mercoledì 31 ottobre 2012

31 Ottobre 1990
Alessandro Rovetta 33 anni, imprenditore
Francesco Vecchio 52 anni, capo del personale

Alessandro Rovetta è stato un imprenditore italiano, amministratore delegato della Megara, una azienda catanese. Rovetta venne ucciso il 31 ottobre del 1990 insieme a Francesco Vecchio, capo del personale della stessa azienda. I due vennero raggiunti dai sicari a bordo dell’auto dell’ imprenditore bresciano, un delitto che rimane ancora senza colpevoli. Le ipotesi avanzate allora fecero riferimento a una storia di subappalti della fabbrica. Un affare sul quale aveva puntato gli occhi la mafia. Alessandro Rovetta si sarebbe opposto a qualsiasi intrusione anche se le pressioni di Cosa Nostra erano forti.
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Francesco Vecchio, capo del personale dell’azienda Megara, di Catania, ucciso nella provincia etnea il 31 ottobre del 1990, a 52 anni. Sul finire degli anni ’80 l’Acciaieria aveva avviato un processo di ammodernamento tecnologico e successivamente era ricorsa alle prestazioni di alcune società esterne, che utilizzavano proprio personale. Vecchio si occupò dei controlli sui lavoratori e sulle attività aziendali, anche dell’indotto. Lo fece con rigore, attenzione e professionalità. Poco dopo iniziarono le minacce telefoniche e le intimidazioni. Il 31 ottobre Francesco Vecchio viene assassinato a Catania insieme all’amministratore delegato della Megara, Alessandro Rovetta, poco lontano dall’uscita dell’azienda mentre a bordo della sua auto tornava a casa dopo una giornata di lavoro. Le indagini sul suo omicidio seguono il possibile interessamento della mafia al finanziamento regionale che la ditta aveva ricevuto per l’ammodernamento, circa 60miliardi di lire e al possibile controllo dell’azienda stessa.
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sabato 27 ottobre 2012

27 Ottobre 1972
Giovani Spampinato 25 anni, giornalista

Tutti si gloriavano di vivere a Ragusa, capoluogo della Sicilia produttiva e perbene. Ragusa era la provincia "babba", un pezzo di Sicilia celebrato in quanto pacifico, pulito, tranquillo, immune da contaminazioni mafiose. Ma non era questo luogo paradisiaco. Era un verminaio, solo che nessuno ci faceva caso e nessuno guardava dietro la facciata. In città si svolgevano oscuri traffici. Il perbenismo nascondeva turpitudini da provincia corrotta. Le belle spiagge erano approdo sicuro di contrabbandieri di sigarette, droga e armi. I campi disseminati di carrubi e recintati da muretti a secco ospitavano campi paramilitari clandestini. La passione di alcuni per gli scavi archeologici faceva da paravento a raduni eversivi di estrema destra. Superlatitanti dell'eversione nera circolavano indisturbati...
Convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, i pacifici cittadini di Ragusa rifiutavano di vedere queste crepe. Non vollero vederle neppure il 25 febbraio 1972, quando l‟armonia fu turbata da un truce e oscuro omicidio. Il cadavere di Angelo Tumino, 48 anni, ingegnere, ex play boy, ex consigliere comunale del Msi, commerciante di antiquariato, fu trovato abbandonato su una trazzera. L‟uomo era stato barbaramente ucciso. Da chi? Vagamente, i giornali scrissero: ”le indagini seguono tutte le piste”, e si disinteressarono delle indagini.
Fra i corrispondenti c‟era un ragazzo di 25 anni che vedeva le cose diversamente. Si chiamava Giovanni Spampinato. Studiava filosofia all‟Università di Catania. Tre anni prima, Vittorio Nisticò, il leggendario direttore de "L'Ora degli anni ruggenti" lo aveva reclutato come corrispondente con l‟incarico di guardare dietro la facciata. Da allora, il ragazzo trascurava gli esami, pubblicava documentate inchieste sulle rughe che stravolgevano il celebrato volto della “provincia babba”. Dalla redazione di Palermo riceveva complimenti, ma dai suoi concittadini solo rancori e critiche. Anche alcuni suoi colleghi erano risentiti. “Chi te lo fa fare?”, gli dicevano quelli che si vantavano di andare d‟accordo con tutti. […]Le sue inchieste descrivevano il frenetico attivismo, nella provincia babba e dintorni, di gruppi eversivi di estrema destra collegati ai fascisti locali e ai caporioni di Ordine Nuovo e non estranei agli oscuri traffici lungo la costa.
Giovanni guardò dietro la facciata anche quel 25 febbraio 1972, quando a Ragusa fu assassinato Tumino. Poi scrisse sul suo giornale: gli inquirenti seguono tutte le piste, e fra tutte le piste, ce n‟è una che porta dentro il Palazzo di Giustizia. Fra i sospettati c'è un insospettabile: il figlio del Presidente del nostro Tribunale. Inoltre nelle indagini, aggiunse, sono coinvolti alcuni protagonisti delle mie inchieste sulle trame nere.... Gli altri corrispondenti non scrissero nulla di tutto ciò. “Manca la conferma ufficiale”, dissero. Giovanni cominciò a chiedere: come mai stando così le cose – perché Il figlio del giudice era veramente sospettato - l‟istruttoria penale non viene trasferita in un‟altra città? Anche allora gli altri corrispondenti si voltarono dall‟altra parte.
A Ragusa gli articoli di Giovanni giravano di mano in mano. Non si parlava d‟altro. Ma non succedeva niente. C‟era solo quel ragazzo-giornalista che raccoglieva notizie e continuava a fare il grillo parlante. Espose anche il punto debole dell‟alibi del figlio del giudice. Passarono sei mesi. L’inchiesta restò a Ragusa girando a vuoto. Poi il 27 ottobre 1972, il sospettato scaricò addosso a Giovanni due delle cento pistole con cui notoriamente andava in giro. Lo uccise, prese un sonnifero e si costituì.
I giudici furono molto comprensivi. Lo trattarono come un figlio. Gli diedero solo uno scapaccione. Per salvarlo dall’accusa di omicidio volontario premeditato e da altre aggravanti che portavano dritto all’ergastolo, dissero che con i suoi articoli (che riferivano notizie vere) quel giornalista lo aveva provocato in modo insopportabile. Al processo, il “figlio della giustizia” se la cavò con una condanna a 14 anni. Di fatto ne scontò solo otto, e in manicomio giudiziario.
Dopo il delitto, la provincia babba riprese il quieto tran tran. Delle piste del delitto Tumino indicate da Spampinato non si occupò più nessuno. Svanirono nel nulla. Come dire? A volte un delitto lava laltro.
Il 6 novembre 1972 Giovanni avrebbe compiuto 26 anni. Era un ragazzo mite, innamorato della vita, alle prese con i sogni e le prove della sua età. Era cresciuto in una famiglia di modeste condizioni, ma di grandi ideali[…]
Con i suoi articoli cercava di scuotere concittadini che consideravano giusti, fondati perfino i privilegi semifeudali e le angherie che, ancora nel 1970, nelle campagne di Ragusa, regolavano i rapporti fra chi possedeva la terra e chi la lavorava. Giovanni cercava di scuotere anche i suoi colleghi giornalisti e i giornali locali che rimandavano quel riflesso ingannevole, mistificante della realtà circostante: la solita immagine edulcorata, paradisiaca della “provincia babba”. L’immagine stereotipata celebrata anche dal vescovo, un prelato di vecchio stampo che non digeriva le novità del Concilio Vaticano II e i mal di pancia del dissenso cattolico, e neppure le lotte sindacali: vantava sempre l’animo pacifico del suo gregge che rifiutava la lotta di classe.
Giovanni non riusciva ad accettare che si potesse dare un’immagine così falsa e strumentale di Ragusa. Si sentiva immerso nella falsità. Noi diremmo: in un “Truman show”. Si chiedeva: come fanno gli altri, che vivono accanto a me, a fingere di non vedere quel che vedo io? Non riusciva a spiegarlo. Talora dubitava delle sue deduzioni. Ma poi i fatti gli davano ragione, e ripartiva sentendo l’ebbrezza di chi ha il dono della vista in un mondo di ciechi.
Le cose andavano proprio così! Neanche quelli che gli erano più vicini vedevano quel che vedeva Giovanni. Neanche io, che ero suo fratello e avevo diviso con lui sogni, progetti ed ideali, vedevo quel che vedeva lui. Non riuscivamo a credere agli allarmi che lanciava. Non accettavamo l’idea che Giovanni potesse capire meglio di noi quel che accadeva sotto i nostri occhi. Eravamo ciechi e sordi. Sottovalutavamo il fatto che Giovanni disponeva di strumenti di conoscenza e di interpretazione della realtà più potenti dei nostri: il giornalismo di inchiesta, la supervisione della redazione del’‟Ora, una formazione multi-disciplinare, contatti al di fuori del mondo chiuso di Ragusa.
[…]Nel piccolo mondo di Ragusa, Giovanni aveva la fortuna e la disgrazia di essere un giornalista. Era cioè uno dei pochi a disporre di un occhio acuto in un mondo di ciechi. Questo status lo stimolava a fare la “piccola vedetta lombarda”, a salire in alto, sui pennoni più esposti al fuoco nemico per fare un’osservazione in nome collettivo. […]Scoprì, […] e lo raccontò ai suoi lettori, che super-latitanti dell’eversione nera circolavano liberamente, riveriti e ossequiati; che negli ambienti della destra locale si parlava di campi paramilitari, di armi, di sbarchi clandestini di strane merci sul litorale circostante; scoprì che a Ragusa erano arrivati da Roma noti fascisti che ostentavano legami col principe nero golpista Junio Valerio Borghese, che avevano mirabolanti progetti di investimenti. E mentre faceva queste scoperte, nella quiete bucolica di Ragusa, fra i muretti a secco, le mucche al pascolo brado e i carrubi secolari dell’leografia consolidata, si verificò quel fatto assolutamente fuori dell’ordinario: l’assassinio dell’ingegner Angelo Tumino, un noto professionista che aveva rapporti con alcuni dei personaggi citati nelle inchieste di Giovanni sul neofascismo, ucciso con modalità che fecero subito pensare allo stile mafioso, a un’esecuzione in piena regola. Com’era possibile che accadesse una cosa così orribile, nel migliore dei mondi possibili? Lo schizzo di sangue dell’omicidio Tumino imbrattò il paradisiaco scenario del “Truman show”. Quando nelle indagini fu coinvolto quel personaggio al di sopra di ogni sospetto, il figlio del giudice più alto in grado in città, Giovanni lo scrisse sul suo giornale. Immaginò che finalmente il velo dell’ipocrisia sarebbe caduto, che finalmente i suoi concittadini avrebbero convenuto con le sue idee sulla vera natura della provincia iblea, avrebbero ammesso che lì avvenivano strane cose. Giovanni immaginava questi sviluppi. Si sbagliava. I suoi concittadini si preoccuparono solo di cancellare in fretta la macchia di sangue e di riprendere lo spettacolo. La parte imbrattata dello scenario fu ritagliata con cura e nascosta alla buona, sotto il tappeto, davanti a molti testimoni, davanti allo sguardo distratto dei giornalisti del luogo. Anche loro finsero di non vedere. Giovanni invece documentò e descrisse la scena ai lettori dell’Ora. Il giornale pubblicò il nome del sospettato eccellente. Fu uno scandalo. Ma a finire sotto accusa fu proprio il cronista indiscreto… Giovanni dovette giustificarsi. “Come avrei potuto tacere un fatto così clamoroso, e per di più palese?”, diceva. Anche nei mesi successivi fu l‟unico cronista a scrivere articoli sullo stallo delle indagini.
Il figlio del giudice sospettato si chiamava Roberto Campria. Aveva trent’anni. Era un giovane scapestrato. All’Università s’era perso per strada e i genitori gli avevano procurato un impiego pubblico. Collezionava armi, giocava a carte, frequentava personaggi equivoci della destra e della malavita. Insomma la sua figura non era adamantina. Ma era il rampollo dell’alto magistrato, e forse proprio per questo fu trattato con molta, troppa indulgenza dagli inquirenti. E, nonostante questo, non sapeva come uscirsene. Era preoccupato che fossero pubblicato altre notizie sui sospetti che gravavano su di lui. Spalleggiato dai genitori, tentò di intimidire il cronista dell’Ora. Prima, con una querela insostenibile, che in Tribunale fu lasciata cadere. Poi cercando di conquistare la fiducia del cronista per tirarlo dalla sua parte. Gli confidò, ad esempio, di temere che chi gli aveva fornito l’alibi cambiasse idea. Giovanni pubblicava le dichiarazioni del sospettato che si dichiarava innocente. Ma questi non si accontentava. Lo assillava con le sue richieste. Voleva che il ragazzo-giornalista scrivesse in un articolo di essersi convinto che con l’omicidio non c’entrava nulla. Come puoi pretendere da me una cosa simile, gli obiettava Giovanni? E a cosa servirebbe? Il sospettato cominciò a fare la vittima. Ce l’avevano con lui perché ce l’avevano con suo padre…
Diceva che a Palazzo di Giustizia c’era una lotta contro suo padre. Cercavano di coinvolgere il figlio per fregare lui. Scrivilo, diceva al cronista. Giovanni rispondeva: se metterai questa dichiarazione per iscritto, io ne darò notizia e col massimo rilievo. Il confronto si arenò su questo punto. Il sospettato insisteva per un articolo che scagionasse lui e mettesse in buona luce suo padre. Sapeva benissimo che non spettava al ragazzo-giornalista scagionarlo. Qual era il suo vero obiettivo? Forse scoprire se il cronista sapeva qualcos’altro sul suo conto e sulle indagini sul delitto Tumino. O forse semplicemente screditare il giornalista che aveva osato fare il suo nome, facendogli scrivere una bufala. Così non sarebbe più stato preso sul serio, qualunque cosa gli venisse in mente di scrivere. Giovanni si poneva queste domande e non sapeva rispondere. Capiva che il sospettato attribuiva a quell’articolo enorme valore, ma non era disposto a scrivere notizie clamorose senza nessuna pezza di appoggio. Capiva che quel tipo, che si vantava di andare in giro armato, voleva mettergli paura.
Giovanni la paura ce l’aveva, altro che! Ma non voleva darla a vedere, non era disposto a cedere. Non era disposto a dire che quel Truman Show era la realtà. Come avrebbe potuto dirlo, lui che continuava a tenere il drago per la coda? Lui che aveva denunciato lo scandalo? Lui che aveva lanciato l‟allarme e adesso aspettava solo che arrivassero “i nostri”? Forse anche il giovane scapestrato figlio del giudice-per-antonomasia temeva che arrivasse il Settimo Cavalleggeri.
Fatto sta che a un certo punto per il figlio del giudice l’attesa si fece intollerabile. Perciò con una scusa attirò il ragazzo-giornalista in un posto isolato, e lo uccise.
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27 Ottobre 1920
Giuseppe Monticciuolo socialista

A Vita (Trapani) viene ucciso il capolega Giuseppe Monticciuolo. Il prefetto di Trapani scriveva: "La sua fine fu decisa perché Presidente dell'Associazione pel miglioramento dei contadini ed esponente maggiore dell'agitazione agraria in Vita".

venerdì 26 ottobre 2012

26 Ottobre 1959
Antonino Pecoraro 10 anni
Vincenzo Pecoraro 19 anni

I fratelli Antonino e Vincenzo Pecoraro, rispettivamente di 10 e 19 anni. Rimasero vittime della cosiddetta “strage di Godrano”, il 26 ottobre 1959. Nell’attacco vennero feriti anche il padre Francesco e il compaesano Demetrio Pecorino.
I killer – i fratelli Francesco e Salvatore Maggio – si erano nascosti, travestiti da carabinieri, nella casa disabitata di Agostino Barbaccia, vicino dei Pecoraro. Fecero irruzione a casa delle vittime e cominciarono a sparare. In casa c’erano Francesco, il padre, la moglie Francesca ed il bambino Antonio, oltre che Demetrio Pecorino.
I colpi di fucile e lupara raggiunsero Pecorino alle gambe e Francesco e Antonino al torace. Il bambino sarebbe morto due giorni dopo. Udendo gli spari, l’altro figlio, Vincenzo, che in quel momento si trovava nella stalla, accorse, ma venne falciato pure lui. I killer avrebbero fatto carriera, portando a temine numerosi delitti e agguati nel palermitano e nel trapanese.

lunedì 22 ottobre 2012

22 Ottobre 1946
Giuseppe Biondo mezzadro

A Santa Ninfa (Trapani) viene ucciso Giuseppe Biondo, mezzadro iscritto alla Federterra, che lottava per l'applicazione della legge sulla divisione del prodotto al 60% per il mezzadro e al 40% per il proprietario. Era stato sfrattato illegalmente dal proprietario del terreno ma era tornato a lavorarvi.

martedì 16 ottobre 2012

16 Ottobre 1996
Salvatore Frazzetto 46 anni, gioielliere
Giacomo Frazzetto 23 anni

Due giorni dopo, Niscemi è di nuovo sui giornali: la signora Agata Azzolina, titolare di un negozio di gioielli e pellicce, si toglie la vita impiccandosi. Il racket ha ucciso cinque mesi prima il marito Salvatore e il figlio Giacomo Frazzetto, in un raid “mascherato” in un primo momento, come un tentativo di rapina. Era il 16 ottobre del 1996 Maurizio e Salvatore Infuso, due fratelli con qualche precedente penale si presentano a volto scoperto nella gioielleria “Papillon”. Cosi si chiama l’attività della famiglia Frazzetto avviata da qualche anno. Salvatore l’ha costruita con le sue mani dopo aver lavorato 15 anni nell’edilizia.
Li conosce bene Agata, i fratelli Infuso: già in passato hanno preteso di comprare senza pagare .Questa volta vogliono acquistare, “ a credito”, dicono loro, due vere nuziali L’ipotesi è che si tratti di un pizzo “camuffato”, riscosso in beni e non in contanti. Invece del passaggio da una mano all’altra dei soldi, gli emissari della criminalità organizzata si servono direttamente dagli scaffali Quella sera, Agata dice no . La colpiscono con uno schiaffo. Alle sue grida, accorrono il marito ed il figlio . Il ragazzo quando si rende conto della situazione non perde tempo: prende la pistola che il padre custodisce in un cassetto.
Ma Giacomo non ha dimestichezza con le armi e se la fa strappare da uno dei banditi. Segue, una raffica di pallottole, prima contro Salvatore Frazzetto, 46 anni, poi sul ragazzo, Giacomo 23. Muoiono sul colpo. Muoiono davanti agli occhi atterriti di Agata, madre e moglie, testimone di una strage. I due assassini, vengono fermati cinque ore dopo: in una borsa, hanno ancora la pistola.

Lei si salva a stento, ma da quel giorno comincia a spegnersi. Il dolore si trasforma in rabbia e poi arriva anche la paura. Paura per le aggressioni e le minacce che subisce quotidianamente. Un giorno la seguono fino al cimitero. Sta pregando sulla tomba dei suoi cari quando qualcuno si avvicina :“non finisce qui” si sente dire. Agata prova ad andare avanti, lo fa per la figlia, Chiara, 21 anni. Vuole portare avanti l’attività non vuole cedere. Ma le intimidazioni continuano. “Devi pagare…devi pagare…”, si sente ripetere. Denuncia tutto alla polizia. Fa nomi e cognomi .Al commissario parla anche di certi traffici di oro, di uomini che si muovono nell’ombra Vuole giustizia e la vuole subito. Vuole provare a far vivere a sua figlia una vita normale. Vuole andare avanti, lo deve a Chiara, ma è sconvolta è terrorizzata. La sera di San Silvestro viene addirittura picchiata da un paio di ragazzi che entrano ancora una volta nella sua gioielleria.

Qualche giorno dopo – a gennaio – le giurano che avrebbe ricevuto un’altra “visita”. Arriva anche una lettera anonima. Minacciano di uccidere anche la figlia. Non ce la fa più Agata vittima del suo dolore la notte del 22 marzo 1997 si impicca con una corda di nylon nella sua cucina. Lascia un biglietto alla figlia: “perdonami “ le scrive .
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16 Ottobre 1945, strage a contrada Apa Niscemi
Michele de Miceli appuntato
Mario Paoletticarabiniere
Rosario Paganocarabiniere

In un agguato teso […] da una banda capeggiata all’epoca da Rosario Avila detto “Canaluni” vennero uccisi in contrada Apa a Niscemi l’appuntato Michele de Miceli ed i carabinieri Mario Paoletti e Rosario Pagano, mentre altri quattro carabinieri Santo Garufi, Rosario Gialverde, Giuseppe Gallo e Nicola Magro scamparono all’agguato dei banditi. Il gruppo stava effettuando un servizio di perlustrazione e faceva parte del nucleo per la sicurezza del territorio che era stato istituito per contrastare il fenomeno del banditismo.
Ad avere teso l’agguato ai carabinieri fu un gruppo armato di otto banditi che aveva trovato ospitalità, sicuramente coatta, in una masseria di contrada Apa.
Accadde che i sette carabinieri, quando si avvicinarono alla masseria che “ospitava” gli otto banditi, sentirono abbaiare dei cani e, per scrupolo professionale,. entrarono e controllarono i documenti dei contadini presenti.
Un tempo che permise ai banditi, armati di armi automatiche e di bombe a mano, di dileguarsi silenziosamente e di posizionarsi, nascosti da rovi e fichidindia, sul ciglio di una mulattiera da dove, da lì a poco, avrebbe transitato il gruppo dei carabinieri.
Infatti, poco dopo, cominciò una sparatoria nel corso della quale i tre carabinieri rimasero uccisi.
I banditi riuscirono a fuggire.
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lunedì 15 ottobre 2012

15 Ottobre 1920
Giovanni Orcel 32 anni, sindacalista

Giovanni Orcel nacque a Palermo il 25 dicembre 1887 da Luigi, impiegato, e da Concetta Marsicano, casalinga. Il cognome Orcel avrebbe origine francese o catalana. Dai registri anagrafici risultano altri cinque fratelli, nati dopo Giovanni, ma forse il maggiore dei fratelli era Ernesto, che fonti di polizia indicano come promotore del Fascio dei lavoratori di Cefalù.
Il giovane Giovanni, date le modeste condizioni della famiglia, dopo la licenza elementare non potè frequentare le scuole superiori e imparò il mestiere di tipografo compositore.
Giovanissimo comincia a frequentare la Camera del lavoro di via Montevergini, inaugurata il 1° settembre 1901, dove la linea dominante era quella riformistica e moderata, e ben presto si dedica all'attività sindacale e politica.
A Palermo dal 1896 c'era un circolo del Partito socialista, d'ispirazione riformista, guidato da Alessandro Tasca e Aurelio Drago. Successivamente si era costituita la Federazione socialista palermitana guidata dal dirigente dei Fasci Rosario Garibaldi Bosco, che dapprima si riconosceva nella corrente rivoluzionaria ma poi passerà su posizioni moderate. Orcel organizza la Lega dei Lavoratori del libro e aderisce al gruppo formatosi attorno ai giornali "La Fiaccola" e "Il germe", di ispirazione rivoluzionaria e antimilitarista. I socialisti che si opponevano al riformismo erano denominati "intransigenti", e tra essi c'erano Nicola Barbato e Nicolò Alongi.
Nel settembre 1910 sposa civilmente Rosaria Accomando, che dopo l'assassinio del marito indicherà i probabili responsabili del delitto.
Lo scontro tra i socialisti riformisti e rivoluzionari era destinato ad aggravarsi e Orcel è uno dei protagonisti delle polemiche che in occasione delle elezioni contrappongono i candidati del "socialismo ufficiale" a quelli dei seguaci di Tasca.
Prima della guerra dirige il settimanale "La riscossa socialista", su posizioni pacifiste, è impegnato nel tentativo di affermare una linea classista nella Camera del lavoro, di cui faceva parte la Lega dei tipografi, nonostante le posizioni moderate della CGdL (Confederazione generale del lavoro), a cui la Cdl palermitana aderiva. Nel 1914 parte per partecipare come rappresentante dei tipografi a un convegno socialista che si svolge a Lipsia, ma non riesce ad arrivarvi a causa dello scoppio della guerra e si ferma a Torino, dove prende contatti con esponenti sindacali e politici. Nel 1917 viene chiamato alle armi e inviato prima a Taranto e poi a Roma.
Nel marzo del 1919 viene eletto all'unanimità nella segreteria della Fiom, il sindacato che raccoglieva gli operai metallurgici e affini, prima come vicesegretario e poi come segretario generale.
La Fiom durante la guerra era diventata l'avanguardia del movimento sindacale palermitano, per la resistenza contro il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, e contava 2000 iscritti, una cifra altissima se si tiene conto dei livelli di sindacalizzazione di allora.
Nel dopoguerra la Fiom, con la guida di Orcel, è impegnata nella lotta contro il carovita, per gli aumenti salariali, agganciati al costo della vita, per le otto ore, per il riconoscimento del ruolo del sindacato in fabbrica con la costituzione delle commissioni interne.
Nel 1919, con la nuova legge elettorale, proporzionale con collegio provinciale, Orcel, che ha sempre coniugato attività sindacale e impegno politico, è particolarmente attivo nella battaglia interna al mondo socialista, che, sull'onda della rivoluzione russa, si sposta in gran parte su posizioni massimaliste, anche se a Palermo l'influenza di Tasca e Drago è sempre fortissima. Nelle liste elettorali dei "socialisti ufficiali" c'era una massiccia presenza di operai e contadini, accanto a Nicola Barbato. I risultati elettorali furono deludenti (nessuno dei candidati fu eletto) e la controffensiva degli agrari e dei mafiosi fece ricorso alla violenza. Nel 1919 furono uccisi Giovanni Zangara, dirigente contadino e assessore della giunta socialista a Corleone (31 gennaio), Giuseppe Rumore, segretario della Lega contadina di Prizzi (22 settembre), mentre a Riesi l'8 ottobre le forze dell'ordine, per ordine del commissario Messana, spararono sui contadini in lotta per la riforma agraria, uccidendone 11.
Il 1° marzo 1920 viene ucciso a Prizzi Nicolò Alongi, dirigente del movimento contadino. Il 7 luglio a Randazzo le forze dell'ordine sparano ancora sui contadini: 9 morti e vari feriti. Accanto alle forze dell'ordine operano gruppi nazionalfascisti e l'8 luglio a Catania ci sono 6 morti tra i partecipanti a un comizio dei dirigenti socialisti Maria Giudice e Giuseppe Sapienza. A settembre nella frazione Raffo di Petralia Soprana sono uccisi i contadini Paolo Li Puma e Croce Di Gangi, consiglieri comunali socialisti. Il 3 ottobre a Noto è ucciso il sindacalista socialista Paolo Mirmina.
Nel 1919 esce un foglio della Fiom, diretto da Orcel, intitolato prima "La dittatura operaia", poi "La dittatura del proletariato" e infine "Dittatura proletaria". Le posizioni sono nettamente protocomuniste, facendo esplicito riferimento all'esperienza sovietica.

Nel 1920 il conflitto tra operai e industriali si acuisce. A maggio nel congresso nazionale di Genova la Fiom definisce la sua piattaforma ma ci sono diversità di vedute con gli altri sindacati anche se nel confronto con il padronato c'è una certa unità sui punti di fondo: miglioramenti salariali, collegamento del salario reale con il carovita, periodo di ferie retribuito, sistema di retribuzione unico per tutto il paese (in Sicilia i salari erano molto più bassi che nel Nord), messa in discussione del cottimo, abolizione del lavoro straordinario.
I sindacati ricorsero all'ostruzionismo, cioè al rallentamento delle attività produttive. In Sicilia si sperimentano, grazie alla collaborazione tra Alongi e Orcel, le prime forme di unità tra lotte contadine e lotte operaie. Nel febbraio del '19 al Congresso regionale dei contadini si erano gettate le basi per un'azione comune e nei congressi regionali socialisti Orcel ribadì la necessità di un fronte comune.
Nell'estate del 1920 una raffica di licenziamenti e sospensioni (300 "ribaditori" al Cantiere navale, 200 operai della ferriera Ercta), in particolare degli aderenti alla Fiom, rende ancora più duro lo scontro tra padronato e lavoratori.
Nei primi giorni di settembre gli operai occupano il Cantiere navale, presidiato dalle forze dell'ordine, e avviano l'autogestione. Gli operai continuano la produzione per fare fronte alle commesse e a una delle navi in allestimento si dà il nome di Nicolò Alongi. Si costituisce la Commissione interna e si organizza un servizio d'ordine ("le guardie rosse"). La prospettiva rivoluzionaria si coniuga con la concretezza dell'azione e questa è stata per tutto il corso della sua attività una costante dell'operato di Orcel.
All'occupazione del Cantiere segue quella della ferriera Ercta, dove si replica l'esperienza di autogestione operaia. In fabbrica entrano i familiari degli operai per portare gli alimenti e ci sono anche momenti di relax al suono di strumenti musicali. Si organizza una cooperativa di consumo per le famiglie degli operai. L'impegno di Orcel è eccezionale, cerca di opporsi all'accordo nazionale della Fiom con cui si mette fine alle occupazioni, ma il 29 settembre anche gli operai palermitani lasciano il Cantiere. Come Orcel aveva previsto, i padroni non rispettano gli accordi e si batte per la loro applicazione ma viene isolato all'interno del sindacato: i riformisti lo accusano di avere portato gli operai allo sbaraglio, mentre sono stati proprio loro ad avere tentato con tutti i mezzi di fiaccarne la resistenza. Orcel comunque non demorde e propone la sua candidatura alle prossime elezioni provinciali. Ma il 14 ottobre lo attendeva il pugnale del sicario. Muore nella notte tra il 14 e il 15, anche per la mancata assistenza all'Ospedale San Saverio dove viene ricoverato: i primari non si trovano e l'infermiere che era andato a cercare uno di essi sostiene di essere stato aggredito.
Gli assassini di Orcel sono rimasti ignoti. L'inchiesta calca varie piste, compresa quella interna e quella passionale, e nonostante le denunce della moglie e dei compagni di militanza che indicano come responsabili dell'assassinio di Orcel gli stessi che hanno ucciso Alongi, non percorre adeguatamente la pista politico-mafiosa. Il mandante del delitto sarebbe stato Sisì Gristina, capomafia di Prizzi, che verrà ucciso successivamente. L'esecutore, a quanto pare ignaro della personalità della vittima, avrebbe rivelato il nome del mandante a un fratello militante comunista e sarebbe stato eliminato dalla mafia.
Che la linea Alongi-Orcel dell'unità contadini-operai preoccupasse la mafia risulta da una lettera anonima indirizzata nel novembre del 1920 a un sindacalista trapanese, Pietro Grammatico, in cui si dice: "farete la fine di Orcel".
Su Orcel successivamente, a parte qualche articolo e qualche sporadica commemorazione, cadrà l'oblio. Il suo nome non figura nei testi più diffusi di storia della Sicilia contemporanea. A Orcel è stata intitolata una storica sezione del Partito comunista che ha aderito a Rifondazione comunista.
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domenica 14 ottobre 2012

14 Ottobre 1992
Pasquale Di Lorenzo 45 anni, sovrintendente di Polizia Penitenziaria

Pasquale Di Lorenzo, 45 anni, è stato un sovrintendente di Polizia Penitenziaria, prestava servizio nel carcere di Agrigento e, in assenza del comandante, svolgeva le funzioni di reggente.
Di Lorenzo era conosciuto come “persona dotata di forte carattere, non incline a compromessi e considerato dai detenuti un duro”, consapevole della delicatezza che il suo ruolo richiedeva in un istituto penitenziario con una forte presenza di detenuti per reati di mafia. Nel 1992 si era in piena guerra di mafia, il Paese era sconvolto per le stragi di Falcone e Borsellino, la risposta dello Stato alle carneficine mafiose era stata ferma e decisa. Di lì a poco, l’introduzione del “41 bis” darà via al cosiddetto “carcere duro”. Il 13 ottobre Pasquale Di Lorenzo si trovava in campagna, in contrada Durruelli di Porto Empedocle, dove possedeva un appezzamento di terra che utilizzava per l’addestramento di cani da difesa, una passione cui Di Lorenzo si dedicava nelle ore libere dal lavoro. In campagna era andato alle 10 e vi era rimasto per l’intera giornata. Calata la sera, Di Lorenzo non aveva ancora fatto ritorno a casa, ma la signora Angela non era preoccupata perché sapeva che, come era solito fare, Pasquale si sarebbe trattenuto fino a tardi. Quella sera, però, il ritardo si era protratto oltre il consueto e la signora Angela trascorse la notte insonne, attenta a ogni rumore di macchina che potesse farle sperare che l’uomo stesse per rientrare a casa. Alle prime luci dell’alba ebbe un brutto presentimento e chiamò il vicino di casa, in campagna, pregandolo di verificare se il marito fosse ancora sul posto. Il vicino uscì e scorse la macchina di Di Lorenzo fuori del cancello che immette nella proprietà, si avvicinò e vide il corpo dell’uomo disteso supino sul terreno, la macchina con il finestrino aperto, sul sedile posteriore c’era il pastore tedesco che, però, sembrava tranquillo. L’uomo rientrò in casa e telefonò alla signora Di Lorenzo, poi chiamò la polizia. Pasquale Di Lorenzo era morto, era stato ucciso con quattro colpi d’arma da fuoco.
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14 Ottobre 1905
Luciano Nicoletti 54 anni, bracciante

A Corleone viene ucciso Luciano Nicoletti, bracciante, impegnato nelle lotte dei Fasci siciliani e per le affittanze collettive. La sera del 14 ottobre 1905, due killer si appostarono nei pressi della chiesa di san Marco, aspettando Luciano Nicoletti. Il coraggioso contadino non tardò a passare. Tornava a piedi dai campi. Lo chiamarono per nome. Fece appena in tempo a girarsi, che due colpi di lupara lo colpirono al petto, uccidendolo.
Aveva 54 anni. Lasciò la moglie, Caterina Guagliardo, e cinque figli.


È stato tra i protagonisti dei Fasci siciliani e delle rivolte dei contadini in Sicilia.
Da giovane si trasferì a Corleone, dove si sposò ed ebbe cinque figli. Nel 1893 fu tra i più attivi contadini socialisti che chiedevano l'applicazione dei Patti di Corleone, aderendo ai Fasci siciliani e lottando attraverso gli scioperi. Non potendo lavorare, i contadini rischiavano di morire, così fu tra i promotori di una "cassa di resistenza" per mantenere le famiglie degli scioperanti, che per breve tempo riuscì ad aiutarli.
Dopo aver ottenuto alcune importanti vittorie, tentò di ottenere le cosiddette "affittanze collettive", per poter assicurare un fazzoletto di terra ad ogni lavoratore. Le sue lotte non furono accettate dalla mafia, che il 14 ottobre 1905 lo fece uccidere con due colpi di lupara in contrada San Marco.
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lunedì 8 ottobre 2012

8 Ottobre 1998
Domenico Geraci 44 anni, sindacalista

Tanti i segnali e gli avvertimenti che Domenico Geraci, 44 anni, ex consigliere provinciale del partito popolare, aveva ricevuto da parte dei clan di Caccamo, la roccaforte di Bernardo Provenzano a causa del suo impegno politico. Lo hanno ucciso a fucilate davanti casa nella centrale piazza Zafferana la sera del 20 ottobre del 1998, davanti al figlio che gli aveva aperto la porta. Pochi secondi e sono fuggiti via in mezzo a decine di testimoni. Era il candidato sindaco del suo paese e non aveva esitato a fare nomi e cognomi nel denunciare gli interessi non legali del piano regolatore e aveva iniziato a controllare gli appalti delle opere pubbliche. Aveva deciso di riscattare il suo paese, definito da Falcone “la Svizzera dei clan”, lo hanno voluto fermare e lo hanno ucciso.



Il suo omicidio resta ancora avvolto nel mistero e senza responsabili, anche se il capomafia di Caccamo, Nino Giuffrè, collaboratore di giustizia, ha dichiarato ai magistrati che la condanna a morte sarebbe stata decisa perché Geraci aveva girato le spalle alla vecchia Dc, avvicinandosi al centrosinistra, in particolare al deputato diessino Beppe Lumia.
Il pentito ha rivelato nell’ottobre 2002 particolari sul delitto, e i magistrati riaprirono le indagini iscrivendo nel registro degli indagati i nomi di Bernardo Provenzano e Benedetto Spera. Ad assassinare Geraci, secondo il pentito Giuffrè, sarebbe stato un sicario a volto scoperto della famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno, zona controllata dal boss Spera. L’agguato, sempre secondo il collaboratore di giustizia, venne effettuato senza il suo consenso, e pure vicino all’abitazione in cui viveva la sua famiglia. Una sorta di “segnale” che Provenzano e Spera avrebbero voluto inviare al capomafia che si era opposto per due volte all’omicidio. Ma le dichiarazioni di Giuffrè non sono state sufficienti per portare a giudizio le persone sospettate dell’omicidio, così il caso e’ stato archiviato.
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Adesso quella stretta di mano nella piazza del paese è un ricordo che fa male. Quattro telefonate da Milano ("Aveva una voce gentile, non formale"), e la mattina del 16 luglio di quest'anno Enrico Deaglio, giornalista, direttore del Diario, era arrivato puntuale a Caccamo per un'inchiesta, per conoscere quella che Giovanni Falcone chiamava "la Svizzera della mafia". A fargli da guida "un uomo pacioso, affabile": Domenico Geraci, sindacalista della Uil, futuro candidato sindaco di Caccamo. Massacrato giovedì notte con un fucile a pompa davanti alla porta di casa, mentre il figlio dalla finestra vedeva, e urlava. Era cominciata proprio dall'ingresso di quel palazzo, la giornata di Deaglio con Geraci: "Aspetti, le faccio un regalo" - mi aveva detto -. Ed era salito in casa: cinque minuti dopo ne era sceso con un libro sulla storia di Caccamo". Non era un giorno qualunque, quel 16 luglio: la Camera doveva votare sulla richiesta d'arresto di Gaspare Giudice, deputato di Forza Italia eletto a Bagheria, accusato di associazione mafiosa e riciclaggio, la cui storia, anche giudiziaria, è strettamente legata a Caccamo. "Eravamo in macchina, fuori dal Comune - dice Deaglio - e Radio Radicale raccontava di come la Camera avesse respinto a stragrande maggioranza la richiesta d'arresto. Geraci era scandalizzato: non tanto dalla decisione, quanto dalla reazione degli assessori che stavano intorno a noi: "Ho saputo, sono cose che fanno piacere", diceva uno. Un altro invece esultava: "Così la finiranno di tirare in ballo questo paese per questioni di mafia". "Mico" Geraci guardava. E imprecava: "Non capiscono niente, non vogliono capire", diceva". Agli assessori che dopo le sue insistenze accettavano il colloquio con il giornalista venuto da Milano "a patto che non si parli male del nostro paese", Geraci replicava a muso duro: "La gente si deve occupare di Caccamo - diceva - perché la nostra è una storia di oppressione mafiosa, ed è stupido negarlo". Lui, il sindacalista della Uil, aveva capito tutto. "Tranne un dettaglio". A Enrico Deaglio rimbomba nelle orecchie una frase: "Una delle prime che mi disse quella mattina: "Questo è un posto dove la mafia non ha mai ammazzato nessuno, e mai lo farà. Usano altri metodi, per le persone sgradite: le fanno trasferire da qualche altra parte, le "sistemano" altrove. Perché questa è una zona extraterritoriale, nella quale non vogliono che succeda niente. Qui non potranno mai uccidere nessuno". Un posto dove, raccontava Geraci, "Non c'è mai stato un segno visibile che ci fosse la mafia. É questa la stranezza di Caccamo: non c'è un manifesto sui muri, non c'è mai stata una manifestazione, niente di niente". Da quella calda giornata di luglio, fatta di lunghe chiacchierate, di un pranzo nel ristorante della piazza centrale, dell'incontro con assessori e notabili ("Era in buoni rapporti con tutti, o almeno pensava di esserlo"), di un giro in macchina fino a Bagheria, Deaglio pesca un altro ricordo: una sosta davanti a una chiesa. "Mi aveva indicato una pianticella: "La vedi? Quello è il nostro albero - Falcone. L'hanno messo lì a maggio di quest'anno, nell'anniversario di Capaci. A Caccamo è stata la prima manifestazione antimafia, un pugno di persone, per ricordare Falcone. A sei anni da quel giorno". Parlava con rabbia, ma con speranza: "Mi disse che si voleva candidare a sindaco, e quale sarebbe stato il suo programma. Gli bastarono due frasi: "Sono fermamente intenzionato a mettere mano al piano regolatore perché il marcio nasce da lì. E poi coinvolgere la gioventù, il volontariato, i cattolici impegnati. É l'unico modo per spezzare questo circolo di potere che è completamente in mano loro". Un sospiro, poi Deaglio riprende a parlare: "Era un buon programma, non gli hanno lasciato il tempo di metterlo in pratica. Non potevano permetterlo: questo è il paese dei Giuffrè, uomini di Bernardo Provenzano. Gente di potere, che si sente padrona del territorio, potente al punto da arrivare a questo omicidio. Un segnale tremendo". Geraci questo però non l'aveva capito: "Credo sottovalutasse il pericolo. Non se ne rendeva conto. Abbiamo passato la giornata insieme, e mai una volta che mi abbia detto "Dobbiamo stare attenti". Non faceva assolutamente la parte dell'eroe, anzi: "Vieni, ti porto a prendere un caffè in piazza", mi diceva, e ci teneva a presentarmi in giro. Sentiva come suo quel paese, diceva di esserne "un elemento del paesaggio". Era felice della sua vita, del suo mestiere di sindacalista sempre in macchina tra Caccamo e Palermo, a occuparsi di questioni di contributi, di pratiche burocratiche dei suoi compaesani". Deaglio accende l'ennesima sigaretta: "Hanno ammazzato un buon cattolico, uno impegnato, una bella intelligenza siciliana, che sapeva tutto, un entusiasta. Ecco, Domenico "Mico" Geraci era questo tipo di persona". Uno che del suo paese aveva capito tutto - e per questo faceva paura - tranne un dettaglio.
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8 Ottobre 1983
Salvatore Zangara 52 anni, titolare di un laboratorio di analisi

I fori dei proiettili sul muro di piazza Vittorio Emanuele Orlando rimasero visibili per anni. Solo nel 1995, dodici anni dopo quel sabato 8 ottobre 1983, l’amministrazione comunale di Cinisi pose una targa in memoria di Salvatore Zangara, vittima innocente di mafia, ucciso nel corso di un agguato teso al capomafia del paese Procopio Di Maggio. Erano gli anni della seconda guerra di mafia. Il conflitto tra Badalamenti e i suoi alleati e i corleonesi lascerà sul terreno decine di vittime. Gli omicidi a Cinisi non si conteranno più.
Don Procopio Di Maggio, vecchio boss di Cinisi, oggi ancora in vita, era già scampato ad un attentato due anni prima. Una Giulietta fiondò al suo distributore di benzina sparando all’impazzata. Il boss, ferito e sanguinante, reagì e si salvò la vita.
L’attentato si inseriva nella faida tra i Badalamenti (nonostante il capostipite don Tano avesse fatto perdere le sue tracce fino al giorno del suo arresto avvenuto nel 1984) e i Di Maggio, da sempre ostili. Dopo un periodo di pace le ostilità ripresero a seguito della morte di un figlio di don Procopio in uno “strano” incidente stradale. Per Di Maggio i responsabili della morte del figlio furono invece i Badalamenti.Image
Negli anni ’80 Cinisi vedrà le sue strade riempirsi di una impressionante scia di sangue. In paese a regnare era il terrore. Assistere ad un omicidio, esserne testimoni, ad esempio, equivaleva ad una condanna a morte. La “mafiopoli” descritta da Impastato viveva la fase più tragica: quella dei morti ammazzati.
A cadere in quella guerra di mafia, finita con il predominio dei corleonesi, saranno uomini d’onore, loro parenti, semplici affiliati. Nel conto anche un innocente cittadino, padre di famiglia, stimato professionista e impegnato in politica.
Era la sera del 8 ottobre 1983. Questa volta i sicari scelsero la centralissima piazza del paese dove il capomafia era solito passeggiare. Il bersaglio dei killer era sempre lui. A bordo di un Renault 5 spararono all’indirizzo del boss che in quel momento si trovava in compagnia del figlio Giuseppe. Ma ancora una volta don Procopio riuscì a salvarsi la pelle, facendosi scudo di alcuni passanti. Il boss mafioso la fece franca e a rimanere sul selciato fu Salvatore Zangara, 52 anni, sposato e padre di tre figli, titolare di un laboratorio di analisi, segretario locale del P.S.I. Per caso si trovava a passare nel luogo dell’agguato. La raffica di proiettili destinati al capomafia di Cinisi raggiunsero lui e altre due persone che rimasero gravemente ferite.
L’omicidio di Salvatore Zangara è rimasto impunito. Non sono mai stati individuati mandanti ed esecutori dell’attentato.
Nel 1987 Salvatore Zangara fu riconosciuto vittima innocente della mafia. Una Cinisi diversa da quella che fino a 11 anni fa abbassò le saracinesche in segno di lutto al passaggio del feretro di Peppone Di Maggio, il rampollo del boss, ucciso e gettato in pasto ai pesci, oggi lo ricorda.
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mercoledì 3 ottobre 2012

3 Ottobre 1920
Paolo Mirmina sindacalista

Paolo Mirmina fu un sindacalista molto attivo nelle lotte per le terre siciliane. Si scontrò sempre con i poteri forti della mafia siciliana, che mal tolleravano il suo impegno a favore dei lavoratori e dei contadini locali. Il 3 ottobre 1920 venne assassinato dai sicari di Cosa Nostra a Noto, in provincia di Siracusa.