pietro Cerulli faceva l’Agente del Corpo degli Agenti di Custodia. Era nato a Miano (NA) il 26 maggio 1950 e prestava servizio presso la Casa Circondariale “Ucciardone” di Palermo. Il 13 luglio 1980, mentre rincasava alla guida della propria autovettura dopo il lavoro veniva fatto segno di un attentato mortale commesso da Cosa Nostra.

mercoledì 11 luglio 2012

11 Luglio 1989
Paolo Vinci 17 anni
A Camporeale (Palermo) ucciso Paolo Vinci, un giovane di 17 anni, testimone di un agguato in cui è stato ucciso il suo datore di lavoro.


Li hanno massacrati con una ferocia inaudita, con colpi di fucili a lupara e pistole di grosso calibro, devastandogli la testa e squarciandogli il torace. Calogero Loria di 26 anni, e Paolo Vinci, di appena 17, sono morti all' istante; all' agguato è miracolosamente scampato Filippo Loria, di 35, cugino di Calogero e che secondo gli inquirenti era il bersaglio principale. I killer lo hanno ferito in modo non grave ma non sono riusciti a sparargli il colpo di grazia. Filippo Loria dopo i primi colpi e nonostante una pallottola in corpo è fuggito riuscendo a nascondersi in una vicina casa colonica abbandonata. Il massacro è stato compiuto nella tarda serata di martedì in contrada Serpi nelle campagne di Camporeale, un paese a 50 chilometri da Palermo. Poco prima delle 21, tre killer, armati di fucili e pistole e con il volto coperto da passamontagna, a bordo di una Fiat Tipo, hanno raggiunto il podere dei cugini Loria che insieme al giovane Vinci, stavano caricando di legname un autocarro. Filippo Loria ha capito che si trattava di un commando di assassini ed è subito fuggito. La mancata sorpresa non ha però scoraggiato i killer che hanno fatto fuoco. I pallettoni della lupara hanno colpito subito Calogero Loria e Paolo Vinci che sono stati poi finiti con due fucilate alla testa. Filippo Loria è stato inseguito da uno dei sicari; protetto dall' oscurità è riuscito però a salvarsi. Un solo proiettile lo ha raggiunto. E' stato lo stesso Filippo Loria a dare l' allarme; aiutato da un contadino è stato trasportato in ospedale da dove sono stati avvertiti i carabinieri. Filippo Loria, l' unico dei tre che aveva precedenti penali, non ha fornito particolari utili agli investigatori. L' auto utilizzata dagli assassini è stata ritrovata ieri mattina a tre chilometri dal luogo del massacro completamente distrutta dalle fiamme. Gli investigatori sono convinti che a Camporeale sia in corso una faida tra clan che una volta obbedivano al defunto patriarca Vanni Sacco, un capomafia storico, riverito e rispettato dai grandi boss di Cosa nostra. I carabinieri non escludono che il duplice omicidio possa essere collegato all' uccisione di Ciro Sciortino, 63 anni, ex sindaco democristiano di Camporeale, assassinato il 24 giugno scorso davanti al nipotino di 6 anni. Sciortino era cognato di Vanni Sacco. Prima di lui a Camporeale un altro delitto eccellente, quello di Giuseppe Montalbano, 63 anni, ucciso il 28 novembre dello scorso anno. Montalbano era il medico del paese.
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martedì 10 luglio 2012

10 Luglio 1994
Liliana Caruso 28 anni, moglie del pentito Riccardo Messina
Agata Zucchero 61 anni, madre di Liliana

Liliana Caruso vien uccisa il 10 luglio 1994 per ritorsione insieme alla madre per far tacere il marito pentito Riccardo Messina. Liliana Caruso aveva 28 anni e tre figli quando venne uccisa, insieme alla madre Agata Zucchero perché si era rifiutata di convincere il marito a non collaborare e aveva rifiutato la protezione della polizia per non allontanarsi dal marito. Probabilmente ingenuamente non immaginava che potessero arrivare a tanto e ad ammazzarla. Lei stessa aveva denunciato alla polizia le minacce ricevute da Domenica Micci e Santa Vasta mogli di due boss del clan Savasta, nel tentativo di zittire il marito tramite lei. Dopo l’uccisione delle due donne, Riccardo Messina portò a termine il suo pentimento e raccontò ai magistrati tutto ciò di cui era a conoscenza.

Da qualche mese la moglie di Riccardo Messina, assieme ai tre figli, era andata a vivere a casa della madre nella zona del Fortino. Qui si comportavano come due tranquille signore. E come due casalinghe ieri mattina sono scese in strada, nella caotica via Garibaldi, di fianco a un cinema a luci rosse. Liliana Caruso si avvia a far la spesa nella salumeria di fronte a casa, la madre resta ad attenderla sull' uscio. Due diverse squadre di sicari seguono i loro movimenti. Poco dopo le 9 l' agguato. Un killer a volto scoperto aspetta che la moglie di Riccardo Messina entri nella salumeria. La segue. La donna e' al banco e sta per fare le proprie ordinazioni. Il sicario le si para davanti, le punta la pistola in un occhio e spara tre colpi in rapida successione. Quasi in contemporanea l' altra squadra pensa alla suocera del pentito. Agata Zucchero sente le detonazioni che provengono dal negozio di alimentari, si agita, il primo impulso e' quello di accorrere in soccorso della figlia. Poi nota un uomo che le viene incontro, capisce tutto e tenta una breve fuga. Tutto inutile. I colpi di pistola del sicario la raggiungono alla schiena e alla nuca. Proprio in quel momento una gazzella dei carabinieri passa per caso nella zona. All' echeggiare degli spari i militari si precipitano di fronte allo stabile dove abita Agata Zucchero. "Uno scippo, e' stato uno scippo. La signora si e' fatta male" grida qualcuno. Molto probabilmente un depistaggio. I carabinieri cercano di soccorrere la donna, ma prima che capiscano com' e' andata gli assassini sono gia' riusciti a dileguarsi. Le indagini non lasciano spazio alla fantasia: e' stata certamente una vendetta trasversale. Ma chi e' questo Riccardo Messina? Soprannominato "U Sceriffu" e' affiliato al clan "Savasta", una cosca minore che controlla il racket delle estorsioni nella zona del porto. In collaborazione con il clan Santapaola, gli uomini della "Savasta" dettano legge nel mercato ittico imponendo i prezzi all' ingrosso del pesce. Prima di essere arrestato, il 6 febbraio scorso, Riccardo Messina era un killer tra i piu' spietati, indicato come elemento di primo piano della mafia catanese. Gli inquirenti lo consideravano addirittura l' uomo di fiducia del boss latitante Antonino Puglisi, capo del clan "Savasta".
Fonte

venerdì 6 luglio 2012

6 Luglio 1919
Costantino Stella 46 anni, arciprete

Arciprete di Resuttano (Cl) si batteva contro i soprusi esercitati dai clan della zona sulla popolazione e aveva dato il via ad importanti attività in campo sociale e nel sostegno dei contadini siciliani. Venne accoltellato il 19 giugno da un membro di una potente famiglia mafiosa locale davanti alla porta di casa. Morì, dopo diciotto giorni di agonia, il 6 luglio 1919 a Resuttano (Cl).

giovedì 5 luglio 2012

5 Luglio 1999
Filippo Basile 38 anni, dirigente della Regione siciliana

Filippo Basile era un dirigente della Regione siciliana e lavorava all’assessorato regionale Agricoltura e Foreste. Trasformò la biblioteca dell’assessorato in un centro di documentazione. Il suo lavoro consisteva nella gestione delle risorse umane per l’informazione e la formazione del personale della pubblica amministrazione. Uscito dal suo ufficio, è stato ucciso il 5 luglio del 1999 a colpi di pistola, solo per aver voluto fare il suo dovere.

mercoledì 4 luglio 2012

4 Luglio 1949
Candeloro Catanese 29 anni, guardia
Carmelo Agnone 28 abbi, guardia
Mariano Lando 35 anni, funzionario dell’ispettorato delle guardie
Carmelo Lentini 23 anni, guardia
Michele Marinaro 26 anni, guardia
Quinto Reda 27 anni, guardia

Verso le 20,30 del 2 luglio, a bordo di una camionetta Fiat 1100 il Commissario dr. Mariano Lando, 35 anni, funzionario dell’Ispettorato e le Guardie Carmelo Gucciardo, 24 anni, autista, Carmelo Agnone, 28 anni, Carmelo Lentini, 23 anni, Michele Marinaro, 26 anni, Candeloro Catanese, 29 anni, Quinto Reda, 27 anni e Giovanni Biundo, 22 anni, partirono alla volta di Palermo, per recarsi all’Ispettorato, ove era stata convocata un’urgente riunione di servizio.
Pochi chilometri dopo, allorché il veicolo giunse in località Portella della Paglia, un gruppo di una decina di fuorilegge aprì il fuoco con raffiche di mitra, lanciando anche alcune bombe a mano. Le prime raffiche falciarono Agnone, Lentini e Reda, che morirono all’istante. Gli altri si precipitarono fuori dal mezzo e, facendosene scudo, risposero al fuoco con le armi automatiche.
La sparatoria si protrasse per circa mezz’ora; i malviventi cercarono di accerchiare il veicolo per trucidare i poliziotti, che si difesero strenuamente, riuscendo a metterli in fuga e a chiamare i soccorsi.
Purtroppo, quando questi arrivarono, trovarono sul terreno quattro feriti: Gucciardo e Biundo in modo serio, ma non mortale, mentre Marinaro e Catanese lo erano gravemente e versavano in evidente pericolo di vita. Immediatamente trasportati in ospedale, i quattro agenti furono sottoposti alle cure del caso, che però per due di essi furono disperate e vane: il Marinaro cessò di vivere poco dopo, mentre il Catanese si spense il 4 luglio, dopo due giorni di agonia.

lunedì 2 luglio 2012

2 Luglio 1975
Gaetano Cappiello agente di Pubblica Sicurezza

Gaetano Cappiello, agente di Pubblica Sicurezza.
Prestava servizio alla Squadra Mobile della Questura di Palermo.
Il proprietario di un noto laboratorio fotografico, l’imprenditore palermitano Randazzo, era stato più volte oggetto di minacce ed estorsione da parte di banditi che chiedevano soldi in cambio di protezione.
Il commerciante decide così di rivolgersi alla Polizia, che organizza un servizio per catturare gli estorsori.
Dopo numerosi appostamenti, andati a vuoto per la particolare cautela adoperata dai banditi, l’ultimo appuntamento, quello decisivo è previsto per le ore 21,30 del giorno 2 Luglio, davanti alla Chiesa della Resurrezione nel quartiere “Villaggio Ruffini”.
La zona è circondata da agenti e sottufficiali in borghese, mentre un furgoncino civetta è posteggiato ad una ventina di metri dal luogo dell’appuntamento. All’interno ci sono sei uomini (il commissario Girgenti, il maresciallo Totò Nalbone e altri quattro poliziotti) della Sezione investigativa diretta da Vittorio Vasquez.
L’agente Cappiello si trova nella macchina dell’imprenditore per proteggerlo durante la consegna del denaro e poi lasciare intervenire i colleghi.
E’ un errore. Cappiello è un gigante, è alto un metro e novanta. Metterlo nell’auto di Randazzo significa limitarne i movimenti. Ma l’agente insiste, si fida della sua prestanza fisica, rifiuta di portarsi dietro il mitra. Ha con sé solo la Beretta calibro 9 corto d’ordinanza (che oltretutto sarà trovata col carrello arrugginito, quindi senza la possibilità di sparare)
Forse Cappiello sottovaluta la ferocia dei killer (“Quelli li sistemo solo con le mani” avrebbe detto a sostegno della sua insistenza di andare in macchina con Randazzo).
Alle ore 21,15 i banditi, uomini della cosca di Rosario Riccobono, telefonano a Randazzo dicendogli di attendere il loro arrivo in macchina.
Quando si avvicinano Randazzo avverte Cappiello: “stanno arrivando”.
Cappiello esce improvvisamente dalla vettura, dichiarandoli in arresto, ma viene raggiunto da cinque colpi al petto.
Morirà poco dopo all’ospedale di Villa Sofia, tra le braccia del suo capo della mobile, Bruno Contrada.
Angelo Randazzo verrà colpito gravemente e starà tra la vita e la morte per un lungo periodo in ospedale.
Gli uomini assiepati nel furgone si lanciano all’inseguimento ma i killer si gettano in auto e fuggono. Verrà fermato il palo, Michele Micalizzi, picciotto della cosca di Pallavicino, uomo del potente capofamiglia Riccobono.