domenica 30 settembre 2012

30 Settembre 1920
Paolo Li Puma consigliere comunale e contadino
Croce Di Gangi consigliere comunale e contadino

Nella frazione di Palermo denominata Raffo di Petralia Soprana, vengono uccisi Paolo Li Puma e Croce Di Gangi, consiglieri comunali socialisti.

venerdì 28 settembre 2012

28 Settembre 1970
Paolo Ficalora 59 anni, capitano di lungo corso e poi imprenditore

Paolo Ficalora (1933 – Castellammare del Golfo, 28 settembre 1992) è stato un imprenditore italiano, ucciso per mano della mafia.
Ficalora, capitano di lungo corso e poi gestore di un residence, fu ucciso dalla mafia nel 1992. Per lungo tempo la morte del capitano Ficalora è rimasta senza colpevoli e movente, lasciando spazio a supposizioni e illazioni. A raccontare i veri motivi del suo assassinio è stato, nel corso del processo, l’ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia. Ficalora fu ucciso per avere ospitato nel residence che gestiva il superpentito di Cosa Nostra Totuccio Contorno, nel periodo in cui era tornato in Sicilia. Del suo ospite ignorava l’identità che scoprì solo successivamente. Ficalora venne assassinato, con diversi colpi di arma da fuoco, proprio davanti a quel residence in cui aveva dato ospitalità al pentito, dal mafioso Gioacchino Calabrò.


Avete mai visto la lama della falce della Morte sfiorarvi e tagliare la vita della persona che più amate?
Io sì, io l’ho vista.
Vita D’Angelo Ficalora


1. Un morto di “serie B”
La serata è afosa, sebbene sia quasi mezzanotte e la piacevole brezza che spira dal mare attenui la calura estiva. La Peugeot 205 procede stancamente seguendo la luce dei fari mentre illuminano il viottolo che porta al Villaggio del Capitano, un complesso turistico in contrada Ciauli, nel comune di Castellammare del Golfo, alle porte della riserva naturale dello Zingaro. Alla guida dell’auto c’è il capitano della marina mercantile Paolo Ficalora, accanto a lui la moglie, Vita D’Angelo. Tornano da un’insolita cena, frutto d’un invito inatteso, a casa del loro commercialista.
«Ecco, siamo di nuovo al ranch, sei contenta?», chiede l’uomo fermando l’auto davanti all’ingresso del villaggio. Lei lo guarda, gli sorride, poi apre lo sportello e scende per aprire il cancello. E scoppia l’inferno: uno due tre spari… Infine, il colpo di grazia. Poi la notte inghiotte i sicari. Mentre la donna si dispera. È lunedì 28 settembre 1992.
«Voglio solo che mio marito sia riconosciuto vittima innocente della mafia. Non mi interessano i risarcimenti economici, ma pretendo che lo Stato certifichi la sua completa estraneità alla mafia». Le ci sono voluti più di dieci anni, ma alla fine c’è riuscita, la signora D’Angelo Ficalora, a restituire l’onore al marito assassinato. Almeno l’onore. La vita se la sono presa due killer di Cosa nostra, quella notte di fine settembre.
«Morto nella guerra tra clan rivali», scrivono i giornali del giorno dopo. «Morto nella guerra tra clan rivali», annunciano i Tg delle tv locali. «Morto nella guerra tra clan rivali», s’intestardiscono gli investigatori.
Prima ti ammazzano, poi ti diffamano. Una tecnica più che collaudata.
«Tutto perché è stato ucciso con la stessa pistola che qualche tempo prima aveva ammazzato un mafioso ad Alcamo», ricorda la signora. E aggiunge, volutamente provocatoria: «Perché nessuno hai mai detto che il generale dalla Chiesa era mafioso? Non lo hanno forse assassinato con lo stesso kalashnikov col quale avevano ammazzato il boss Alfio Ferlito?!». Già, perché? Forse perché ci sono morti di seria A e morti di serie B. E il capitano Ficalora rientrerebbe in questa seconda categoria.

2. Una tranquilla famigliola
Quattro anni prima, proprio sul finire del 1988, un conoscente aveva chiesto ai Ficalora se fossero disposti ad affittare una villetta del ranch a una famiglia di suoi amici – marito, moglie e due bambini – che aveva l’esigenza di venire ad abitare in zona: stavano finendo di costruire la casa dove sarebbero andati ad abitare, su un terreno di loro proprietà, nei pressi di Calatafimi, a una ventina di chilometri di distanza.
Il capitano quelle dieci villette le ha costruite in altrettanti anni, proprio per affittarle e, dunque, è felice di avere degli inquilini anche in inverno. Sebbene la cosa sia insolita, quella coppia sembra gradevole, e i due bambini – un ragazzino e una ragazzina – li rendono anche rassicuranti: lui, Agostino D’Agati, 33 anni, è un imprenditore agricolo di Villabate, nel Palermitano; lei, Gioacchina Mancarella, 29 anni, è figlia di un costruttore edile, Pietro, la cui impresa sta edificando la casa in cui dovrebbero trasferirsi. Così gli dicono. La famiglia D’Agati pur abitando a un centinaio di chilometri di distanza, vuole seguire personalmente i lavori e restare unità, perciò intende abitare vicino.
Come di consueto, i Ficalora segnalano al commissariato di polizia di Castellammare la presenza della famiglia D’Agati in una delle villette di loro proprietà; gli agenti annotano la locazione nell’apposito registro.
I Ficalora durante l’inverno abitano a Palermo, dove la signora D’Angelo è direttrice didattica in una scuola elementare; però la domenica, specie se il tempo è bello, vanno volentieri al ranch. Vuoi perché hanno subìto vari danneggiamenti, vuoi perché c’è quella famigliola. Tre o quattro volte, tra gennaio e marzo dell’89, trovano un paio di persone che i D’Agati gli presentarono come «parenti», tali Gaetano e Salvatore. Gaetano, tra l’altro, è fissato con la caccia e il capitano, condividendone la passione, si ritrova a chiacchierare amabilmente con lui.
A metà maggio i D’Agati “completano la casa”, dicono, e lasciano il ranch.
Non li rivedranno più.
Non di persona, almeno.

3. Il Trapanese è un “buco nero”
Castellammare del Golfo è in provincia di Trapani, terra di mafia, di massoneria, di logge coperte, di servizi segreti. A due passi da Castellammare, nell’85, è stata scoperta la più grande raffineria d’eroina mai individuata in Europa; poco più in là operava la cellula siciliana della Gladio; da quelle parti c’è la pista d’atterraggio servita per i più loschi traffici internazionali. La stessa pista che compare nell’inchiesta sull’omicidio di Mauro Rostagno, la cui scoperta potrebbe essergli costata la vita. Trapani è la provincia dei misteri, della loggia segreta Iside 2, inaugurata da Licio Gelli. Trapani è un “buco nero” sul quale le indagini sono sempre rimaste in superficie; è la patria di un pezzo di Cosa Nostra ancora più potente di quella palermitana, «un luogo dove la mafia ha in tutti i sensi un controllo capillare del territorio», sosteneva il giudice Giovanni Falcone.
«Da Castellammare partono più telefonate per gli Stati Uniti che per il resto d’Italia», mi confidò anni fa un investigatore che aveva fatto parte della Mobile della questura di Palermo al tempo di Beppe Montana e Ninni Cassarà. E per essere certo che avessi colto la vera essenza di quel particolare – le telefonate – mi ricordò i consolidati, secolari legami tra le famiglie mafiose del luogo e quelle degli States.
Nel 2003 il pentito Nino Giuffrè ha messo a verbale una storia che ha dell’incredibile. I picciotti di New York, negli anni Ottanta, erano diventati delle vere pappamolle, indegni della tradizione di Cosa Nostra. I vecchi boss newyorchesi decisero allora che, affinché diventassero veri uomini d’onore, c’era bisogno di mandarli a scuola di mafia. Dove? A Castellammare del Golfo. Roba da film. I magistrati palermitani che hanno interrogato il pentito forse hanno pensato la stessa cosa: roba da film. Ma con lo scrupolo che li contraddistingue, decidono di verificare. E dagli Usa arriva la conferma. Fonte: Fbi.

4. I “consigli” del capitano dell’Arma
Dopo una trentina d’anni trascorsi a bordo di navi di ogni stazza, dopo avere solcato buona parte dei mari del pianeta, il capitano Paolo Ficalora, a 52 anni, nel 1987, decide che è giunto il momento di restare coi piedi all’asciutto. Smette di navigare, vende i due appartamenti che aveva acquistato a Messina e si dedica al ranch. È un uomo tutto d’un pezzo, il capitano, uno che non sopporta le prepotenze, uno dei tanti senza padroni e senza padrini. Un cane sciolto. Ha faticato tutta la vita, ha tirato su le villette mattone dopo mattone: i terreni – trentacinquemila metri quadri a due passi dal mare – li aveva ereditati la signora D’Angelo, i soldi li hanno raggranellati piano piano, anno dopo anno, un imbarco dopo l’altro, uno stipendio dopo l’altro, un prestito dopo l’altro. Anche con l’aiuto dei due figli.
Ficalora, da anni, riceve pressioni affinché venda il suo ranch; ha subìto incendi, danneggiamenti, furti, ma non ha ceduto. Gli hanno persino ucciso il fedele pastore tedesco. Ha resistito.
Quell’area fa gola a tanti. È in una zona incantevole dal punto di vista paesaggistico: alle spalle la riserva dello Zingaro, di fronte il mare Tirreno. A Castellammare il piano regolatore generale è di là da venire e con una piccola variante quei terreni possono diventare un’autentica miniera, se intendi edificare. Altro che le dieci villette monofamiliari immerse tra i pini e gli ulivi. È ciò che pensa, probabilmente, chi vuole mettere le mani su quell’area.
«Negli ultimi tempi mio marito era preoccupato; lui che era sempre allegro, dalla battuta facile, sarcastico, pungente, reagì con stizza quella volta che gli chiesi cosa lo angustiava. Tu non sai le preoccupazioni che ho, mi disse. E poi silenzio. Io pensai che fosse preoccupato per le spese che avevamo affrontato, perché avevamo chiesto dei prestiti ai nostri figli per completare le ultime tre villette. Non potevo immaginare… Così come non capii quando mi chiese: Se dovessi morire, tu che faresti? Io lo guardai incredula e gli rigirai la domanda: e tu cosa faresti, se morissi io? Io resterei, fu la sua risposta». Mastica amaro la vedova Ficalora. Ma non smette di raccontare.
Racconta di quell’ufficiale dei carabinieri che un giorno va a trovarla e le dice che se suo marito non è ancora stato riconosciuto vittima innocente della mafia era perché «loro sono dappertutto». Loro chi? «Ma non ho avuto la prontezza di spirito per chiederglielo», ammette la signora. «Insieme a me c’erano mia figlia e suo marito. Viene a trovarmi questo capitano dei carabinieri per spiegarmi che io devo dare il giusto peso alle cose, devo scegliere: o le cose o la vita. Io gli ho risposto che le cose non mi interessano, ma che qui c’è il sangue di mio marito e io ho il dovere di restarci. E lui: Sì, lei dice così, però quando toccheranno i suoi figli lei si calerà anche le mutande. Questo, un capitano dei carabinieri, mi viene a dire. Io sono andata a fare la mia bella denuncia al magistrato. Ma il capitano è rimasto al suo posto».
Sono trascorsi dieci anni dalla prima volta che ci ho parlato, con la signora D’Angelo. Era presente anche la figlia, 32 anni, funzionaria in un ente pubblico. Sono andato a rileggermi gli articoli che ho scritto. Nel primo – gennaio 1995 – annoto: «Parlano anche di quello strano inquilino, uno che i magistrati conoscono bene, che ha abitato in una delle loro villette, durante i primi mesi del 1989. Non sapevano chi fosse, lo hanno scoperto dopo, vedendolo sui giornali, spiegano madre e figlia. Non dicono di più. I magistrati non vogliono». Ci ho messo cinque mesi a capire chi fosse quell’uno che i magistrati conoscono bene.

5. Buscetta: «Gli chiesero di tornare»
La sera del 26 maggio del 1989 tutti i telegiornali aprono con la crisi di governo; a seguire, una clamorosa notizia: «Arrestato il pentito Contorno». E i giornali dell’indomani non sono da meno. Quelli siciliani, puntano direttamente sul «Pentito con licenza di uccidere».
Ai magistrati che lo interrogano dopo l’arresto, Totuccio racconta di essere stato in Sicilia, a Palermo, una prima volta, per una decina di giorni, durante il mese di marzo e una seconda a metà maggio (fino alla cattura). Di fronte alla Commissione antimafia cambia versione e colloca il primo viaggio nel mese di aprile. In entrambi i casi Contorno ha mentito. E probabilmente ha mentito anche su altro. Sul perché del ritorno in Italia. «Gli americani mi hanno tagliato l’assegno e sono dovuto tornare», ha sempre sostenuto lui. Ma c’è chi sostiene il contrario. Don Masino Buscetta, ad esempio, anche lui negli States, anche lui sotto protezione (mai revocata). Tenete presente che, nel 1984, prima di iniziare la sua collaborazione con la giustizia, Contorno chiede e ottiene di incontrare il grande pentito. Solo dopo avere ottenuto la sua benedizione comincia a cantare. È dunque plausibile – per non dire certo – che prima di decidere di tornare in Italia, Contorno abbia voluto consultare Buscetta. Lo pensano anche i giudici di Palermo. E vanno a interrogarlo.
Ecco un breve resoconto processuale, pubblicato dalla Gazzetta del Sud il 29 luglio 1989, a firma del cronista di giudiziaria Folorido Borzicchi: «Nei giorni scorsi, si ricorderà, vi venne letta la dichiarazione di Buscetta, raccolta in Usa dal presidente della corte d’Appello, Palmegiano, con la quale don Masino rivelava che Contorno era stato fatto tornare dagli italiani. Ieri mattina, alle 11, questa dichiarazione viene non più letta ma ascoltata così si sente il pugno sul tavolo di don Masino. Ho detto che fu fatto tornare! e giù il pugno». Buio completo, invece, su chi lo avrebbe fatto tornare. E, soprattutto, sul perché.

6. Le battaglie della vedova
La signora Vita D’Angelo, da quella sera del 28 settembre del 1992, ha un solo obiettivo: restituire l’onore al marito ammazzato da due killer e infamato nel più classico stile mafioso («marito infedele», «infame prezzolato», «corriere di armi per conto di Cosa Nostra»), vedergli riconosciuto che è stato solo una vittima innocente della mafia. Ma come fare? Da dove cominciare, quando le indagini non vanno oltre il «regolamento di conti tra clan rivali»?
Impiegherà mesi e mesi, la vedova del capitano della marina mercantile Paolo Ficalora, per ricostruire – prima nella propria memoria e poi “a verbale” – gli avvenimenti degli ultimi anni. E, ovviamente, nella ricostruzione della donna c’è posto anche per quella famigliola che prese in affitto una villetta del ranch alla fine del 1988 e per quei due “parenti” che, la sera del 26 maggio, lei e il marito, vedendo i Tg (e l’indomani sui giornali), riconobbero in Salvatore Contorno e Gaetano Grado. Nessuno le crede. Dopotutto, sul ritorno in Sicilia di Contorno hanno indagato l’Antimafia e tanti magistrati. Ci sono relazioni parlamentari, sentenze passate in giudicato. Dunque, la signora si sbaglia: non potevano essere Contorno e Grado, quei due. Punto.
Voi come vi sentireste?
Lei non si perde d’animo e continua la sua battaglia per la verità. Anche se intanto è additata come “rompiscatole”, “visionaria”, “pazza”. E forse rischia d’impazzire davvero, la vedova Ficalora, di fronte al muro di gomma che le si è parato davanti da quando ha messo a verbale quel nome: Salvatore Contorno.
Una sera di primavera del 1995 la signora rompe la consegna del silenzio impostale dai magistrati. Da Palermo va in onda Tempo reale, condotto da Michele Santoro. In una piazza del capoluogo siciliano ci sono l’inviato Sandro Ruotolo e diversi ospiti, tra i quali la direttrice Vita D’Angelo, 55 anni, da tre vedova di Paolo Ficalora. Ed è lì, davanti alle telecamere Rai, che la donna rende pubblico quel nome che rappresenta il vero e proprio tappo dell’inchiesta per l’accertamento della verità sull’omicidio del marito. Ora tutti sanno. Ma non succede nulla. Anche se, per la prima volta, in Procura c’è un pm, Gabriele Paci, che le crede.
7. Parlano i nuovi pentiti
Il 23 agosto del 1997, un quotidiano, riportando la notizia della collaborazione di Giovanni Brusca, scrive che il “boia di Capaci” sta svelando i retroscena dei delitti eccellenti e delle stragi… «Brusca – rivela la Repubblica – ha chiarito anche un altro “mistero”, quello relativo all’uccisione del capitano di lungo corso in pensione Paolo Ficalora, assassinato perché avrebbe dato ospitalità al pentito Totuccio Contorno».
Secondo Gioacchino La Barbera, un altro degli stragisti di Capaci poi pentito, il delitto sarebbe stato commesso da (o per conto di) Gioacchino Calabrò; sarebbe stato lo stesso Calabrò a dirlo, in sua presenza, ma senza specificare il movente. Calabrò: il custode della raffineria scoperta ad Alcamo dal giudice Carlo Palermo; l’uomo prima condannato poi assolto per la strage di Pizzolungo; il mafioso in contatto con Giovanni Grimaudo, Maestro Venerabile della loggia massonica coperta Iside 2, una piccola P2 trapanese che affratellava mafiosi, politici, funzionari di polizia e burocrati comunali.

8. Ucciso perché ostacolava i boss
Due processi e altrettante condanne: la prima, a 12 anni di carcere, nei confronti di Giovanni Brusca, reo confesso di essere il mandante dell’omicidio del capitano Paolo Ficalora; la seconda, nei confronti di Gioacchino Calabrò, boss trapanese, condannato all’ergastolo in quanto esecutore materiale del delitto.
«Di certo – scrive il giudice Giacomo Montalbano, nella sentenza che condanna Brusca, depositata il 3 gennaio 2003 – al capitano Ficalora si è, per oscuri motivi, voluto infliggere un supplizio ben più grave di quello estremo dallo stesso subìto, tormento che, travalicando i limiti della esistenza umana, avrebbe coinvolto quanto di più nobile ed elevato un uomo può avere: la dignità e l’orgoglio della propria onestà morale».
A mettere i Corleonesi sulla pista di Ficalora sarebbe stato un boss locale, Leonardo Cassarà (ucciso nel 1998): nell’89, avrebbe avvertito il clan di Riina della presenza di Contorno e Grado nel villaggio turistico. «La effettiva causale dell’efferata eliminazione del Ficalora – scrive il giudice Montalbano – risiede nell’essere costui entrato in rotta di collisione con gli interessi del Cassarà, riuscendo con la sua determinata azione di contrasto ad impedire che i poco chiari ed illeciti affari di un esponente di rilievo di Cosa nostra (lo stesso Cassarà, ndr) andassero in porto».
Il nome di Cassarà è tra quelli messi a verbale dalla vedova. Era lui che voleva mettere le mani sul ranch. È lui, secondo la ricostruzione processuale, ad avvertire i Corleonesi della presenza di Contorno e Grado a Castellammare del Golfo. E Cassarà sa bene che, così, ha decretato la condanna a morte del capitano.
«Dopo dieci anni di calunnie, è finalmente chiaro che mio marito è una vittima innocente della mafia. Restano, però, l’amarezza e il dolore per questo assassinio inutile». La professoressa Vita D’Angelo non riesce a non piangere ogni volta che parla del marito, Paolo Ficalora, ucciso la sera del 28 settembre 1992, proprio davanti ai suoi occhi. «Mio marito era orgoglioso della sua indipendenza politica e sociale, ed è morto senza sapere perché. Se ha fatto qualcosa che secondo i canoni della mafia non doveva, lo ha fatto inconsapevolmente».
Ci sono voluti dieci anni perché la verità emergesse in tutta la sua evidenza, dieci anni di calunnie nei confronti del marito («un supplizio ben più grave di quello estremo dallo stesso subìto», secondo il giudice Montalbano), di resistenze d’ogni tipo, di isolamento, di solitudine. Dieci anni in cui la signora ha persino rischiato di passare per visionaria, a causa d’un nome messo a verbale, quello dell’ex collaboratore di giustizia Totuccio Contorno.

9. Le bugie di Grado e Contorno
Anche Grado – che nel frattempo ha cominciato a collaborare con la giustizia – e Contorno vengono interrogati. Ecco le dichiarazioni di Gaetano Grado, del 29 dicembre del 2000: «Avevo conosciuto il Ficalora in quanto costui aveva affittato un villino a D’Agati Agostino, persona di Villabate a me molto vicina che avevo in precedenza affiliato (…). Il D’Agati nei primi anni 80 era proprietario di un terreno ubicato nella zona di Calatafimi, coltivato a vigneto, ed aveva deciso di cercare un appartamento da affittare per avere un punto di appoggio allorché si recava in zona. Fu proprio il Ficalora ad affittargli l’appartamento nella zona di Castellammare del Golfo, appartamento all’interno del quale io stesso sono stato a dormire alcune volte verso il finire degli anni 80, non ricordo allo stato esattamente in quale periodo. Il Ficalora, per quanto a mia conoscenza, era persona assolutamente estranea a Cosa nostra. (…) Io stesso ho parlato alcune volte con il Ficalora e ricordo di aver conosciuto anche la moglie di questi. (…) Escludo, per quanto a mia conoscenza che mio cugino Contorno Salvatore, una volta iniziato il suo rapporto di collaborazione con la giustizia, abbia mai trovato rifugio in Castellammare del Golfo ovvero in altre zone della provincia di Trapani».
Il 15 gennaio del 2001 anche Coriolano viene sentito dal giudice Montalbano. Ecco alcuni stralci della sua testimonianza: «Seppi della morte del Ficalora attraverso la lettura dei giornali. Tengo a precisare che non ho mai conosciuto il Ficalora ed escludo decisamente che quanto riportato dai giornali a proposito dell’assistenza datami dal Ficalora nell’89, corrisponda a verità. Escludo che Ficalora sia mai stato vicino al nostro gruppo o che ci abbia mai dato assistenza o aiuto. Preciso che io fui arrestato nel maggio ’89 e che nel corso di tale anno non mi sono mai recato in provincia di Trapani. Ho conosciuto invece D’Agati Agostino, un ragazzo molto vicino al nostro gruppo».
«Appare in realtà inspiegabile – scrive il giudice, nella sentenza che condanna Giovanni Brusca come mandante del delitto – il perché sia il Grado che il Contorno, nel loro percorso collaborativo, abbiano negato la circostanza relativa alla presenza del Contorno in Castellammare del Golfo a fronte delle lucide dichiarazioni della D’Angelo». E alla conferma proveniente da numerosi pentiti. Un mistero sul quale la Procura di Palermo ha avviato un’inchiesta che non è ancora approdata a nulla.
18 ANNI FA, L’OMICIDIO DI PAOLO FICALORA di Sebastiano Gulisano, 28 Settembre 2010

giovedì 27 settembre 2012

27 Settembre 1960
Paolo Bongiorno 38 anni, bracciante agricolo, segretario della Camera del Lavoro di
Lucca Sicula

Era la sera del 27 settembre del 1960, Paolo Bongiorno, dopo una riunione del partito, stava rincasando in compagnia del giovane nipote Giuseppe Alfano, leader dei giovani comunisti. Come ogni sera, Paolo, uscendo dai locali della Camera del Lavoro di Lucca Sicula, della quale era segretario, ritornava a casa attraversando le vie del centro storico del piccolo centro montanaro dell’agrigentino, abitato da circa tremila abitanti.
Chiacchierando, zio e nipote avevano già percorso la via Teatro, la via Centrale e la via Lanternaro; poi s’incamminarono verso la via Cutò, imboccarono la via Siggia e giunsero in via Valle, all’estrema periferia del paese, dove vi erano le loro abitazioni.
Erano le 22:30 circa quando, giunti a pochi metri dall’abitazione, due scariche di lupara, sparate da ignoti killer nascosti dietro lo spigolo di un muro, colpirono alla schiena Paolo Bongiorno. Lui emise un forte grido di dolore e, dopo aver fatto alcuni balzi in avanti, stramazzò al suolo in fin di vita. Il giovane nipote, terrorizzato, chiamò aiuto e allarmò i vicini di casa e la zia Francesca Alfano, moglie del Bongiorno. Poi corse ad avvisare i carabinieri della locale stazione. «Mi trovavo a letto ancora vegliante - raccontò la moglie della vittima ai carabinieri giunti sul posto dopo alcuni minuti - sentii due colpi di arma da fuoco che si susseguivano l’uno all’altro. Preoccupata abbandonai il letto e, prima ancora di affacciarmi, mio nipote m’invitava ad aprire gridando: ‘Zia apri, ci hanno sparato’. Mi precipitai fuori e trovai mio marito a terra; poiché sembrava semplicemente svenuto, con mio fratello lo trasportammo a casa. Adagiatolo sul letto cercai di rianimarlo e gli porsi un bicchiere d’acqua che egli bevve. Aveva gli occhi spalancati e mi fissava, senza comunque profferire parola. Mi parve che avesse in animo di dirmi qualche cosa ma dopo pochi istanti spirò».
Paolo Bongiorno, 38 anni, bracciante agricolo, segretario della Camera del Lavoro di Lucca Sicula, padre di cinque figli, morì tra le braccia tremanti della moglie guardandola fissa negli occhi, cercando fino all’ultimo respiro di poterle dire qualcosa. Francesca Alfano rimase sola e disperata, in stato di avanzata gravidanza e con cinque creature in tenera età da accudire. Questa la triste fine di Paolo Bongiorno, nato e cresciuto a Cattolica Eraclea, residente a Lucca Sicula, dove si era trasferito nel 1949 in cerca di lavoro, ricco di speranze. Nel tempo libero dopo faticose giornate di lavoro nei campi, Paolo faceva il segretario della Camera del Lavoro di Lucca Sicula, in paese era stimato e apprezzato da tutti, ma ad alcune “cricche” cominciava a dare fastidio. Reclamava più diritti sociali, un salario più alto, condizioni e orari di lavoro più dignitosi. In un paese e in un periodo in cui, di diritti, chi doveva, ne concedeva ben pochi. Dunque arrivò anche per Bongiorno il tempo della lupara. Due colpi alla schiena, i colpi di grazia della mafia. Perché chi doveva capire capisse.
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mercoledì 26 settembre 2012

26 Settembre 1988
Mauro Rostagno 46 anni, sociologo e giornalista

Basta guardare una sua foto, in particolare i suoi occhi, per capire chi era Mauro Rostagno: un genio. Era nato a Torino nel 1942, famiglia di dipendenti Fiat, quartieri popolari. Un matrimonio e una figlia a diciott’anni, poi l’inquietudine e i viaggi in giro per l’Europa: Germania, Inghilterra, Francia. Intanto un po’ di giornalismo impegnato, le prime proteste contro il regime franchista spagnolo, poi l’università a Trento, la prima facoltà di Sociologia d’Italia, fucina della prima contestazione. Le occupazioni, il Movimento, i confronti con docenti stimolanti come Beniamino Andreatta e Giorgio Galli (c’è pure Alberoni). L’amicizia con Curcio e Mara Cagol, che poi imbracceranno la lotta armata, ma anche con cani sciolti del libertarismo come Aldo Ricci.

E poi con i “compagni” che assieme a Mauro fonderanno Lotta continua nel 1969: Luigi Boccio, Viale, Sofri, Langer, Deaglio, Pietrostefani, Boato. Ma lui rimane un irregolare, un marxista libertario fuori dagli schemi. Infatti lo mandano in Sicilia. Sciolta Lotta continua anche grazie a lui (molti dirigenti e attivisti hanno iniziato a sparare e a delinquere sotto le insegne di Prima Linea), si trasferisce a Milano per un’esperienza più simile al suo carattere irrequieto e creativo, borderline: “Macondo”, locale, centro culturale, ritrovo “alternativo”.

Conosce Chicca Roveri e parte con lei per l’India, dove indossa la tunica arancione col nome di Swami Anand Sanatano. Nel 1981 torna in Sicilia, a Trapani, la città più mafiosa dell’isola, e fonda “Saman”, comunità di meditazione e di disintossicazione per tossicodipendenti, assieme alla Roveri e a Francesco Cardella, il santone-faccendiere che traffica con Craxi. Ben presto Rostagno viene emarginato anche lì, e si concentra sul giornalismo d’impegno antimafia, animando con le sue denunce coraggiose ma sempre creative, anticonformiste, geniali, una piccola tv privata: Radio Tele Cine (Rtc).

Lo abbattono a fucilate a 46 anni, la notte del 26 settembre 1988, pochi giorni dopo l’arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani per l’assassinio del commissario Calabresi. Fra gli indagati c’è anche Rostagno, che anziché gridare al complotto ha subito chiesto di essere sentito e avrebbe dovuto essere interrogato due giorni dopo la sua morte. Indagando sull’assassinio di Mauro, i magistrati battono prima la pista “interna” a Saman, incriminando Cardella, la Roveri più alcuni tipi loschi che gravitavano attorno alla comunità. Poi imboccano la pista mafiosa e mandano a giudizio il boss di Trapani, Vincenzo Virga. Un processo deciderà se è stato lui a ordinare quel delitto per molti versi inspiegabile che ha privato l’Italia di uno dei figli migliori, il più candido e il più controcorrente, della stagione del Sessantotto. Uno dei pochissimi che non avevano fatto carriera.
Così muore un italiano di Marco Travaglio, Il Fatto quotidiano 6 Ottobre 2010
26 Settembre 1978
Salvatore Castelbuono 46 anni, Vigile urbano

Castelbuono Salvatore, meglio conosciuto come Totò, nasce a Palermo il 26/03/1932, cresce a Bolognetta, piccolo centro della provincia di Palermo, dove trascorre la sua infanzia e la sua giovinezza. Dopo il servizio militare, svolto nel nord Italia, torna a Bolognetta, dove si sposa con una sua omonima Rosaria Castelbuono; dal matrimonio nascono 4 figli: Giuseppe, Carmela, Cesare, Antonio. Superato il concorso di Vigile Urbano, inizia a prestare servizio presso l’Amministrazione Comunale di Bolognetta il 02/05/1958 e continua ininterrottamente fino alla data del decesso, espletando molteplici compiti a lui affidati. Il 26/09/1978 viene colpito a morte con 5 colpi di pistola p38 all’interno della sua autovettura in territorio del Comune di Villafrati (PA) al confine con quello di Bolognetta sulla strada provinciale che da Palermo raggiunge Agrigento. Il Vigile Urbano, al momento del delitto, indossava la propria divisa e veniva subito riconosciuto dai Carabinieri della stazione di Bolognetta, che si recavano sul luogo del delitto, avvisati da muratori che lavoravano nella zona, ove l’omicidio era stato consumato. Era uomo che credeva nella legalità nel rispetto delle istituzioni e delle leggi, infatti, per l’attaccamento al genere di servizio che egli espletava, era strettamente legato ai Carabinieri di Bolognetta e anche ai Militari dell’ Arma di Palermo del reparto di Polizia Giudiziaria. Proprio a questi ultimi non ha esitato a fornire preziose informazioni inerenti noti latitanti mafiosi, ai fini dello sviluppo delle indagini di Polizia Giudiziaria. In quanto conoscitore del territorio e degli ambienti, egli riusciva a raccogliere, con meticolosità, notizie importanti che mai gli organi inquirenti ufficiali avrebbero potuto acquisire senza il suo contributo.
Fonte

martedì 25 settembre 2012

25 Settembre 1988
Antonino Saetta 66 anni, magistrato
Stefano Saetta 35 anni, figlio del magistrato

Antonino Saetta (Canicattì 1922 – Caltanissetta 25 settembre 1988) è stato un magistrato italiano. Magistrato esemplare per riservatezza, saggezza e umanità, dedito al compimento del proprio dovere fino all’estremo sacrificio. “Brillante fu la sua carriera in magistratura, con trasferimenti anche al Nord; ma della città natia, come scrisse di lui il “Giornale di Sicilia”, “mai si era rassegnato a perdere le radici, nonostante le sue peregrinazioni”. A sessantasei anni, Antonio Saetta, presidente di Corte d’appello a Palermo, avrebbe dovuto presiedere il nuovo maxi processo, in appello contro la famiglia Greco a tutti gli altri di Cosa nostra. E’ stato ucciso il 25 settembre del 1988, poco dopo le 23 di sera, insieme al figlio Stefano di trentacinque anni, totalmente inabile. Il giudice Antonio Saetta era presidente di sezione della Corte d’appello di Palermo e si trovava a Caltanisetta per il battesimo del nipote. Non aveva mai accettato scorte. Nel 1985 aveva presieduto la corte durante il processo di secondo grado per l’assassinio del giudice Rocco Chinnici: la sentenza aveva confermato l’ergastolo per i boss Michele e Salvatore Greco, noti come il “Papa” e il “senatore”.

Antonino Saetta è stato un giudice italiano, nato a Canicattì, in terra di Sicilia, nel 1922. Essere un giudice e nascere in Sicilia spesso equivale a morire nel tentativo di far trionfare le leggi basilari della Giustizia e di compiere fino in fondo il proprio dovere. Antonino Saetta non è certo un’eccezione a questa regola.
Egli era un magistrato “silenzioso”: non amava rilasciare interviste, non scriveva su giornali o riviste, non lo coinvolgevano le vicende politiche e non indossava le vesti del paladino della Giustizia. Amava solo compiere il proprio dovere; così come amava i classici, le opere d’arte e suo figlio Stefano, un ragazzo che, in tenera età, aveva avuto a che fare con problemi psico-neurologici. Il padre trascorreva tutto il suo tempo libero con il figlio ed è per lui che, nel 1976, decise di trasferirsi a Genova. La lontananza dalla terra di trincea però, non fossilizzò il suo lavoro di giudice, che, invece, proseguì sulla cattedra della Corte d’Appello di Genova, impegnata, in quei difficili anni, nella lotta di contrasto alla Brigate Rosse.
Tornato a Caltanisetta, dovette presiedere il processo Chinnici, che si concluse con l’ergastolo inflitto a Salvatore e Michele Greco, per poi approdare a Palermo come Presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello.
Negli anni Ottanta, arrivarono sulla sua scrivania le carte riguardanti il processo contro gli assassini del capitano Emanuele Basile, ucciso a Monreale il 4 maggio del 1980. Gli imputati erano già stati precedentemente assolti, in risposta al tentativo di Cosa nostra di avvicinare rappresentanti della Giustizia, tra cui lo stesso Presidente della sezione d’Assise, per cercare un attenuante, un compromesso che garantisse l’impunità ai killer e la vita ai servitori dello Stato. Questa “simbiosi” però, si ruppe quando gli efferati killer della mafia si trovarono di fronte quel giudice tanto diverso dagli altri, lontano anni luce dal primitivo concetto di collusione e sottomissione alla criminalità.

Con la parola “ergastolo” si concluse anche questa sentenza.
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È per quella fermezza permeata di coraggio e onestà, che Nino Saetta era stato scelto come giudice che doveva presiedere il processo d’Appello del maxi processo di Palermo.
Totò Riina e i suoi uomini, che già presagivano la vendetta per la sentenza contro gli assassini del capitano Basile, erano consapevoli che la speranza di un’assoluzione per loro non era solo lontana, ma irraggiungibile. Per questo, a dodici giorni dall’omicidio del giudice Giacomelli, Cosa nostra decise di mandare all’altro mondo anche Antonino Saetta. Sulla statale Agrigento-Caltanisetta, una BMW rubata affiancò l’auto (non un’auto blindata con la scorta, ma una semplice Lancia Prisma) del giudice, che era diretto, insieme al figlio Stefano, a Palermo, dove lo aspettava l’altro figlio, Roberto. Una carrellata di colpi di arma da fuoco pose fine alla vita dei due.
Stefano, vittima inconsapevole di una realtà spregevole che non risparmia nessuno e Antonino, condannato a morte per le condanne che lui stesso aveva emanato; perché era una persona “normale”, un uomo che amava la propria famiglia, il proprio lavoro e che era abituato a fare il proprio dovere, a non piegarsi alle logiche servili di una società del tutto schiava della criminalità organizzata. Un uomo normale in un mondo di folli.
Oggi Antonino Saetta incarna il modello a cui si ispirano tutti quei magistrati che, come lui, non si piegano al compromesso e donano la propria vita a quella causa utopica che è la Giustizia.
Se tutti noi scegliessimo di vivere con quel briciolo di coraggio in più, quell’utopia potrebbe diventare realtà.
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25 Settembre 1979
Cesare Terranova 58 anni, magistrato
Lenin Mancuso 56 anni, poliziotto

Cesare Terranova (Palermo, 15 agosto 1921 – Palermo, 25 settembre 1979) è stato un magistrato e parlamentare italiano.
Magistrato italiano, capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, era già stato procuratore d’accusa al processo contro la mafia corleonese tenutosi nel 1969 a Bari, ove però quasi tutti gli imputati furono assolti. Fu procuratore della Repubblica a Marsala fino al 1973 dove si occupò del “mostro” Michele Vinci. Si distinse per aver processato e condannato all’ergastolo, nel 1974, la “Primula rossa” di Corleone, Luciano Liggio (già assolto al processo di Bari).
Fu deputato alla Camera, nella lista del PCI, come indipendente di sinistra, dal 1976 al 1979, e fu membro della Commissione parlamentare Antimafia. Dopo l’esperienza parlamentare, tornò in magistratura per essere nominato capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo.
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Ai primi di Settembre [1979] torna a Palermo, dopo una lunga parentesi romana, un magistrato colto, informato, tutto d’un pezzo. «Giudice duro» è il peggior apprezzamento che riescono a coniare i suoi avversari, colleghi e no. Il magistrato che torna in Sicilia, dopo essere stato per due legislature componente della commissione antimafia eletto nelle liste del PCI si chiama Cesare Terranova, e ha cinquantanove anni. Per la mafia è un uomo ingombrante. Entrato in magistratura nell’immediato dopoguerra, la sua intera biografia era stata scandita da grandi inchieste, grandi processi alle vecchie cosche degli anni ’60. Terranova, giudice istruttore a Palermo fin dal ’58, aveva potuto assistere dal suo osservatorio privilegiato, alle guerre senza quartiere che segnarono l’assalto alla città, all’insegna della speculazione edilizia e dell’accaparramento delle aree. Dalle sue mani erano passati i dossier più scottanti: quello sulla mafia della borgata di Tommaso Natale o contro la terribile famiglia Rimi di Alcamo, quello sui fratelli La Barbera – personaggi di spicco del sacco urbanistico di Palermo – o sull’uccisione, in ospedale, dell’albergatore Candido Ciuni per mano di killer travestiti da medici. Ed era stato il primo magistrato a mettere finalmente per iscritto, nella sentenza istruttoria per la strage di viale Lazio, che gli amministratori comunali di allora rappresentavano il centro propulsore della nuova mafia.[…] Ma non è tutto. il magistrato aveva preso di petto, infischiandosene degli inviti alla prudenza che da più parti gli venivano, l’intera «famiglia» dei corleonesi di Luciano Liggio. Riuscì a portare alla sbarra una sessantina fra gregari e colonnelli e lo stesso Luciano Liggio, che, in secondo grado, subì l’ergastolo. Liggio giurò pubblicamente odio eterno a Terranova. […]
Un passato cristallino, una scelta di campo ribadita negli anni, una conoscenza del fenomeno talmente approfondita da renderlo quasi certamente vincitore nella corsa alla poltrona di capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Tornava in Sicilia non solo il Terranova che aveva provocato sudori freddi alla mafia di quegli anni, ma anche l’ex parlamentare che aveva ampliato i suoi orizzonti nella commissione d’inchiesta e che ora, in una parola, ne sapeva di più. E tornava – ma questo allora potevano saperlo in pochi – in un momento in cui i corleonesi si preparavano ad un gigantesco regolamento di conti con le cosche rivali. […]
La mafia sapeva che questo giudice non aveva nel suo cassetto carte scottanti su singoli casi ancora aperta. Conosceva bene tutta la differenza che passa tra la figura di un giudice e quella di un poliziotto. Ma nello stesso tempo capiva che Terranova, giudice dalla memoria ormai storica, Terranova per sette anni commissario dell’antimafia, Terranova con orientamenti politici di sinistra era l’ultima persona che avrebbe dovuto sedersi su quella poltrona. Ne tirò le conseguenze, la mattina del 25 settembre 1979. Ancora una volta un agguato sotto casa.
Terranova scese per recarsi in ufficio. Lo aspettava Lenin Mancuso, quel fedelissimo maresciallo di pubblica sicurezza che ormai da vent’anni lo seguiva come un’ombra; si mise alla guida della sua auto, il poliziotto a fianco. Tre killer circondarono l’auto, armati di una carabina Winchester, d’una calibro 38, d’una 357 magnum. Non ci fu scampo: una trentina di colpi, esplosi a distanza ravvicinatissima. Per il magistrato anche un colpo di grazia sul collo, come stabilì l’autopsia. Il maresciallo invece, pur essendo stato centrato da otto proiettili, sopravvisse ancora un paio d’ore.
Sebbene a quell’ora il quartiere, in una zona elegante della città, fosse affollato di gente, sebbene molti testimoni assistettero casualmente all’esecuzione, non fu mai possibile tracciare l’identikit degli assassini che pure agirono a viso scoperto.
Saverio Lodato, Trent’anni di mafia

sabato 22 settembre 2012

22 Settembre 1946
Giovanni Castiglione contadino
Girolamo Sciaccia contadino

Pochi la ricordano, ma, nel secondo dopoguerra, anche Alia, in provincia di Palermo, ebbe la sua strage. Una terribile strage, con morti e tanti feriti. Accadde la sera del 22 settembre 1946, mentre era in corso una riunione di contadini nella casa del segretario della Camera del lavoro del paese. I decreti Gullo, che davano il diritto alle cooperative contadine di chiedere l’assegnazione delle terre incolte o malcoltivate degli agrari, avevano creato entusiasmo e voglia di lottare anche in questo piccolo centro della Valle del Torto. Infatti, la riunione era stata convocata per discutere dell’occupazione dei feudi «Rigiura» e «Vaccotto», tutti e due nelle mani di gabelloti mafiosi. C’erano tanti contadini quella sera a quell’assemblea, c’era grande fermento e si discuteva piuttosto animatamente, per curare nei dettagli l’organizzazione dell’iniziativa di lotta. All’improvviso, «qualcuno» dalla strada lanciò delle bombe a mano nella casa, mentre «altri» spararono dei colpi di lupara. Due contadini, Giovanni Castiglione e Girolamo Sciacca, morirono sul colpo, altri tredici rimasero feriti. Fu una strage anticipatrice di quella che sarebbe stata consumata il 1° maggio a Portella della Ginestra. Il paese rimase sconvolto da tanta ferocia. Pur avendo consapevolezza del durissimo scontro sociale in corso, i contadini e l’opinione pubblica non pensavano che si potesse arrivare a tanto. Non pensavano che la ferocia degli agrari e della mafia arrivasse a tal punto da decidere di sparare nel mucchio, di ammazzare chiunque, di provocare una strage, pur di tenere a freno la «fame» di terra e la voglia di libertà della povera gente.
Alia e la strage dimenticata, La Sicilia
22 Settembre 1919
Giuseppe Rumore sindacalista socialista

E’ nato a Prizzi. Fu grande sindacalista socialista. All'inizio del secolo XX il movimento dei contadini fu largamente influenzato e diretto dai socialisti, specie nella provincia di Palermo per le lotte dei contadini e il riscatto delle loro condizioni di vita. Giuseppe Rumore ricoprì la carica di segretario della sezione socialista e dei reduci di guerra. Mentre il partito era impegnato a livello nazionale nella polemica tra riformismo e massimalismo, i socialisti siciliani lavorano per la costituzione di una federazione agricola siciliana che nacque per l'appunto dal Convegno Enna del febbraio 1919. L'8 giugno 1919, la Federazione decise di aderire alla Confederazione generale del lavoro. Scopo essenziale di tutta quest'attività era per Rumore la costituzione di un unico fronte tra i lavoratori delle leghe e gli operai di Palermo contro i grandi gabelloti e i proprietari, per porre fine alle loro prepotenze ed iniziare una nuova era di giustizia sociale. Il 31 agosto 1919 si tenne a Prizzi un grande comizio, cui seguirono quelli di Palazzo Adriano e dei comuni vicini. I proprietari, preoccupati di perdere i loro antichi privilegi, non esitarono ad organizzarsi e spezzarono con una lunga serie di omicidi il movimento dei contadini. Giuseppe Rumore fu ucciso davanti alla sua abitazione, sotto gli occhi della moglie e della figlia di quattro anni. E’ morto assassinato dalla mafia il 22 settembre 1919.
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venerdì 21 settembre 2012

21 Settembre 1990
Rosario Livatino 37 anni, magistrato

Il 21 settembre del 1990 la mafia uccide il giudice Rosario Livatino, [i]il giudice ragazzino] come lo definì in maniera sprezzante l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Con la sua vecchia Ford rossa era uscito da casa per raggiungere il palazzo di giustizia. Sulla statale 640, in contrada Gasena, venne affiancato da una macchina e una moto. Il magistrato scese e si mise a correre per sfuggire ai killer. Ma venne raggiunto ed ucciso. Un testimone oculare, Pietro Nava, vide la scena e fece arrestare gli assassini.

Rosario Livatino è nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, dal papà Vincenzo, laureato in legge e pensionato dell'esattoria comunale, e dalla mamma Rosalia Corbo. Rosario conseguì la laurea in Giurisprudenza all'Università di Palermo il 9 luglio 1975 a 22 anni col massimo dei voti e la lode. Il conseguimento della laurea, alla prima sessione utile, era solo la momentanea conclusione di una brillantissima carriera scolastica iniziata alla scuola elementare De Amicis, proseguita alla scuola media Verga e conclusa al Liceo Classico Ugo Foscolo di Canicattì sempre con voti e giudizi ottimi, compreso un lusinghiero "dieci" in matematica.

Il 21 aprile '90 conseguì con la lode il diploma universitario di perfezionamento in Diritto regionale.
Giovanissimo entra nel mondo del lavoro vincendo il concorso per vicedirettore in prova presso la sede dell'Ufficio del Registro di Agrigento dove restò dal 1° dicembre 1977 al 17 luglio 1978. Nel frattempo però partecipa con successo al concorso in magistratura e superatolo lavora a Caltanissetta quale uditore giudiziario passando poi al Tribunale di Agrigento, dove per un decennio, dal 29 settembre '79 al 20 agosto '89, come Sostituto Procuratore della Repubblica, si occupò delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche (nell'85) di quella che poi negli anni '90 sarebbe scoppiata come la "Tangentopoli siciliana". Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un ministro dello Stato. Dal 21 agosto '89 al 21 settembre '90 Rosario Livatino prestò servizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere e della speciale sezione misure di prevenzione. Dell'attività professionale di Rosario Livatino sono pieni gli archivi del periodo non solo del Tribunale di Agrigento ma anche degli altri uffici gerarchicamente superiori.

Molto rari gli interventi pubblici così come le immagini. Gli unici interventi pubblici, fuori dalle aule giudiziarie, che costituiscono una sorta di testamento sono rappresentati da "Il ruolo del Giudice in una società che cambia" del 7 aprile 1984 e "Fede e diritto" del 30 aprile 1986 (i documenti integrali sono consultabili nel libro “Il piccolo giudice. Fede e Giustizia in Rosario Livatino” di Ida Abate per Editrice Ave mentre l'Associazione sta valutando l'utilità di ristamparli e diffonderli soprattutto tra i Magistrati). Rosario non volle mai far parte di club o associazioni di qualsiasi genere.
Rosario Livatino fu ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre '90 sul viadotto Gasena lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta mentre - senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto - si recava in Tribunale.
Associazione Amici del giudice Rosario Livatino
21 Settembre 1986
Filippo Gebbia 30 anni, studente
Antonio Morreale pensionato

La prima strage di Porto Empedocle, venne decisa per annientare il clan Grassonelli. Mandante la famiglia Messina. I killer arrivarono a bordo di due cabriolet ed uccisero a colpi di mitraglietta Gigi Grassonelli ed il padre Giuseppe, mentre Bruno e Salvatore sfuggirono per caso ai colpi di mitra. Nell’agguato, eseguito davanti al “Bar Albanese”, morirono altre quattro persone. Tra questi due innocenti Filippo Gebbia, studente 30 anni ed Antonio Morreale, pensionato. Era il 21 settembre 1986. E’ la Prima strage di Porto Empedocle ed inizia la guerra di Cosa Nostra contro la Stidda.
http://www.liberanet.org/wordpress/?p=1008


All’improvviso andò via la luce e la via Roma s’illuminò solo del fuoco delle mitragliette. Una pioggia di proiettili sulla folla, l’oscurità, le grida, l’aria festosa della domenica sera interrotta da uno, due, cento colpi d’arma da fuoco. Sembrava una parata di giochi pirotecnici, ma bastò poco a comprendere cosa stava accadendo. Il sangue sgorgava a fiumi sotto i tavoli del bar Albanese. La gente atterrita cercava scampo, correva all’impazzata mossa solo da paura e terrore. Alcuni cercarono riparo nei portoni dei palazzi del corso, inerpicandosi su per le scale fino a raggiungere l’ultimo piano, altri finirono dietro i banconi dei bar situati tra la Matrice e la piazzetta della farmacia. Altri ancora si stesero per terra dietro gli alberi secolari di via Roma.
Intanto i secondi passavano ed il commando, compiuta la missione di morte, andò via. Per terra si contarono sei morti, tragico bilancio di quella che nella storia viene ricordata come la «prima strage di Porto Empedocle»: un’azione di guerra decisa da Cosa Nostra per rispondere agli affronti ed alle umiliazioni subite a causa della famiglia dei Grassonelli. Il primo della lista era Gigi, poi il padre Giuseppe ed i fratelli Bruno e Salvatore. Il commando stanò solo i primi due, ma si rifece assassinando Salvatore Tuttolomondo e Giovanni Mallia, il loro guardaspalle. Morirono anche due innocenti. Poi, mentre il panico dilagava nel paese fino a ricoprirlo di vergogna, di colpo tornò la corrente elettrica. Fu quasi una magia ed in un baleno Porto Empedocle guardò in faccia la verità: la mafia c’era, aveva esteso i suoi tentacoli, si era intrufolata tra le stradine arabe di via Alloro, si era ancorata nei quartieri vecchi ed all’altipiano Lanterna, la zona satellite rimasta per anni ed anni senza farmacia, senza ufficio postale, strade, cinema, fogne, acqua. Senza civiltà e neanche un medico.
Alfonso Bugeo, Cosa Muta

mercoledì 19 settembre 2012

19 Settembre 1959
Giuseppina Savoca 12 anni

Il 19 settembre 1959 venne uccisa Giuseppina Savoca, una bambina di 12 anni. Stava giocando sotto casa, in via Messina Marine, a Palermo, quando venne raggiunta da un proiettile vagante. Nella sparatoria rimase ucciso il pregiudicato Filippo Drago, 51 anni, proprietario di una profumeria in via Maqueda e ferito leggermente suo nipote Giuseppe Gattuso di 22 anni.
Giuseppina non morì immediatamente, fu trasportata in ospedale e si spense per complicazioni polmonari tre giorni dopo il ricovero.

martedì 18 settembre 2012

18 Settembre 1945
Calogero Cicero carabiniere
Fedele De Francisca carabiniere

A Palma di Montechiaro (Agrigento) in un conflitto a fuoco con dei banditi muoiono i carabinieri Calogero Cicero e Fedele De Francisca.

domenica 16 settembre 2012

Mauro De Mauro

16 Settembre 1970
Mauro De Mauro 49 anni, giornalista

Nacque nel 1921 a Foggia, figlio di un chimico e di un’insegnante di matematica. Amante fin da ragazzo delle divise e delle armi, sostenitore convinto del fascismo, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale s’arruolò volontario. Militò nella X Flottiglia MAS del principe Junio Valerio Borghese e, dopo l’8 settembre 1943, aderì alla Repubblica di Salò. Nel 1943-44, nella Roma occupata dai nazifascisti, fu vice questore di Pubblica Sicurezza sotto il questore Caruso, informatore del capitano delle SS Erich Priebke e del colonnello Herbert Kappler e fece parte della famigerata Banda Koch, un reparto speciale del Ministero degli interni della Repubblica Sociale Italiana. In questo periodo venne segnalato dal servizio segreto britannico, il SIS, quale infiltrato nei reparti partigiani e delatore, appartenente alla Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Alla fine della guerra fu sul fronte di Trieste a contrastare il IX Corpus sloveno, di nuovo con Borghese, come corrispondente di guerra della Decima, con il grado di sottotenente. La sua vita, in questi anni, risultò esser particolarmente travagliata. Un suo fratello aviatore morì in guerra; in un incidente stradale occorsogli presso Verona, nel 1944, egli stesso aveva riportato esiti permanenti in termini di menomazioni fisiche (aveva il naso ricucito ed era claudicante). Anche la moglie Elda, per via della sua militanza filofascista, era braccata dai partigiani nel pavese. In un rapporto del CLN si leggeva il suo nome tra i più pericolosi avversari del movimento partigiano. Arrestato a Milano dagli alleati nell’aprile 1945 ed internato a Modena, prima, e nel campo di Coltano presso Pisa il mese successivo, nel dicembre di quell’anno riuscì ad evadere e a raggiungere Napoli dove rimase per il biennio 1946 – 1947 sotto falsa identità assieme alla moglie ed alle figlie nate proprio in quel periodo.
Nei processi per collaborazionismo fu prima condannato in contumacia, nel 1946, poi assolto, nel 1948, per “mancanza di prove”, dalla Corte d’Assise di Bologna, poi infine assolto per non avere commesso i fatti addebitatigli con sentenza definitiva della sezione 2a penale della Corte suprema di Cassazione l’8 marzo 1949 (difensore Filippo Ungaro), registro generale 3056/48.
Il giornalismo
Trasferitosi a Palermo con la famiglia dopo la seconda guerra mondiale, lavorò presso giornali come Il Tempo di Sicilia, Il Mattino di Sicilia e poi a L’Ora, rivelandosi un ottimo cronista. Nel 1962 aveva seguito la morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei e nel settembre del 1970 si stava nuovamente occupando del caso, in seguito all’incarico ricevuto dal regista Francesco Rosi per il suo film Il caso Mattei, che sarebbe in seguito uscito nel 1972.
De Mauro aveva pubblicato, sempre su L’Ora, il 23 ed il 24 gennaio 1962 il verbale di polizia, risalente al 1937 e caduto nel dimenticatoio, in cui il medico siciliano Melchiorre Allegra, tenente colonnello medico del Regio Esercito durante la Prima Guerra Mondiale, affiliato alla Mafia nel 1916 e pentito mafioso dal 1933, elencava tutta la struttura del vertice mafioso, gli aderenti, le regole, l’affiliazione, l’organigramma della società malavitosa. Tommaso Buscetta, davanti ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quindici anni dopo la morte del giornalista, ebbe ad affermare che “… De Mauro era un cadavere che camminava. Cosa Nostra era stata costretta a ‘perdonare’ il giornalista perché la sua morte avrebbe destato troppi sospetti, ma alla prima occasione utile avrebbe pagato anche per quello scoop. La sentenza di morte era solo stata temporaneamente sospesa”.
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In redazione l'aveva confidato a più di un collega: "Ho uno scoop che farà tremare l'Italia". Era venuto a sapere che il principe Junio Valerio Borghese stava preparando un golpe. E che Cosa Nostra complottava con i generali. Mauro De Mauro però fece le domande giuste alle persone sbagliate. Prima lo rapirono e lo "interrogarono", poi lo strangolarono.
Il suo cadavere fu seppellito in campagna, tra la borgata di Villagrazia e la foce del fiume Oreto. Trentacinque anni dopo si chiude l'inchiesta sul primo delitto eccellente di Palermo.

È la "pista nera" che puzza di mafia. È la sola, l'unica che resiste a più di tre decenni di aggrovigliate investigazioni. I fascisti progettavano di fare il colpo di stato alleandosi in Sicilia con i boss, fu la scoperta di quel patto la condanna a morte di Mauro De Mauro, reporter del quotidiano della sera L'Ora, corrispondente dall'isola de Il Giorno e della Reuters, giornalista famoso e dal burrascoso passato repubblichino nella Decima Mas. Ucciso nel settembre 1970 per una notizia che gli avevano soffiato amici frequentati in gioventù, compagni d'armi e camerati. Mandanti dell'omicidio i capi della Cupola Stefano Bontate, Gaetano Badalamenti e Salvatore Riina. Ordinarono il suo rapimento dopo un incontro a Roma con il principe Borghese e due alti ufficiali del Sid, il servizio segreto militare di allora. Il golpe era previsto per dicembre, nella notte tra il 7 e l'8, nome in codice del piano insurrezionale "Tora Tora". Fu un omicidio "preventivo", sostengono i magistrati nella loro ultima ricostruzione sul sequestro del giornalista. […]
Il giornalista era già tempo sorvegliato dai mafiosi. Avevano paura che scoprisse qualcosa sull'"incidente" al presidente dell'Eni, lui lavorava alla sceneggiatura del film che Francesco Rosi stava girando proprio sull'attentato di Bascapè. Ma De Mauro non custodiva segreti su Mattei. Si era invece imbattuto in quell'altra storia, il colpo di stato, il golpe che il "principe nero" voleva far scattare da lì a tre mesi coinvolgendo anche Cosa Nostra. I mafiosi avrebbero dovuto occupare la sede Rai di Palermo, le prefetture e le questure delle città siciliane.

Erano quasi le 9 di sera del 16 settembre quando sparì proprio sotto casa sua, in via delle Magnolie, la Palermo del sacco edilizio. Mauro uscì dalla redazione de L'Ora e fermò la sua Bmw davanti a un bar, comprò due etti di caffè macinato, due pacchetti di Nazionali senza filtro e una bottiglia di bourbon. Stava posteggiando l'auto quando sua figlia Franca - la ragazza si sarebbe dovuta sposare la mattina dopo - dalla finestra vide il padre "che parlava con due o tre uomini". Poi la Bmw all'improvviso ripartì. Fu ritrovata la mattina dopo dall'altra parte della città. Aveva ancora le chiavi inserite nel cruscotto. A Palermo è il rituale della lupara bianca. Così Mauro scomparve per sempre.

Per più di vent'anni solo silenzio. Dopo le stragi del 1992 cominciarono a parlare i pentiti. Il primo fu Gaspare Mutolo. Svelò due nomi: "Lo strangolarono Stefano Giaconia ed Emanuele D'Agostino". Poi arrivò Buscetta. E poi ancora Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia, Gaetano Grado. Tranne don Masino che è morto, gli altri sono stati tutti riascoltati dai magistrati. E tutti hanno indicato la "pista nera". Per ultimo Francesco Di Carlo ha ricordato di summit a Roma tra capimafia e generali. E ha spiegato: "De Mauro non fu nemmeno trascinato via a forza quella sera..". Conosceva bene una di quelle "due o tre persone" che sua figlia Franca intravide dalla finestra di casa. Era Emanuele D'Agostino, l'autista di Bontate. De Mauro si fidava in qualche modo di D'Agostino. E forse proprio da lui stava cercando di avere quel pezzo mancante per il suo scoop. Lo portarono in un casolare e fu Mimmo Teresi a interrogarlo, a tirargli fuori quello che sapeva sul colpo di stato. Poi lo uccisero. Nessuno dei pentiti sa dove sia esattamente la sua tomba, tutti dicono che è "sicuramente sotterrato" a Villagrazia, sul letto di quello che una volta era il fiume Oreto.
Attilio Bolzoni, De Mauro ucciso per uno scoop scoprì il patto tra boss e golpisti, La Repubblica
Il 9 Giugno 2011 la corte d’Assise di Palermo assolve Totò Riina per l’omicidio del giornalista, in una sentenza che mette in luce depistaggi e coperture.

L'omicidio del giornalista Mauro De Mauro è un mistero che dura da quarant'anni. E sembra destinato a restare tale. Dopo dieci ore di camera di consiglio, la corte d'assise di Palermo ha assolto Totò Riina dall'accusa di aver ordinato la morte del coraggioso cronista del giornale "L'Ora", sequestrato e ucciso la sera del 16 settembre 1970. La Procura di Palermo aveva chiesto la condanna all'ergastolo per il capo di Cosa nostra, sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti storici, da Tommaso Buscetta a Gaspare Mutolo, da Francesco Marino Mannoia a Francesco Di Carlo.

"E' una vergogna di 41 anni". Dice la figlia di De Mauro, Franca, che ha assistito in aula alla lettura della sentenza. "Sono molto turbata per questa conclusione - ha aggiunto - perché ritenevo, dopo avere seguito la requisitoria dei pubblici ministeri e le dichiarazione di alcuni collaboratori, che ci fossero le condizioni per arrivare a una conclusione diversa".

L’unica certezza del caso De Mauro restano i depistaggi, che avrebbero ostacolato l’indagine sin dall’inizio. Sembra dirlo anche il dispositivo della sentenza della corte d’assise presieduta da Giancarlo Trizzino: dopo l'assoluzione di Riina, i giudici hanno disposto che tornino in Procura le deposizioni di alcuni testimoni. Quella del superpoliziotto Bruno Contrada, innanzitutto, che sta scontando una condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La corte ha visto la falsa testimonianza anche nelle deposizioni di due ex redattori di “Epoca”, Pietro Zullino e Paolo Pietroni, poi nelle parole dell’avvocato Giuseppe Lupis, ritenuto vicino ad ambienti dei servizi segreti.

"Questo è un processo di mafia, ma non solo", aveva detto nella requisitoria il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, che ha sostenuto l'accusa assieme al collega Sergio Demontis: "Non fu solo Cosa nostra a volere la morte del cronista de L'Ora - questa la tesi della Procura di Palermo - c'erano anche altri ambienti e personaggi interessati, altre organizzazioni non mafiose alleate con Cosa nostra: dalla massoneria deviata alla destra eversiva golpista, dai servizi segreti infedeli a un certo mondo della finanza e della politica".

Secondo la ricostruzione dell'accusa, sarebbero stati in molti a voler fermare lo scoop che De Mauro aveva annunciato a pochi amici, ai familiari e forse a qualcuno che potrebbe averlo tradito: dal processo è emerso che il giornalista palermitano aveva scoperto qualcosa di importante sulla morte del presidente dell'Eni Enrico Mattei, ucciso il 27 ottobre 1962 dall'esplosione dell'aereo che lo stava riportando a Milano dopo una visita in Sicilia. Questo hanno ipotizzato i pentiti Mutolo, Buscetta e Grado. O forse De Mauro aveva scoperto che il principe Junio Valerio Borghese stava preparando un colpo di Stato, per il dicembre di quel 1970. Così sostiene un altro pentito, Francesco Di Carlo.

Nel primo, come nel secondo episodio, i padrini di Cosa nostra avrebbero avuto un ruolo. Il cronista del giornale "L'Ora" l'aveva scoperto da alcune sue fonti rimaste ignote, forse all'interno dell'organizzazione mafiosa. Ma le dichiarazioni dei pentiti non sono bastate per la condanna di Riina.

I depistaggi
Di certo, l'inchiesta sull'omicidio De Mauro è stata scandita da pesanti depistaggi, iniziati sin da subito. Ecco perché la prima sentenza arriva solo quarant'anni dopo. "Furono depistaggi magistrali messi in atto da esponenti della polizia, dei carabinieri e dei servizi segreti", così li hanno descritti i pm nel corso della requisitoria. E perché la verità non si scoprisse, scomparvero presto nove pagine degli appunti che De Mauro aveva raccolto durante l'indagine su Mattei, commissionata dal regista Francesco Rosi. I fogli erano al giornale "L'Ora", nei cassetti di una scrivania che furono aperti il giorno dopo il sequestro dai vertici del quotidiano, prima ancora dell'arrivo della polizia.

Il legale della famiglia De Mauro, l'avvocato Francesco Crescimanno, ha denunciato nel suo intervento finale in aula: "Non vi è dubbio che alcuni soggetti o alcuni settori del giornalismo non hanno vissuto adeguatamente quel momento. Ci sono passaggi ancora traballanti".

E perché negli ultimi tempi un cronista investigativo di razza come De Mauro era stato trasferito allo sport? Se lo sono chiesti i pubblici ministeri: "De Mauro fu tradito dal suo stesso ambiente? - hanno proseguito Ingroia e Demontis - Qualche potente aveva influenza su L'Ora?".

Nell'aula della corte d'assise è risuonato il nome dell'avvocato Vito Guarrasi, uno dei potenti di Palermo, spesso sfiorato dal sospetto di essere il trait-d'union fra la mafia e i poteri occulti d'Italia. E' morto nel 1999, senza che mai quei sospetti si fossero trasformati in un'inchiesta a suo carico. Solo dopo la morte di De Mauro, qualche investigatore della squadra politica della questura di Palermo aveva aperto un fascicolo a nome "Guarrasi". E aveva anche intercettato le telefonate di un commercialista che sembrava essere la longa manus dell'avvocato: era quell'enigmatico Nino Buttafuoco che si era proposto di aiutare la famiglia De Mauro dopo il sequestro.

Ma pure le bobine delle intercettazioni sono sparite. Non si trovano più neanche le trascrizioni. L'ultima amara verità emersa nel processo dice che nel novembre 1970 arrivò a Palermo l'allora capo dei servizi segreti Vito Miceli: avrebbe presieduto una riunione con i vertici delle forze di polizia, convocata nella villa Boscogrande dove il regista Visconti aveva girato le scene iniziali del "Gattopardo".

"E' arrivato l'ordine che le indagini vengano annacquate", confidò qualche tempo dopo il commissario Boris Giuliano a uno dei magistrati che si occupavano del caso De Mauro. E nessuno indagò più su Guarrasi, sulla fine di Mattei, e su tutti i sospetti che portavano allo scoop eclatante di De Mauro. "Farò tremare l'Italia", aveva confidato lui a un amico, pochi giorni prima di morire. Il mistero continua.
La Repubblica Omicidio De Mauro assolto Totò Riina la procura aveva chiesto l’ergastolo
Un "De Mauro bis" lo definisce il procuratore aggiunto Antonio Ingroia. Dalla sentenza che ha assolto Totò Riina nascerà una seconda indagine e un secondo processo sui depistaggi per tentare di occultare la verità sulla morte del giornalista dell'Ora. E comunque la procura non si arrende. «Non ci rassegniamo - assicura Ingroia - semmai la ricerca della verità prosegue su due fronti». Dunque sarà presentato appello contro la sentenza che ha assolto Riina dall'accusa di essere il mandante dell'omicidio e parallelamente si procederà nei confronti di quei soggetti per i quali la stessa corte d'assise ha trasmesso gli atti alla procura per falsa testimonianza. Tra questi l'ex 007 Bruno Contrada, i giornalisti Zullino e Pietroni e l'avvocato Lupis, che presto saranno iscritti nel registro egli indagati. «Il De Mauro bis - spiega Ingroia - riguarderà i depistaggi attuati sia all'inizio che nel corso delle indagini e che hanno prodotto gravi effetti. Quando si disperdono prove e si distruggono tracce le conclusioni non possono essere diverse. Questa sentenza può apparire una sconfitta dello Stato ma la guerra non è persa e noi non alziamo bandiera bianca». Stupito per l'assoluzione anche il procuratore capo Messineo: «Non dico che la condanna sembrava scontata ma certamente da quello che era emerso nel processo sembrava quasi certa la condanna all'ergastolo».
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sabato 15 settembre 2012

15 Settembre 1993
Don Pino Puglisi 56 anni, parroco

Don Giuseppe Puglisi (Palermo, 15 settembre 1937 – Palermo, 15 settembre 1993) è stato un presbitero italiano, ucciso dalla mafia il giorno del suo 56º compleanno a motivo del suo costante impegno evangelico e sociale.
Per il suo omicidio furono arrestati Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza, gli esecutori materiali. Entrambi collaboratori di giustizia, hanno confessato l'omicidio e ne hanno raccontato la dinamica. Don Pino fu ucciso di sera, mentre rientrava a casa a piedi. I killer lo seguirono e quando lo chiamarono il prete si voltò, li guardò in faccia, sorrise e disse: "me lo aspettavo".

[Con l’omicidio di don Pino] la Chiesa siciliana antimafia entrò per la prima volta nel mirino dei killer mafiosi che da una borgata di Palermo - Brancaccio - lanciarono un segnale tremendo e inequivocabile: i preti dovevano limitarsi a fare i preti, i preti dovevano occuparsi di prediche e Vangeli, i preti dovevano guardare molto in alto, possibilmente in cielo, disinteressandosi di quanto accadeva attorno a loro. La sera del 15 settembre 1993, attorno alle 22, un killer seguì padre Pino Puglisi, 55 anni, parroco della Chiesa di San Gaetano, che dopo una giornata trascorsa fra i suoi parrocchiani si stava ritirando a casa. E proprio sulla soglia della sua abitazione lo uccise a colpi di pistola. Il corpo del sacerdote rimase sul selciato per quasi un'ora, prima che i vicini si decidessero a dare l'allarme. Chi era don Pino Puglisi? L'esatto contrario di un sacerdote che guardava in cielo per evitare di guardarsi attorno. Perennemente in prima linea. Schierato a viso aperto contro i trafficanti di eroina - grandi o piccoli pusher che fossero - che a Brancaccio spadroneggiavano sin dai tempi della prima guerra di mafia di fine anni '70. A capo di un gruppo di volontari che assistevano personalmente i tanti emarginati della borgata. La mattina del giorno in cui lo uccisero, si era recato in Prefettura - e vuole essere solo uno dei tanti esempi possibili del suo instancabile impegno - per segnalare alle autorità l'esistenza di uno scantinato, il famigerato scantinato di via Azzon, dove si incontravano spacciatori di ogni risma. Ma non solo: nel giornalino parrocchiale erano state pubblicate tantissime sue denunce, con nomi e cognomi, dei potenti della borgata - innanzitutto «uomini politici» -, che vessavano la povera gente in cambio di consenso elettorale. Va anche ricordato che pochi mesi prima del delitto - il 9 maggio 1993, in occasione del primo anniversario delle stragi di Capaci e via D'Amelio - Papa Wojtyla, dalla Valle dei Templi di Agrigento, aveva duramente stigmatizzato il comportamento di Cosa Nostra con queste parole: «Mafiosi, convertitevi. Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto delle vostre malefatte». Quasi una scomunica.
Saverio Lodato, Padre Pino, il parroco schierato contro i trafficanti di eroina, l’Unità


(Aggiungo una nota a margine: Sgarbi accusò, dagli schermi di canale5, il procuratore Caselli di essere il mandante morale di questo omicidio. Lo fece leggendo una lettera, ovviamente anonima, scritta da un sedicente amico di don Puglisi, che affermava che il prete si lamentava di Caselli che voleva costringerlo a denunciare i mafiosi. Peccato che Caselli non abbia mai conosciuto nè parlato con don Puglisi in vita sua. Giusto per capire come funziona la cosiddetta informazione in Italia)

venerdì 14 settembre 2012

14 Settembre 1988
Alberto Giacomelli 69 anni, magistrato in pensione

Negli anni di fuoco della lotta tra Stato e Cosa nostra, anche se a volte il confine tra quello che dovrebbe essere il bene (lo Stato) e la mafia (Cosa nostra) è molto sottile, un'altra toga venne macchiata di sangue nella trincea siciliana. Si tratta di un magistrato quieto, tranquillo. Un magistrato il cui nome lo si legge solo nella lunga lista dei giudici ammazzati dalla mafia. Si tratta di Alberto Giacomelli, aveva sessantanove anni quando venne freddato dal piombo di Cosa nostra. La notizia del suo assassinio lasciò allibiti i parenti e l’intera città, perché quello che era stato colpito in territorio di mafia, non era un acerrimo nemico delle cosche, uno che piombava, in prima linea, sulle indagini che vedevano imputati boss e picciotti di quartiere. A dirla tutta, non era neanche più un magistrato. Trapanese di nascita, Alberto Giacomelli trascorse più di quarant’anni della sua vita ad amministrare la Giustizia nell’hinterland dove era nato e aveva trascorso la sua giovinezza. Era stato pretore a Calatafimi ed era approdato a Trapani come sostituto procuratore, per poi rivestire la carica di presidente di sezione. Non si era quasi mai occupato di vicende di mafia; era stato un magistrato ordinario, un giudice “scarsamente aggiornato”, lo definì qualche collega, e nel 1987 decise di appendere la toga al chiodo e andarsene in pensione. Ciononostante, il 14 settembre del 1988, quindici mesi dopo il pensionamento, il corpo di Alberto Giacomelli fu ritrovato sulla strada provinciale che conduce a Trapani, accanto alla sua Fiat Panda; come dare una risposta agli interrogativi di famigliari e concittadini?

Quel giudice moderato e innocuo, anche se oggi è un perfetto sconosciuto per moltissimi, nel 1985 compì un gesto che, se non lo vogliamo definire eroico, possiamo quantomeno qualificarlo come coraggioso e onorevole: egli pose la sua firma per far sequestrare una casa di Mazara del Vallo intestata ad un certo Gaetano che di cognome faceva Riina e che di Totò era il fratello. Una firma che lo condannò a morte, perché il capo dei capi non perdonava nulla, tantomeno un torto alla sua famiglia. Il commando di morte partì alle otto di mattina del 14 settembre per raggiungere il giudice sulla provinciale, costringerlo a frenare e concedergli solo il tempo di rendersi conto che la vita stava davvero per abbandonare il suo corpo. Un uomo che non si aspettava di morire, un magistrato che non aveva sfidato a volto aperto Cosa nostra, ma un servitore dello Stato che quando il destino lo aveva posto dinanzi ad una prova di coraggio non si era tirato indietro. Non aveva badato ai nomi, Alberto Giacomelli. Aveva compiuto il suo dovere quando era stato chiamato a farlo e per questo fu ammazzato. Il suo non può restare un nome affisso al bordo di una strada, una storia caduta nell’oblio, ma deve diventare per tutti la testimonianza dell’aspetto brutale e vendicativo della mafia e deve indurre alla riflessione un popolo che dei nomi, specie di quelli dei potenti, pare avere sempre più paura.
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mercoledì 12 settembre 2012

12 Settembre 1988
Grazie Scimè casalinga

Grazia Scimè, casalinga uccisa a Gela il 12 settembre 1988 durante una sparatoria tra mafiosi appartenenti a famiglie rivali, da una pallottola vagante mentre si trovava nel mercato della città.

martedì 11 settembre 2012

11 Settembre 1945
Agostino D’Alessandro segretario della Camera del Lavoro di Ficarazzi

A Ficarazzi, nei pressi di Palermo, al centro della pianura coltivata ad agrumi, viene ucciso Agostino D'Alessandro, segretario della Camera del lavoro, che aveva cominciato una lotta contro la mafia dell'acqua. Era stato "invitato" a desistere ma aveva continuato la sua battaglia, all'interno della mobilitazione dei contadini che raccoglierà centinaia di migliaia di persone impegnate nella lotta per la riforma agraria e per la democrazia, scontrandosi duramente con la mafia. I mafiosi fanno sentir e tutto il peso del loro potere all'interno dei consorzi di irrigazione di nuova istituzione. L'esempio più noto è il consorzio dell'Alto e Medio Belice. Il consorzio istituto nel 1933, in pieno periodo fascista, abbracciava un comprensorio di circa 106.000 ettari ed era stato costituito per la realizzazione di una diga sul fiume Belice. Esso rimase inattivo fino al 1944, per l'opposizione della mafia, che temeva "che lo sviluppo dell'iniziativa poteva toglierle il monopolio dell' acqua e sovvertire l'ordine delle cose (campierato ed usura) fino ad allora sotto il suo diretto controllo. L'unica attività che il consorzio riesce a realizzare è la costruzione di strade che non è ostacolata dai mafiosi che organizzano la raccolta e la fornitura di pietre alle imprese di costruzione. Tra questi mafiosi c'è il giovane Luciano Liggio che costituisce una società di autotrasporti e non è contrario all'attività del consorzio intuendo che esso può offrire grandi opportunità. Infatti la costruzione di dighe sarà un ottimo affare per i mafiosi che sanno inserirsi accaparrandosi buona parte degli stanziamenti pubblici. Esemplare la vicenda della costruzione della diga Garcia sul Belice, chiesta a gran voce dai contadini e ottenuta dopo anni di lotte. Il capomafia Peppino Garda compra i terreni, ottiene finanziamenti per migliorare le coltivazioni e infine li rivende, a un prezzo di gran lunga superiore a quello d'acquisto, agli enti pubblici interessati alla costruzione della diga. Una speculazione studiata a tavolino pienamente riuscita grazie alle complicità delle istituzioni.
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lunedì 10 settembre 2012

10 Settembre 1981
Vito Ievolella 51 anni, carabiniere

Carabiniere, nato a Benevento il 4 dicembre 1929 e ucciso a Palermo il 10 settembre 1981. Dopo essersi arruolato nell’Arma dei Carabinieri, venne destinato alla Legione di Alessandria. Nel 1958 frequentò la scuola sottoufficiali di Firenze per poi essere trasferito a Palermo. A partire dal 1965 fu al nucleo investigativo del Comando, dove si distinse per serietà, dedizione e coraggio. Partecipò a molte delicate indagini che, grazie alle sue tecniche investigative, lo resero meritevole di sette encomi solenni e di ben 27 apprezzamenti del comandante generale dell’Arma. Fu ucciso in un agguato mafioso in piazza principe di Camporeale, mentre con la moglie aspettava la figlia Lucia impegnata in una lezione di guida. I killer l'hanno ucciso con sei colpi di pistola.
http://www.liberanet.org/wordpress/?p=158



I collaboratori di giustizia, Salvatore Cancemi e Salvatore Cucuzza, hanno aiutato gli inquirenti a far luce sul delitto. Per l'omicidio sono stati condannati all'ergastolo, con sentenza definitiva della Cassazione, il boss della Kalsa Tommaso Spadaro, considerato il mandante, e Giuseppe Lucchese, l'esecutore materiale.
Ievolella era diventato una persona scomoda, perché scomode erano le sue inchieste, come il rapporto che presentò su 45 persone accusate di associazione a delinquere, contrabbando di sigarette, traffico di droga e omicidi. Il maresciallo aveva capito che dietro il traffico di droga e di sigarette c'erano Tommaso Spadaro e il figlio Francesco. Il carabiniere ucciso viene ricordato dal parlamentare Ds Giuseppe Lumia come "non solo una figura esemplare di servitore dello Stato, ma anche uno straordinario investigatore che seppe conseguire importanti risultati contro Cosa nostra".
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lunedì 3 settembre 2012

3 Settembre 1995
Pier Antonio Sandri 19 anni, odontotecnico

Pierantonio era un ragazzo di 19 anni, odontotecnico, viveva con la madre a Niscemi, cittadina in provincia di Caltanissetta. La sera del 3 settembre 1995 succede qualcosa di inquietante. Il ragazzo non rientra a casa, di lui si perde ogni traccia, sparisce nel nulla. Iniziano le ricerche, ma niente. Si cerca in ogni modo di ricostruire il periodo precedente alla scomparsa per trovare dei collegamenti. L’unico dato che emerge è che una ventina di giorni prima di sparire, Pierantonio Sandri sarebbe stato coinvolto in una rissa durante una festa in piazza, ma fin da subito gli inquirenti hanno escluso ogni possibile nesso con la sua sparizione. Si comincia a pensare che forse Pierantonio “aveva visto qualcosa che non doveva vedere” e per questo, secondo qualcuno, andava eliminato. Le ipotesi si susseguono, ma non si trovano riscontri. Sembra incredibile ma una vita normale, di un ragazzo come tanti, improvvisamente diventa un mistero e di lui non si riesce a sapere più niente. Le estenuanti ricerche della madre, Ninetta Burgio, che si è sempre rifiutata di lasciare Niscemi con la speranza di ritrovare suo figlio, cercandolo in ogni angolo possibile, non portano a nulla. Passano giorni, mesi, anni. Eppure qualcuno doveva sapere com’erano andate le cose, ma non avvertiva il bisogno di parlare, di mettere fine alla tragedia di una madre disperata, che ha fermato il tempo per tutti questi lunghi anni.
Si susseguono gli appelli, in molti chiedono che qualcuno parli e dica dove si trova il corpo di Pier Antonio, per dare pace a lui e alla madre un luogo dove poter piangere il figlio. Ho conosciuto questa storia drammatica poco prima dell’estate, durante un comizio politico. Rosario Crocetta, allora sindaco di Gela in un suo comizio, raccontava di un ragazzo e dell’assurda vicenda che aveva coinvolto la sua famiglia. Quel racconto riassumeva stralci di una Sicilia disumana, terribile, dolorosa e ogni volta risuonava come un appello e un monito. Mi capitò ancora diverse volte di ascoltare questa vicenda, ma senza la capacità di riascoltare ciò che già conoscevo con indifferenza. Una storia che somiglia tanto ad un film, una pellicola di quelle in cui il finale è aperto, un finale che a volte non c’è.
Questa volta però non è andata così. Un pentito, dopo ben 14 anni ha fatto delle dichiarazioni indicando un luogo preciso in cui scavare. Li sono stati ritrovati dei resti. Dalle analisi è risultato trattarsi di Pierantonio Sandri.
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strage di Via Carini

3 Settembre 1982, Strage di via Carini
Carlo Alberto Dalla Chiesa 62 anni, generale dei carabinieri e prefetto di Palermo
Emmanuela Setti Carraro 32 anni, infermiera
Domenico Russo agente di scorta, morì il 17 Settembre per le ferite riportate

Carlo Alberto Dalla Chiesa (Saluzzo, 27 settembre 1920 – Palermo, 3 settembre 1982) è stato un generale, prefetto e partigiano italiano.
Nel 1982 viene nominato prefetto di Palermo, nel tentativo di ottenere contro Cosa Nostra gli stessi risultati brillanti ottenuti contro le Brigate Rosse. Dalla Chiesa inizialmente si dimostrò perplesso da tale nomina, ma venne convinto dal ministro Virginio Rognoni, che gli promise poteri fuori dall’ordinario per contrastare la guerra tra le cosche che insanguinava l’isola. Il 12 luglio nella cappella del castello di Ivano Fracena, in provincia di Trento, sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro. A Palermo, dove arrivò ufficialmente nel maggio del 1982, lamentò più volte la carenza di sostegno da parte dello stato (emblematica la sua amara frase: “Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì”).

In una intervista rilasciata a Giorgio Bocca, il Generale dichiarò ancora una volta la carenza di sostegno e di mezzi, necessari per la lotta alla mafia, che nei suoi piani doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese la massiccia presenza di forze dell’ordine alla criminalità. Comincia ad ottenere i primi successi investigativi, con i carabinieri che irrompono durante un blitz e arrestano 10 boss corleonesi, e successivamente scoprono e smantellano una raffineria di eroina. Nel giugno del 1982 riesce a sviluppare, come già aveva fatto in passato, una sorta di mappa dei boss della nuova Mafia, che chiama rapporto dei 162. Poi inizia una lunga serie di arresti, di indagini, anche in collaborazione con la Guardia di Finanza, che hanno come obiettivo quello di appurare eventuali collusioni tra politica e Cosa Nostra.
Per la prima volta, con una telefonata fatta ai carabinieri di Palermo a fine agosto, Cosa Nostra sembrò annunciare l’attentato al Generale, dichiarando che dopo gli ultimi omicidi di mafia l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa.
Alle ore 21.15 del 3 settembre del 1982, la A112 bianca sulla quale viaggiava il prefetto, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata, in via Isidoro Carini, a Palermo, da una BMW dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47 che uccisero il prefetto e la giovane moglie.
Nello stesso momento l’auto, con a bordo l’autista e agente di scorta, Domenico Russo, che seguiva la vettura del prefetto, veniva affiancata da una motocicletta dalla quale partì un’altra raffica che uccise Russo.
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L’omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa si iscrive in un contesto oscuro, e decisamente inquietante.
Il generale, uomo delle istituzioni come pochi altri, che aveva dedicato la vita all’arma dei carabinieri e aveva combattuto con successo il terrorismo rosso, andò a Palermo come prefetto sull’onda di contrasti interni all’Arma stessa, dove era stato relegato a un ruolo secondario.
Era sicuramente un personaggio scomodo, inflessibile e per nulla incline ai compromessi, deciso a difendere in ogni modo le istituzioni di cui si sentiva primo rappresentante e responsabile.
Fu inviato a Palermo e già andandoci sapeva di non avere un appoggio politico compatto, quello stesso appoggio che gli aveva consentito di combattere con successo l’eversione.

Dalla Chiesa non aveva scorta, e il figlio Nando afferma che questa era una scelta precisa, una strategia: non poteva mostrare di temere per la propria vita se voleva infondere coraggio nei cittadini. A Palermo cominciò ad andare nelle scuole, parlò con i sindaci della provincia, cercò insomma di creare intorno a sé un contesto civile di lotta alla mafia, consapevole che non l’avrebbe sconfitta se non rendendo evidente e palpabile che lo Stato c’era, era presente e avrebbe combattuto. Nella famosa intervista a Giorgio Bocca dichiarò: “Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati.”.
Anche quell’intervista faceva parte della sua strategia, sempre secondo il figlio Nando, in pratica stava mettendo in chiaro i suoi intenti, giocava a carte scoperte per chi doveva capire. E chi doveva capire lo lasciò – volutamente – solo. Basta leggere quest’articolo di Saverio Lodato, dove il giornalista rievoca i retroscena dell’intervista che il generale gli concesse, le difficoltà che incontrò per parlare con lui, per rendersi conti delle forze che si combattevano intorno a quest’uomo integerrimo e scomodo.

Scrisse il generale nel suo diario, in merito alla sua nomina a prefetto in Sicilia (la citazione è tratta dagli atti del maxiprocesso):
“Mi sono trovato […] al centro di una pubblica opinione che ad ampio raggio mi ha dato l’ossigeno della sua stima e di uno Stato che affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa, ma all’uso e allo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti; che poi la mia opera possa divenire utile, tutto è lasciato al mio entusiasmo di sempre, pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi, pronti a lasciarmi solo nelle responsabilità che indubbiamente deriveranno e anche nei pericoli fisici che dovrò affrontare”.

Parole amarissime, e molto lucide, che dicono quanto avesse chiaro il quadro della pericolosità non tanto della stessa mafia, ma dei poteri politici che erano ad essa contigui, in primis Andreotti, con il quale nel diario registra un incontro che il senatore ha poi sempre negato (Dalla Chiesa doveva essere matto a registrare nel diario, e a parlare con il figlio Nando, di un incontro mai avvenuto, ma tant’è). Dice Dalla Chiesa:
“sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori”.
Nell’intervista a Bocca dichiarò “Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è isolato.”

Il giudice Scarpinato, in Il ritorno del Principe, afferma: “una molteplicità di fatti convergenti mi induce a ipotizzare che la strage di via Carini rientrasse nel «gioco grande» per interessi superiori che solo in parte convergevano con quelli dell’alta mafia”.
La base militare della mafia, come commentarono poi gli uomini d’onore, subì mugugnando un ordine che veniva dall’alto, anche perché nei suoi centoventi giorni di insediamento Dalla Chiesa non si era interessato a loro. Pare che prima di morire Ciancimino abbia dichiarato che i cugini Salvo gli avevano detto che quella strage era stata voluta dall’alto e la mafia aveva dovuto accollarsi sia l’organizzazione dell’attentato sia le sue conseguenze, perché si addossò tutta la colpa.
Quella strage è atipica per molti versi: non rispondeva agli interessi della mafia militare, fu preceduta e seguita da una serie di telefonate a giornali locali che ne annunciavano la messa in atto e la conclusione (mai era accaduto e mai accadrà poi che Cosa Nostra annunciasse e poi rivendicasse pubblicamente un omicidio), fu uccisa volutamente la moglie del generale (i killer girarono intorno all’auto per spararle), mentre di solito l’uccisione di donne era sempre stata accidentale, perché si trovavano insieme al marito quando l’attentato era stato eseguito.
Anzi, recentemente sempre Scarpinato affermato che Emmanuela sia stata volutamente uccisa per impedire che rendesse pubblici i documenti del marito. Dice Scarpinato: “Emanuela Setti Carraro non morì perché si trovava nella traiettoria di sparo di Carlo Alberto Dalla Chiesa: i killer fecero il giro della macchina e la uccisero venendo meno alla tradizione che negli omicidi di mafia le donne non si uccidono se non necessario. Quindi bisognava tappare la bocca a una possibile testimone di documenti scottanti.”.

La madre di Emanuela Setti Carraro dichiarerà al processo Andreotti che la figlia le aveva detto di essere a conoscenza di fatti gravissimi. Non solo, la cameriera dei Dalla Chiesa dichiarò di avere assistito a una conversazione fra i coniugi dove il marito diceva ad Emanuela “se mi succede qualcosa tu corri dove tu sai e prendi quello che c’è, quello che sai tu”.
Immediatamente dopo l’omicidio e prima dell’arrivo dei magistrati qualcuno si introdusse nel loro appartamento e svuotò la cassaforte.

Leggere e revocare quest’omicidio mi fa sentire impotente, impotente verso quello che Falcone chiamava “il gioco grande”, dove un uomo tutto d’un pezzo e disposto a sacrificare tutto fu invece sacrificato in nome di interessi occulti e oscuri, che continuano a minare alle fondamenta questo nostro disgraziato paese.

Ora vorrei ricordarlo con le parole di un giornalista, Saverio Lodato, molto più bravo di me a raccontarlo, di un magistrato che con lui lavorò, Gian Carlo Caselli e di suo figlio, Nando Dalla Chiesa, o meglio con lo sguardo di un giovane carabiniere…
«Ma chi crede di essere? Nembo Kid?», fu questo il primo saluto che la Palermo mafiosa e paramafiosa rivolse al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa qualche giorno dopo il suo insediamento come prefetto in una città sconvolta dall'uccisione di Pio La Torre segretario del PCI siciliano. "Nembo Kid" era molto noto alle cronache italiane dell'epoca, essendo stato l'uomo forte contro il terrorismo, il carabiniere, come diceva di se stesso, che aveva gli alamari «cuciti sulla pelle». Su esplicita richiesta del presidente del consiglio Giovanni Spadolini e del ministro degli interni Virginio Rognoni, Dalla Chiesa si insediò a Villa Whitaker, sede della Prefettura, con sei giorni di anticipo, proprio perché la mafia, avendo assassinato La Torre, si stava preparando all'ennesima escalation contro i rappresentanti dello Stato in terra di Sicilia. Iniziò così il calvario dei suoi "cento giorni a Palermo", che anni dopo sarebbe diventato il titolo del film di Giuseppe Ferrara sulla sua tragica fine. Cento giorni spesi a cercare di dipanare la matassa della nuova mafia. Mafia, sia detto per inciso, che "Nembo Kid" aveva avuto modo di conoscere quando negli anni 60 aveva guidato i nuclei antibanditismo proprio a Corleone, quella "Mafia Town" da cui stavano già spiccando il volo i boss che presto avrebbero imposto il loro dominio su Cosa Nostra. Cento giorni trascorsi a scartabellare vecchi rapporti, vecchi dossier di intelligence, nella convinzione - come disse apertamente nella sua prima conferenza stampa a Palermo - che non ci fosse nulla di nuovo sotto il sole, e che la drammatica attualità di quei giorni affondasse le sue radici nei decenni precedenti quando lo Stato aveva lasciato incancrenire le piaghe del fenomeno criminale denominato "mafia". Cento giorni, però, anche spesi in un martellante appello all'opinione pubblica cittadina affinché venisse rotto il muro dell'omertà e si desse finalmente un briciolo di fiducia agli uomini nuovi che per la prima volta cercavano di opporsi allo strapotere delle cosche. In poche parole: furono i cento giorni di un "uomo solo". Un uomo solo che prendeva il taxi per tentare di non dare nell'occhio. Un uomo solo che non accettò mai un invito a colazione dagli esponenti di quei salotti che pur definendolo dietro le spalle un arrogante "Nembo Kid" ben volentieri lo avrebbero frequentato per prendergli più facilmente le misure. Un uomo solo che persino in Prefettura veniva visto da funzionari e sottoposti, per la prima volta costretti a lavorare per davvero, come fumo negli occhi. E la mafia? La mafia in quei giorni gli faceva trovare cadaveri a ogni angolo di strada. Delimitava il "suo" territorio a colpi di calibro 38 e raffiche di kalashnikov, come i cani delimitano il territorio facendo la pipì. Non era difficile intuire che l'uomo solo non sarebbe andato lontano.
Saverio Lodato 3 Settembre 2005, L’Unità
Per anni, dovendomi occupare (Giudice istruttore a Torino) di «Brigate rosse» e «Prima linea», ho avuto l'opportunità di lavorare fianco a fianco con il generale Dalla Chiesa e con i suoi uomini. Dire che ho imparato da loro un sacco di cose è persino banale. Mi limito a ricordarne una per tutte: la capacità di mettersi in gioco direttamente, di spendersi senza risparmio, di provare sempre a governare le situazioni senza subirle.
Più volte mi è capitato di dovermi recare d'improvviso, magari in piena notte, nella caserma in cui erano custoditi
(per i necessari sviluppi investigativi) i reperti rinvenuti nei covi ancora «caldi». Quasi sempre trovavo il generale nel suo ufficio, intento a piantare e spostare bandierine multicolori su un'enorme carta topografica, seguendo un suo disegno d'intervento sul territorio: segno che non staccava mai e che con l'esempio sapeva motivare come pochi altri i suoi collaboratori.
Ciò premesso - ricordando anche quest'anno la strage di mafia del 3 settembre del 1982 che causò la morte del generale, della moglie Emanuela e del loro autista Domenico Russo - vorrei tracciare di Carlo Alberto Dalla Chiesa un ritratto non troppo convenzionale.
Prima di tutto occorre dire che era un carabiniere tutto d'un pezzo.
Spesso amava dire che gli alamari se li sentiva cuciti sulla pelle, più che sulla divisa. Ma il rispetto della gerarchia militare non gli impediva di essere intelligentemente duttile. Quando le Br sequestrarono il giudice Sossi (1974), venne istituito un Nucleo speciale -di fatto comandato da Dalla Chiesa – con l'incarico di individuare gli autori di quello specifico delitto. Ebbene, Dalla Chiesa in un certo senso «disobbedì», perché non si limitò a cercare i sequestratori. Quel che si mise a cercare erano le Br come gruppo organizzato, in forza di un’intuizione vincente ma per quei tempi rivoluzionaria (mai nessuno l'aveva fatto prima). Solo ricostruendo le caratteristiche logistiche
ed operative della banda armata si sarebbero potuti «decifrare » i singoli delitti (sequestro Sossi compreso), altrimenti destinati a restare avulsi dal contesto che li aveva prodotti e perciò perennemente avvolti nel buio. «Disobbedendo», le Br Dalla Chiesa le trovò davvero e le disarticolò in profondità, contribuendo in modo determinante alla cattura e condanna dei «capi storici», responsabili anche del sequestro Sossi.
Carabiniere a 24 carati, professionista della repressione nel rispetto delle regole, sapeva anche che polizia e magistratura - da sole – contro il crimine organizzato non possono tutto. Aveva constatato, a Torino, come l'inizio del declino dell'eversione brigatista fosse coinciso con la stagione delle assemblee che in progresso di tempo (spazzando via ambiguità o contiguità scaturenti dalla miope, se non peggio, teorizzazione dei «compagni che sbagliano») aveva contribuito al decisivo isolamento politico dei terroristi. Sapeva bene, quindi, quanto sia fondamentale coinvolgere la società civile, per renderla consapevole dei terribili guasti che la violenza organizzata produce sulla qualità della vita di ciascun cittadino. Non è un caso, allora, che il carabiniere - una volta nominato superprefetto antimafia a Palermo - abbia impiegato gran parte dei 100 giorni trascorsi in questa città ad incontrare studenti (dalle elementari all'università), familiari di giovani con problemi di tossicodipendenza e maestranze dei cantieri navali. E si spiega anche come sia stato non un sociologo ma proprio
quel carabiniere tutto d'un pezzo, uno «sbirro» nato (uso il termine, ovviamente, con assoluto rispetto), a lasciarci in eredità un insegnamento che costituisce ancora oggi una pietra miliare nella lotta alla mafia. Quello secondo cui per sconfiggere la mafia occorre anche «un abile, paziente lavoro psicologico per sottrarle il suo potere ». Perché«gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti».Diritti da assicurare, se si vuole «togliere potere alla mafia» e fare «dei suoi dipendenti i nostri alleati» (così in un'intervista resa dal gen. Dalla Chiesa a Giorgio Bocca pochi giorni prima del suo assassinio).
Nello stesso tempo, nessuno come Dalla Chiesa sapeva essere «nei secoli fedele» (alla legge, allo stato, al dovere, all'interesse pubblico...). Nel senso del rifiuto di ogni compromesso, di ogni tentazione all'accomodamento e al quieto vivere, anche quando si dovessero effettuare scelte o percorrere strade non proprio gradite «in alto loco». Furono i suoi uomini, ad esempio, che arrestarono in Francia il figlio di un potente uomo politico dell'epoca, rifugiatosi all'estero non appena il «pentito» Roberto Sandalo cominciò a picconare «Prima linea», rivelando identità e ruoli di tutti i militanti che conosceva, fra cui il «comandante Alberto» (nome di battaglia di MarcoDonat Cattin).
Nel diario di Dalla Chiesa si legge che fu lui personalmente- in occasione dell'insediamento come prefetto di Palermo - ad ammonire Giulio Andreotti che non avrebbe avuto riguardi per gli uomini della sua corrente operanti in Sicilia, già allora «chiacchieratissimi» per i loro rapporti con mafia e dintorni.
Coloro che hanno lo stomaco forte e riescono a digerire tutto o quasi in tema di rapporti fra mafia e politica dovrebbero avere il buongusto – almeno oggi -di astenersi dal celebrare il sacrificio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sarebbero voci stonate, decisamente incompatibili con la grandezza dell'uomo caduto a Palermo 24
anni fa e con il rispetto dovutogli.
Gian Carlo Caselli, 3 Settembre 2009, L’Unità
Mi vien da dire che morire per uno Stato come l’ho rivisto io nel mio lavoro estivo è quasi una follia. Che vadano a fottersi le istituzioni di Mannino, di Cuffaro, di Dell’Utri, dei giornalisti servi, dei parlamentari della sinistra che regalarono alla mafia tra il ’96 e il 2001 leggi e provvedimenti di favore come se piovesse. Poi mi dico che per uno che ci crede anche morire è assolutamente normale. E che guai se ci domandassimo ogni volta che facciamo qualcosa di coraggioso se ne valga la pena oppure no. Me lo dico e me lo nego e poi me lo ridico. […]

Ieri però mi ha restituito tutto un giovane maresciallo dei carabinieri, poco più che trentenne. Sono andato a trovare un investigatore importante per chiarirmi alcune ipotesi delicate del mio libro. Il maresciallo è sceso ad accogliermi. Gli ho chiesto scusa del disturbo, lui mi ha detto “per me è un onore”. Quando me ne sono andato mi ha detto “agli ordini”, e ho capito dal suo sguardo che lo stava dicendo al generale che non ha mai conosciuto.
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