giovedì 31 gennaio 2013

1 Febbraio 1893
Emanuele Notarbartolo 59 anni, politico siciliano della destra storica

Il caso Notarbartolo è importante per comprendere sia la continuità delle dinamiche con cui lo Stato italiano ha affrontato il fenomeno mafioso nei suoi 150 anni di storia, sia il contesto in cui questo fenomeno si muove e prospera.
Un contesto fatto di corruzione, collusione, complicità e coperture reciproche tra mafia e una parte della politica.
Nel leggere la storia di questo primo delitto eccellente per mano mafiosa non possono non farsi paralleli con centinaia di situazioni attuali che abbiamo vissuto negli anni e che ho cercato in parte di ricordare in queste pagine.
La continuità dei reati commessi e dei sistemi utilizzati per coprirli è a un tempo impressionante e deprimente.
Impressionante perché appare come un continuum dalla matrice ben nota e sempre applicata da una parte del potere politico; deprimente proprio a causa di questa continuità, che rende evidente quando il fenomeno mafioso sia in qualche modo organico a un certo modo di intendere l’esercizio del potere in Italia.

Mi dilungherò un po’ su questo caso, spero abbiate la pazienza di leggere.

Nel link da cui ho preso quasi tutto il testo che segue è presente anche un’ampia premessa che inserisce l’omicidio Notarbartolo nel più ampio contesto degli scandali finanziari che colpirono il giovane Stato italiano, a partire da quello della Banca di Roma. Vi consiglio di leggerlo.
Le premesse
Il primo febbraio 1893, su un treno proveniente da Messina, in una galleria nel tratto fra Termini Imerese e Trabia, veniva brutalmente ucciso con ventisette coltellate Emanuele Notarbartolo.

Per cercare di capire questo fatto di sangue che, per la prima volta, aveva visto come protagonisti un uomo politico e la mafia, è necessario chiedersi chi fosse Notarbartolo e quale fosse il suo ruolo nel contesto storico politico siciliano e italiano.

Notarbartolo era un politico siciliano, della destra storica, uomo ritenuto eccellente per onestà e abilità amministrativa. Marchese di San Giovanni, discendente dei duchi di Villarosa, Emanuele Notarbartolo fu sindaco di Palermo dal 1873 al 1876 e durante il suo mandato trasformò la città in un grande cantiere completando il mercato degli Aragonesi, la copertura del Politeama, iniziando l’ammodernamento della rete viaria, collegando la stazione centrale con il porto, e posando la prima pietra per la realizzazione del teatro Massimo. Ma soprattutto durante il suo mandato e nonostante il fermento edilizio, combatté il fenomeno della corruzione e risanò le finanze comunali, attirandosi per questo molti nemici i quali cercarono in ogni modo di isolarlo. Alla fine del suo mandato, nel 1876, Notarbartolo viene nominato direttore del Banco di Sicilia, incarico che manterrà sino al 1890, dimostrando anche in questo ruolo onestà ed integrità morale e grandi competenze amministrative .

La situazione del Banco di Sicilia all’arrivo di Notarbartolo era disastrosa e l’istituto si trovava sull’orlo del fallimento per via di speculazioni azzardate e un’amministrazione spericolata, che aveva permesso l’utilizzo agli speculatori di un capitale di otto milioni e ottocento mila lire e di una riserva aurea di tredici milioni. Per risanare l’istituto, Notarbartolo introdusse un regime di austerità, invitando i direttori delle sedi a far rientrare i clienti scoperti e a consentire crediti solo ai titoli protetti da solide garanzie. Non solo, ma permise di denunciare i nomi degli speculatori all’allora Ministro dell’Agricoltura Miceli. Allo stesso tempo apportò modifiche allo statuto dell’istituto, in modo da allontanare le componenti politiche in favore di quelle essenzialmente commerciali. Questo inasprì ancora di più gli animi dei suoi nemici e soprattutto di don Raffaele Palizzolo. Chi era costui? Era un pezzo da novanta e un membro del Consiglio d'amministrazione del Banco di Sicilia, con cui il marchese Notarbartolo si era più volte scontrato in passato, per aver cercato di ostacolarne le spregiudicate operazioni finanziarie. Palizzolo, soprannominato “U cignu” (il cigno) era un politico ed uomo di spicco: consigliere comunale e provinciale, amministratore fiduciario di enti di beneficenza e di banche, direttore del fondo di assicurazione contro le malattie per la Marina Mercantile, capo della Sovrintendenza dell'amministrazione di un manicomio, nonché deputato da sempre fedele sostenitore di governi di qualsiasi raggruppamento. Passando indifferentemente da destra a sinistra come ben si conviene a chi ambisce al potere personale. Così facendo, da ricco proprietario ed affittuario di terre, si era ancor più arricchito ed aveva messo le mani in pasta in qualsiasi affare. Palizzolo era al tempo stesso amico di mafiosi e banditi, di poliziotti, magistrati e personaggi politici di grosso calibro. Come un antico senatore romano, era solito ricevere ogni mattina nella sua camera da letto tutti coloro che avessero richieste da fargli.
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L’omicidio
Nella tarda mattinata del 1° Febbraio 1893, dopo due giorni di viaggio a cavallo da Mendolilla [la tenuta di famiglia], Emanuele Notarbartolo salì alla stazione di Sciara in uno scompartimento di prima classe per Palermo. Lo scompartimento era vuoto. A quel punto poté finalmente rilassarsi. Durante i dieci anni successivi al sequestro [era stato sequestrato da dei banditi nel 1882, ndr] era sempre stato prudentissimo (in campagna non si spostava mai senza un’arma), ma non s’era mai sentito di banditi che avessero organizzato un assalto a un treno; scaricò quindi il fucile e lo sistemò con cura nella reticella portabagagli. E sopra il fucile gettò l’impermeabile, il cappello e la cartucciera. Infine si sedette in modo da guardare fuori dal finestrino, in attesa del sonno, o di veder comparire il mar Tirreno, che l’oscurità andava gradatamente avviluppando, dopo la svolta del treno verso ovest. Il viaggio sarebbe poi proseguito lungo la costa.
Notarbartolo rimase solo fino alla stazione successiva, Termini Imerese. Qui fu visto rannicchiato in un angolo dello scompartimento in uno stato di dormiveglia, come se la fermata l’avesse scosso dal sonno. Il treno lasciò Termini Imerese alle diciotto e ventitré, con un ritardo di tredici minuti. Poco prima che si rimettesse in movimento, erano saliti due uomini in soprabito scuro e bombetta.
Il vicecapostazione diede il segnale di partenza. Mentre le carrozze cominciarono a muoversi, frugò con lo sguardo gli scompartimenti di prima classe: sapeva che in uno di essi viaggiava un amico, un ingegnere ferroviario. Ma la sua attenzione fu attratta da un’altra persona, in piedi nello scompartimento che precedeva quello dell’amico. Era un uomo ben vestito, tarchiato e vigoroso. Sotto il cappello si scorgeva una faccia larga e pallida, sopracciglia folte, occhi scuri e baffi neri. L’aspetto e il portamento dell’uomo aveva qualcosa di sinistro che colpì il vicecapostazione, in quale avrebbe detto in seguito che il passeggero sembrava immerso in pensieri cupi.
L’autopsia e le condizioni dello scompartimento all’arrivo del treno a Palermo, permisero di ricostruire gli ultimi terribili momenti di Emanuele Notarbartolo. Quando il treno entrò nella galleria tra Termini Imerese e Trabia, fu aggredito da due uomini, uno dei quali brandiva un pugnale triangolare e l’altro un coltello a lama larga a doppio taglio, col manico d’osso. Bruscamente risvegliato dal suo assopimento, Notarbartolo si dibatté nel tentativo di sottrarsi a balzi alla gragnola dei colpi. In qualche caso le lame lo mancarono, producendo tagli profondi nel sedile e nel poggiatesta. Prossimo a compiere cinquantanove anni, il marchese era tuttavia un uomo grande e grosso, un ex militare. Mentre il frastuono prodotto dal treno nella galleria copriva le sue grida, riuscì ad afferrare uno dei coltelli. Quindi si lanciò disperatamente verso il fucile nella reticella sopra la sua testa. Una lama gli penetrò nell’inguine. La mano e la reticella furono entrambe squarciate dai colpi. Una palma insanguinata lasciò la sua impronta sul vetro del finestrino. A questo punto uno dei killer tenne fermo Notarbartolo da dietro, mentre l’altro gli piantava quattro profonde coltellate nel petto. Le pugnalate furono in tutto ventisette.
John Dickie, Cosa Nostra, storia della mafia siciliana

Le prime indagini
Le prime indagini si concentrarono subito sul conduttore del treno, Giuseppe Carollo e su un certo Giuseppe Fontana, killer professionista e capo della cosca di Villabate. In seguito alla testimonianza di un carabiniere, che dichiarò di essere venuto a conoscenza di un brindisi tenuto da un gruppo di mafiosi in una tenuta di proprietà dell’on. Palizzolo per festeggiare la morte di Notarbartolo, si sospettò subito che il mandante dell'omicidio fosse il deputato Raffaele Palizzolo che, come membro del consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia, si era ripetutamente scontrato con Notarbartolo. Lo stesso Notarbartolo, inoltre, sospettava fondatamente che fosse stato lui il mandante del suo sequestro, avvenuto nel 1882.

I numerosi indizi raccolti sugli esecutori materiali dell'omicidio, tutti collegati a Palizzolo, non furono però ritenuti sufficienti dal Tribunale di Palermo, che emise una sentenza di assoluzione nei confronti di tutti gli imputati, senza sentire neppure come teste il Palizzolo e, grazie alle molteplici protezioni di cui godeva il sospetto, il caso fu insabbiato.

Qualche tempo dopo un detenuto, Augusto Bartolani, dichiarò sotto giuramento che responsabili del delitto Notarbartolo erano i ferrovieri Carollo e Fontana. Tali dichiarazioni obbligarono la magistratura di Palermo a riaprire il caso, ma anche stavolta il Fontana fu assolto per insufficienza di prove, mentre Carollo e un certo Baruffi, anch’egli ferroviere, furono rinviati a giudizio. Il figlio della vittima, Leopoldo, che si era sempre battuto per ottenere giustizia, riuscì a mobilitare l’opinione pubblica, coadiuvato dai deputati Colajanni e De Felice Giuffrida, e, costituendosi parte civile, ottenne il rinvio del processo a Milano per legittima suspicione.
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Appare la parola “mafia”
Leopoldo Notarbartolo denunciò in tribunale la corruzione del Banco di Sicilia e i suoi sospetti su Raffaele Palizzolo, con cui il padre si era più volte scontrato. Le carte processuali dimostrano senza ombra di dubbio che la mano omicida fu mafiosa e che il Palizzolo aveva stretti legami con la malavita palermitana e trapanese, a favore della quale egli si era impegnato più volte per ottenere scarcerazioni e riduzioni delle pene, in cambio di voti. Il processo di Milano, inoltre, evidenziò un sistema di corruzione generale che coinvolgeva le istituzioni dello Stato. Divennero in tal senso imputati la mafia e le istituzioni statali presenti in Sicilia. Fu questa la prima volta che l’opinione pubblica sentì parlare di “mafia” come organizzazione malavitosa associata al territorio siciliano.

Il processo di Milano si concluse con la condanna degli autori materiali del delitto. Gli eventuali mandanti non furono neanche presi in considerazione.

Il vero processo a carico di Palizzolo si poté svolgere dinnanzi alla Corte d’Assise di Bologna nell’autunno 1901, dopo che l’anno precedente era giunta l’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento nazionale. Palizzolo era diventato “l’onorevole padrino”, il simbolo dei connubi fra mafia e politica. Dalla Corte bolognese Palizzolo fu condannato, insieme a Fontana, a trenta anni di carcere.
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Il comitato pro Sicilia
Intanto il clima di generale indignazione e di superficiale classificazione nei confronti della Sicilia, che si era instaurato nel nord Italia durante i processi portò all’esplosione di reazioni di protesta da parte dei siciliani, tra i quali anche intellettuali come Pitrè e De Roberto. Essi, infatti, costituirono un Comitato pro-Sicilia per riscattare l’isola da tali infamie. Renda (Storia della mafia, pag. 163) scrive: Il “Comitato pro Sicilia” non ebbe però gli sviluppi che i suoi promotori certamente si aspettavano. Sul piano organizzativo si estese in tutta l’isola, costituendo nelle varie province ben 60 sezioni e raccogliendo 200 mila adesioni. Sul piano politico il suo principale successo fu, invece, solo l’annullamento della condanna del Palizzolo".

Il [membri del] comitato Pro-Sicilia non aveva[no] in realtà lo scopo dell’annullamento della condanna del Palizzolo ma,[…] volevano riscattare la Sicilia da quel marchio di mafiosità che già fin dal processo di Milano era stato attribuito al nostro territorio, volevano evitare che il termine “mafia” potesse connotare tutti i siciliani, anche i siciliani onesti. Tali proteste, unite all’interessamento da parte di Cosa Nostra della vicenda Palizzolo, portarono alla inattivazione della sentenza bolognese. Sei mesi dopo infatti la Corte di Cassazione annullò la sentenza bolognese per un vizio di forma, fissando un nuovo processo presso la Corte di assise di Firenze. Qui il nuovo processo cominciò il 5 Settembre 1903, oltre dieci anni dopo l’assassinio Notarbartolo e sentenziò l’assoluzione di Don Raffaele e del coimputato Fontana per insufficienza di prove. Raffaele Palizzolo ritornò a Palermo su una nave, accolto trionfalmente, riprese le sue vecchie abitudini con le consuete udienze nella camera da letto e fu nuovamente candidato al parlamento nazionale alle elezioni del Novembre 1905. Ma fu il canto del cigno. Palizzolo non venne rieletto ed uscì per sempre di scena. Giuseppe Fontana, l’altro imputato, emigrò in America dove si arruolò nelle fila della nascente Cosa Nostra.[…]

Gli sviluppi e la conclusione del caso Notarbartolo sono ancora oggi esemplari di cosa siano gli equilibri politici che bisogna mantenere per curare gli interessi economici ed il potere in senso lato. Ne “Il ritorno del Principe”, Saverio Lodato e Roberto Scarpinato scrivono “un eventuale condanna definitiva di Palizzolo era, dunque, incompatibile con gli equilibri politici esistenti? Direi proprio di sì.” E ancora: “L’assoluzione del Palizzolo non era un’eccezione, ma un caso paradigmatico di quella che era la normalità” invece “La consegna di mafiosi dell’ala militare, (il Fontana, esecutore materiale del delitto) mediante patteggiamento all’interno della classe dirigente con gli esponenti dell’alta mafia è sempre rientrata, nelle tradizioni del sistema mafioso” (pag 207).

Depretis, alcuni anni prima, nell’ottica di questi equilibri politici, per mantenere un assetto di potere “che ripartisce le potestà sovrane dello Stato tra borghesia industriale del Nord e classe dirigente meridionale” (Il ritorno del Principe pag. 202), aveva rifiutato di emanare il decreto ministeriale necessario a dare esecuzione all’articolo 7 della legge di Pubblica Sicurezza, con il quale si disponeva che per esercitare la funzione di guardia campestre occorreva avere la fedina penale pulita. Una norma necessaria per contrastare la mafia. A questo proposito scrive Renda (Storia della mafia, pag 125): “Esisteva la legge , ma si faceva in modo che per legge non fosse impedito che il mafioso fosse campiere, curatolo o guardiano”. Caso emblematico del prevalere della logica degli equilibri politici era stato anche quello del procuratore generale Tajani, del mandato di cattura da lui fatto spiccare contro il questore Albanese e degli ostacoli e mancato sostegno che gli furono opposti dalle autorità governative locali e dallo stesso Ministero, delle sue dimissioni dalla magistratura in senso di protesta. (vedi ai nostri giorni De Magistris, Forleo, etc!) Giuseppina Ficarra
Appena ieri, nel 2008, viene respinta a larghissima maggioranza la proposta di impedire che facciano parte della Commissione Parlamentare Antimafia soggetti inquisiti per mafia e di detta Commissione entrarono a fare parte soggetti condannati per fatti di corruzione con sentenza definitiva. (Il ritorno del Principe pag. 48)
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31 Gennaio 1919
Giovanni Zangara assessore comunale socialista

L’assessore comunale Giovanni Zangara, incaricato nel 1919 della distribuzione del petrolio, fu ucciso perché si rifiutò di fornire a Michelangelo Gennaro, nuovo capomafia del paese, un certo quantitativo di combustibile delle affittanze collettive e per «liberare » il municipio dall’amministrazione ’rossa’. Il clima per la resa dei conti era propizio. Infatti, sia la cooperativa socialista ’Unione agricola’, sia l’amministrazione comunale annaspavano nella drammatica crisi post-bellica. La guerra aveva privato la campagna di gran parte della manodopera, mentre il poco grano prodotto era in gran parte requisito dalle autorità per sfamare le città. Inutilmente il sindaco Carmelo Lo Cascio chiese alla prefettura di Palermo l’aumento della quantità di frumento da lasciare ai contadini. Lo stesso petrolio scarseggiava, per la chiusura delle fabbriche e la requisizione fatta dal governo.
Il comune ne gestiva piccoli quantitativi per esigenze pubbliche e per distribuirlo alla povera gente. A Corleone, proprio questa cronica mancanza di petrolio fu il pretesto per un altro clamoroso delitto politico-mafioso. Nei primi giorni di gennaio del 1919, l’assessore Giovanni Zangara, incaricato della sua distribuzione, fu chiamato da Michelangelo Gennaro, nuovo capomafia del paese, che gliene chiese un certo quantitativo per la sua masseria. «Mi dispiace - gli rispose deciso l’assessore – ma non te ne posso dare perché non rientri tra le famiglie aventi diritto». Il Gennaro, che si aspettava maggiore rispetto dagli inquilini del municipio, considerò quel diniego un affronto alla sua autorità, da punire in maniera esemplare. Il 29 gennaio 1919, all’imbrunire, tre persone si appostarono in via Marsala, aspettando Zangara. E vistolo arrivare dall’angolo della strada, gli spararono contro numerosi colpi di pistola. L’assessore cadde a terra, ferito gravemente. Fu trasportato in ospedale da alcuni passanti, dove morì un paio d’ore dopo.
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martedì 29 gennaio 2013

29 Gennaio 1921
Giuseppe Compagna consigliere comunale socialista

A Vittoria (Ragusa) combattenti di orientamento nazionalista, fascisti e il gruppo mafioso locale devastano il circolo socialista e sparano sui lavoratori, provocando la morte di Giuseppe Compagna, consigliere comunale socialista.

lunedì 28 gennaio 2013

28 Gennaio 1946. La strage di Feudo Nobile
Vincenzo Amneduni brigadiere
Vittorio Levio carabiniere
Emanuele Greco carabiniere
Pietro Loria carabiniere
Mario Boscone carabiniere
Mario Spampinato carabiniere
Fiorentino Bonfiglio carabiniere
Mario La Brocca carabiniere

A Niscemi operava dal 1943 una pericolosa banda criminale che per diversi mesi divenne compagna di strada del movimento separatista siciliano, prima di essere ripudiata dagli stessi separatisti per la ferocia dei suoi delitti. Nel 1946 il capo di questa banda era Salvatore Rizzo che organizzò un agguato per attaccare la caserma di Feudo Nobile (Gela). Una denuncia per pascolo abusivo costrinse un brigadiere e quattro carabinieri a uscire per un sopralluogo. Erano il brigadiere Vincenzo Amenduni, i carabinieri Vittorio Levio, Emanuele Greco, Pietro Loria e Mario Boscone. Dopo il sopralluogo mentre stavano per tornare in caserma furono attaccati dalla banda criminale, tentarono di resistere rifugiandosi in una cascina, ma quando finirono le munizioni vennero catturati e disarmati dai banditi che, non contenti, diedero l’assalto alla caserma per eliminare completamente il presidio. Dopo un cruento conflitto a fuoco riuscirono a sopraffare e a catturare i carabinieri Mario Spampinato, Fiorentino Bonfiglio e Mario La Brocca.
Rizzo e la sua banda trascinano gli otto ostaggi nel profondo entroterra, che sfuggiva a ogni possibile controllo territoriale. Offrirono di rilasciare gli otto ostaggi in cambio del capo dell’EVIS, Concetto Gallo, da poco arrestato. Le trattative fallirono e il 29 gennaio gli otto carabinieri sparirono nel nulla. Solo il 25 maggio successivo, dopo la cattura in Catania del bandito Milazzo che aveva partecipato all’eccidio, i loro cadaveri furono ritrovati nudi in contrada Bubonia, comune di Mazzarino (Caltanissetta) dentro una enorme buca. La buca, profonda 15 metri e larga 3, serviva per l’estrazione dello zolfo dalle locali miniere. Ad uno ad uno erano stati freddati, alla presenza dei commilitoni, e buttati di sotto. Il brigadiere stringeva ancora fra le dita rattrappite la foto dei figli.
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domenica 27 gennaio 2013

27 Gennaio 1991
Ignazio Alosi guardia presso un istituto di vigilanza

Ignazio Alosi è stato una guardia particolare giurata presso un istituto di vigilanza di Messina. Fu assassinato il 27 gennaio del 1991 nei pressi dello stadio “Celeste” di Messina.
Questa la testimonianza della figlia Donatella Alosi sul portale ritaatria.it:
“Mio padre nel 1979 prestava servizio come guardia particolare giurata presso un istituto di vigilanza di Messina. Il 3 settembre 1979, mentre era regolarmente di servizio, è stato vittima di una rapina presso i caselli dell’autostrada Messina/Palermo; gli fu rubata la pistola e la rapina fu portata a segno. Successivamente, mio padre riconobbe uno dei rapinatori ” un attuale collaboratore di giustizia e per anni appartenente ad uno dei principali clan mafiosi della mia città. Per la testimonianza resa da mio padre questo SIGNORE fu condannato ed arrestato, ma già durante il riconoscimento in presenza del magistrato, minacciò mio padre di morte. Scontata la pena, a distanza di qualche anno, questa persona ha portato a compimento la sua vendetta uccidendo mio padre mentre, insieme a me, (che all’epoca avevo 14 anni) uscivamo dallo stadio e ci stavamo recando verso casa. Tutto ciò è stato confermato dalle dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia che hanno specificato tempi, modalità e quant’altro potesse essere utile alle indagini. Fino ad oggi non è mai stato riconosciuto il sacrificio di mio padre che ha pagato con la vita la sua collaborazione con la giustizia.”
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27 Gennaio 1976. La strage di Alcamo Marina
Carmine Apuzzo carabiniere
Salvatore Falcetta carabiniere

Nel bel mezzo di una notte fredda e piovosa del 27 gennaio 1976 un piccolo commando fece irruzione nella casermetta dei carabinieri di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Due militari, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta furono uccisi barbaramente nelle loro stanze. Il primo fu crivellato di colpi mentre dormiva, il secondo, svegliatosi a causa del rumore improvviso, non ebbe il tempo di impugnare la sua pistola.
Carmine Apuzzo, diciannove anni, originario di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, in servizio da circa un anno, era arrivato da poco ad Alcamo Marina. L’appuntato Salvatore Falcetta invece attendeva il trasferimento con ansia, vista la grave malattia che aveva colpito la madre. Contava i giorni, l’appuntato, per avvicinarsi al paese natale ed assistere l’anziana donna, costretta a letto da un enfisema polmonare. “Dovrò sostituite un collega che ha chiesto un periodo di licenza più lungo del previsto, poi andrò a Buseto”, disse ai familiari in una delle ultime telefonate dopo l’Epifania di quel 1976.
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Una strage dimenticata avvenuta 35 anni fa. Un mistero di Stato e di mafia, un giallo che dispensa ancora segreti e veleni. Era la notte tra il 26 e il 27 gennaio 1976, quando due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, vennero uccisi nella casermetta di Alcamo marina, in provincia di Trapani. Movente sconosciuto, ma in cella finiscono subito cinque persone con l’infamante accusa di essere i giustizieri dei due militari. Oggi le nuove indagini e una testimonianza riscrivono quella storia. Con un ennesimo segreto da svelare.

L’ultimo colpo di scena è che il giornalista Francesco La Licata, storico inviato di punta de La Stampa in Sicilia, sarà chiamato in aula, durante il processo di revisione in corso presso la Corte d'Appello di Reggio Calabria a carico di Giuseppe Gulotta, accusato e condannato all'ergastolo per la strage. Per quell'eccidio con Gulotta vennero condannate al carcere a vita altre tre persone: di questi uno è morto e gli altri due sono fuggiti in Sudamerica.

Il loro calvario iniziò il 12 febbraio 1976, quando un giovane alcamese, noto come anarchico, Giuseppe Vesco, fu fermato durante i pattugliamenti dei carabinieri, insospettiti dall’auto del ragazzo, una Fiat 127 senza fari anteriori e con una targa di cartone. Nell’unica mano, essendo privo dell’altra, il giovane impugna una pistola e dunque viene portato immediatamente in caserma per dei controlli. In seguito ad una vera e propria tortura, condotta dalla squadra e alla presenza del colonnello Giuseppe Russo, poi ucciso il 20 agosto del 1977, Vesco confessa il duplice omicidio dei carabinieri e fa ritrovare parte della refurtiva sottratta dopo l'agguato.

Non finisce qui: avendo riscontri, Russo passa la conduzione dell’interrogatrorio-tortura ai sottufficiali Giuseppe Scibilia e Giovanni Provenzano, che costringono Vesco a fare i nomi dei fantomatici complici: tra questi c’era Gulotta. Nomi palesemente inventati tanto che Vesco arriva ad implorare: “Vi bastano cinque?”. A quelle sevizie, poi ripetute in maniera più blanda anche per i gli altri accusati, era presente anche il sottufficiale dell'Arma dei Carabinieri, Renato Olino. E qui entra in gioco Francesco La Licata. Durante l'udienza del 24 giugno 2010 del processo di reivisione, Olino, testimone chiave, viene chiamato dalla difesa di Gulotta. Racconta delle torture, “dell'acqua e sale che viene spinta in gola a Vesco con un imbuto, degli elettrodi collegati ai testicoli del presunto assassino e delle percosse”. Delle finte esecuzioni con le pistole puntate sulla fronte del ragazzo e dei suoi supposti complici.

Ma dice anche di aver provato a raccontare la sua versione dei fatti molto tempo prima, sia ai piani alti dell’Arma, che gli consigliano di non essere “inopportuno”, che ai giornalisti, uno su tutti Francesco La Licata: “Prima e dopo il 1990 avevo più volte stimolato il dottor La Licata a mettermi in contatto con magistrati per fare emergere questo fatto” dichiara durante l’udienza. “Io ho conosciuto - continua Olino - il dottor La Licata in quanto lui era cronista de L'Ora di Palermo, e io stavo al nucleo investigativo di Palermo, lui veniva spesso in ufficio dal colonnello Russo a prendere le cosiddette veline per le notizie stampa”. E aggiunge: “Ho sempre cercato attraverso lui di dire: 'guarda Francesco, io ho questa esigenza, la strage di Alcamo Marina, per me non è chiarita, non è chiara, lì ci stanno delle persone secondo me, lo dico in un modo molto distaccato, innocenti, dobbiamo vedere cosa c’è veramente dietro la strage di Alcamo Marina'. Per questo l’avvocato di Gulotta, Saro Lauria, chiederà nella prossima udienza di ascoltare il giornalista.

“(Mi disse, ndr) di lasciare perdere. Che mi sarei messo contro l’Arma, che i miei colleghi che avevano torturato i ragazzi non avrebbero mai ammesso nulla. Gli ho ripetuto le stesse cose anni dopo, ma fu inutile, un muro di gomma. Non volle scrivere nulla. Gli dissi anche che volevo parlare con il maresciallo Scibilia che avevo visto prendere parte alle torture. Seppi poi che lui era in stretti rapporti proprio con Scibilia” disse Olino il 12/08/2010 a L’Unità e oggi ci dice: “Negli anni sono sempre tornato alla carica, avendo il suo numero privato, chiedendogli ogni volta di aiutarmi a raccontare la verità”. Circostanze confermate oggi dal giornalista: “Immaginavo che la difesa mi avrebbe convocato. All’epoca non ero molto convinto delle cose che diceva” ha ribattuto La Licata al telefono. Versione che fu poi ritenuta attendibile dallo stesso giornalista solo nel 2007 e presentata nel corso di una puntata della trasmissione “Blu Notte” di Carlo Lucarelli nel 2009.

Intanto la procura di Trapani, nei mesi scorsi, ha iscritto nel registro degli indagati quattro carabinieri per quelle sevizie, tra cui Scibilia, che di fronte al magistrato trapanese Andrea Tarondo si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, consci che ormai i reati contestati sono prescritti. Il racconto di Olino ha anche permesso di riaprire le indagini sulla strage e avviare il processo di revisione per Gulotta, che oggi di fronte a questo ennesimo colpo di scena ci rilascia un’amara considerazione: “Non potevo immaginare che La Licata che tanto aveva fatto per far emergere la verità sulla mia innocenza, ne era perfettamente a conoscenza molto tempo prima. Se avesse scritto quell’articolo del 2007 negli anni ‘90 forse mi avrebbe fatto risparmiare una condanna all’ergastolo”.

Un ulteriore conferma alla versione di Olino è un’intercettazione telefonica in cui i familiari di un altro carabiniere indagato, Giovanni Provenzano, parlano delle sevizie e delle modalità che i militari misero in piedi per evitare che si scoprissero: “Hanno spostato i mobili e ridipinto le pareti della caserma”. Chiamati in aula, Rossana e Michele Provenzano, anche lui carabiniere come il padre e oggi in forza al Ros, hanno negato tutto anche a fronte delle contestazioni del magistrati, tanto che il procuratore generale e l’avvocato difensore hanno chiesto che contro i testimoni si proceda per il reato di falso.

Rimane la domanda di fondo. Chi era a conoscenza dei segreti della strage di Alcamo Marina? E perché sono rimasti sepolti fino ad oggi? L’ultima ipotesi è che i due carabinieri uccisi avrebbero casualmente scoperto un traffico d’armi mediato dai servizi segreti e sarebbero morti perché tacessero. L’unico che poteva parlare è Vesco che è morto però suicida in carcere pochi mesi dopo la strage. All'eccidio seguì il depistaggio alla ricerca dei capri espiatori, dei colpevoli perfetti inguaiati dalla confessione di un’anarchico torturato e forse “suicidato” da qualcuno in carcere, considerato che impiccarsi con una sola mano è impresa assai ardua.
Benny Calasanzio

sabato 26 gennaio 2013

26 Gennaio 1982
Nicolò Piombino carabiniere in pensione

Il 26 gennaio 1982 a Isola delle Femmine (Palermo) viene ucciso in un agguato di stampo mafioso il carabiniere in pensione Nicolò Piombino. Colpito dalla criminalità organizzata per la sua collaborazione con le forze dell’ordine nella lotta a Cosa Nostra: stava collaborando per la ricostruzione di alcuni delitti avvenuti nella zona.
26 Gennaio 1979
Mario Francese 55 anni, giornalista

Mario Francese (Siracusa, 6 febbraio 1925 – Palermo, 26 gennaio 1979) è stato un giornalista italiano, assassinato dalla mafia.
Francese iniziò la carriera come telescriventista dell’ANSA, successivamente passò a giornalista e scrisse per il quotidiano “La Sicilia” di Catania. Di simpatie monarchiche, nel 1958 viene assunto all’ufficio stampa dell’assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Siciliana. Nel frattempo intraprese la collaborazione con “Il Giornale di Sicilia” di Palermo. Nel 1968 si licenzia dall’ufficio stampa per lavorare a pieno nel giornale dove si occupa della cronaca giudiziaria entrando in contatto con gli scottanti temi del fenomeno mafioso.
Divenuto giornalista professionista si occupò della strage di Ciaculli, del processo ai corleonesi del 1969 a Bari, dell’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e fu l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Antonietta Bagarella. Nelle sue inchieste entrò profondamente nella analisi dell’organizzazione mafiosa, delle sue spaccature, delle famiglie e dei capi specie del corleonese legato a Luciano Liggio e Totò Riina. Fu un fervente sostenitore dell’ipotesi che quello di Cosimo Cristina fosse un assassinio di mafia. La sera del 26 gennaio 1979 venne assassinato a Palermo, davanti casa.
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Il coraggio della verità pagato con la vita". Questa frase è incisa nel marmo di una tomba, la tomba di un giornalista siciliano che fu ucciso da Cosa nostra perché reputato troppo bravo e troppo attaccato al suo mestiere. Quel giornalista era Mario Francese, una delle penne più stimate e temute dell'intera Sicilia. Si era occupato per quasi tutta la sua vita di cronaca giudiziaria; il fenomeno della mafia lo aveva inglobato in un mare di indagini, i cui risvolti precedevano quelli di poliziotti e magistrati e che lo portarono a delineare i contorni dell'organizzazione criminale isolana: famiglie, mandamenti, boss e fazioni contrapposte, tutto in un'epoca in cui i pentiti non erano ancora usciti allo scoperto spifferando le norme che regolavano l'interno del sistema di Cosa nostra. Mario Francese si affacciò al mondo del giornalismo quando entrò come telescriventista all'agenzia dell'Ansa e fece carriera come inviato de "La Sicilia" per poi approdare alla redazione del Giornale di Sicilia, grazie al quale la sua divenne una firma infuocata. Mise il naso in tutte le questioni di mafia, dalla strage di Ciaculli all'omicidio del colonnello Giuseppe Russo, si occupò della zona grigia che intersecava interessi criminali, mafiosi e affaristici, fu il primo ad intuire che il "viddano" Totò Riina avrebbe stravolto il sistema stesso dell'organizzazione mafiosa e avrebbe dato inizio ad una nuova era di predominio criminale; fu anche il primo ad intervistare la moglie del capo dei capi, Antonietta Bagarella.

Il lavoro di giornalista era iniziato per esigenze economiche e perché, già nel trasferirsi da Siracusa a Palermo a soli quindici anni, Mario aveva dimostrato di essere un ragazzo che seguiva l'istinto ed inseguiva i propri sogni. Poi la passione ebbe il sopravvento sulle esigenze economiche e le indagini, le inchieste, le righe stampate sui fogli di un quotidiano, divennero la sua ragione di vita, insieme alla famiglia, che aveva costruito con amore e dolcezza al fianco di Maria Sagona, con la quale ebbe quattro figli. Intrepido e coraggioso, non sembrava aver paura della morte, non percepiva forse il rischio che correva ogni volta che un suo articolo veniva stampato sulle pagine del giornale. Neppure l'infarto lo aveva fermato. Quando fu colto dal malore, i medici lo trattennero giustamente in ospedale, ma lui scappò via per raggiungere la redazione. Un'altra volta invece, mentre passeggiava per piazza Caracciolo, fu testimone dell'omicidio di tre persone e, annullando totalmente il luogo comune che vede i Siciliani come un popolo omertoso, si diede all'inseguimento dei killer, nonostante egli stesso si fosse messo in salvo per miracolo. Il pericolo non lo spaventava. Si occupò di uno dei casi più scottanti dell'epoca, la costruzione della diga Garcia, il più grande affare del secolo per i clan di Cosa nostra. Raccattava informatori ovunque, descriveva collegamenti delinquenziali con puntigliosa attenzione, compariva come per magia su tutti i luoghi degli assassinii e, alla sera, quando tornava in redazione, aveva sempre una news scottante pronta alla stampa.

Il 26 gennaio del 1979, dopo aver parcheggiato l'auto in corso Campania, a pochi metri dal portone di casa sua, fu raggiunto da quattro colpi di pistola alla nuca. La moglie e i quattro figli furono distrutti dalla notizia, uno di loro in particolare, Giuseppe, anni dopo sarebbe morto suicida, perché, ha raccontato il fratello Giulio "si è fatto male cercando la verità sulla morte del padre". Per l'omicidio Francese è stata condannata l'intera cupola di Cosa nostra e Leoluca Bagarella come esecutore materiale.
Simona Verrecchia
26 Gennaio 1978
Ugo Triolo 58 anni, avvocato

Era un freddo pomeriggio d’inverno. A Corleone, l’avvocato Ugo Triolo «aveva da qualche minuto comprato due pacchetti di sigarette nel centrale tabaccaio di piazza Garibaldi», avrebbe scritto un giornalista di razza come Mario Francese sul «Giornale di Sicilia» del giorno dopo. «Con al guinzaglio il suo affezionato barboncino nero – proseguiva l’articolo – il professionista, da circa quindici anni vicepretore onorario di Prizzi, ma nato e residente a Corleone, si era avviato lentamente per la via Roma, una strada in salita dove sono ubicati la pretura e il magistrale. Trecento metri percorsi spensieratamente fumando e giocando col suo Bull. Quindi, piazza San Domenico e poi il vicolo Triolo, coperto da un tetto ad arco che sbocca in via Cammarata. Proprio uscendo dal vicolo, al numero 49 di via Cammarata, è la casa dell’avvocato Triolo (…). Il professionista ha avuto il tempo di premere sul bottone del citofono. Ha risposto la moglie. Quindi, all’angolo della strada, a non più di due metri e mezzo, dove si apre la via Rua del Piano (in cui abita il luogotenente di Luciano Liggio, il latitante Totò Riina) qualcuno l’ha chiamato. "Ugo, Ugo…". Il professionista si è voltato , avrà visto qualcuno dinnanzi a lui con una pistola in pugno. Ha avuto il tempo di alzare le mani, come per proteggersi il viso. In quel momento un lugubre rosario di colpi…». Furono nove i colpi di P38 sparati contro l’avvocato Triolo. Solo due andarono a vuoto, gli altri sette lo colpirono al petto e alla testa, uccidendolo. Erano le 17.40 del 26 gennaio 1978. Quando la moglie, col cuore in gola, aprì il portone di casa, il suo corpo rantolante quasi le cadde addosso, facendola urlare dal dolore.
Chi poteva avere interesse ad assassinare - e per giunta in maniera così plateale, con nove colpi di pistola sparatigli in faccia - una persona perbene come l’avvocato Ugo Triolo? Uno che, secondo un altro giornalista di razza come Pippo Fava, «non aveva mai avuto a che fare con interessi criminali, se non per doveri del suo ufficio». Un aiuto per rispondere a questi interrogativi lo diedero i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che, nell’ordinanza sentenza del maxi-processo, trascrissero la dichiarazione di un collaboratore di giustizia ante-litteram, Giuseppe Di Cristina. «Riina Salvatore e Provenzano Bernardo, soprannominati per la loro ferocia "le belve" – dettò a verbale il "pentito" – sono gli elementi più pericolosi di cui dispone Luciano Liggio. Essi, responsabili ciascuno di non meno di quaranta omicidi, sono gli assassini del vice-pretore onorario di Prizzi». A questa si aggiunsero anche le dichiarazioni dei pentiti Francesco Di Carlo e Giovanni Brusca, che indicarono in Riina e Provenzano i mandanti dell’omicidio e in Leoluca Bagarella, Antonino Marchese e Giovanni Vallone il "gruppo di fuoco" che gli tese l’agguato la sera del 26 gennaio 1978. Un delitto, dunque, voluto direttamente dalla "cupola" di Cosa Nostra, saldamente in pugno ai "corleonesi" Riina e Provenzano ed eseguito dai killer più feroci di cui disponevano, in primo luogo quel "Luchino" Bagarella, che di Riina era il cognato. Furono fatte tante ipotesi, ma nessuna è stata mai provata. Si disse, per esempio, che l’avvocato era proprietario di un vasto appezzamento di terra in contrada «San Calogero», che interessava i mafiosi, ma che lui non voleva assolutamente vendere. Il pentito Di Carlo, invece, ha svelato che negli uffici di una società di trasporti di via Leonardo da Vinci a Palermo, un certo Vallone di Prizzi «chiese a Bernardo Provenzano di eliminare Triolo, perché lo aveva ostacolato in alcune vicende collegate a reati edilizi, da lui valutati nella veste di vice pretore (…). Lui è avvocato, dovrebbe fare quello che dice il paesano e no quello che dice la legge». L’ avvocato Triolo - è un’altra ipotesi - fu ucciso 12 giorni dopo Marco Puccio, un suo cliente accusato di abigeato. Forse, è un’ ipotesi degli inquirenti, la vittima si era confidata con il legale? Infine, si disse pure che Triolo aveva svolto con "troppo zelo" il ruolo di pubblico ministero in un processo minore contro Luciano Liggio. Comunque, per oltre vent’anni di Ugo Triolo a Corleone nessuno parlò più. E non c’era nemmeno la certezza che fosse una vittima innocente di mafia.
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venerdì 25 gennaio 2013

25 Gennaio 1983
Giangiacomo Ciaccio Montalto 42 anni, magistrato

"Quello vede nemici dappertutto ", dicevano di lui i soliti bene informati che non perdevano occasione per spiarne le mosse, intuirne i disegni, prevederne le decisioni. Gian Giacomo Ciaccio Montalto: ecco, a dispetto di tutte le apparenze, le maldicenze interessate, le miserabili leggende sul suo conto, un'altra bella figura di magistrato zelante, coerente, coraggioso fino alla morte. È un'altra personalità forte che incontriamo ripercorrendo il lungo cammino di questi anni di sangue. Un altro giudice che per anni visse avvertendo in maniera quasi palpabile tutta la sua " solitudine ", e che fino all'ultimo di questa maledetta condizione dimostrò di infischiarsene. Giudice antimafia a Trapani, per certi versi una professione ancora più difficile che a Palermo.Trapani è una piccola città, e fra le città siciliane più improduttive; eppure i forzieri delle sue banche sono stracolmi di danaro. Si è meritata la definizione di Lugano del sud: nel1988, soltanto negli istituti di credito privati, erano custoditi millecinquecento miliardi di depositi, il cinquanta per cento in più di Catania. Livelli di vita altissimi, boutiques da far invidia a Milano, una flottiglia da diporto paragonabile a quella della Costa Smeralda. Un terziario diffuso, uguale a quello di tanti altri capoluoghi meridionali, non spiega per nulla l'impetuoso successo di quest'Eldorado un po' pacchiano, giustificato solo in piccola parte da una speculazione edilizia che non ebbe certo le dimensioni conosciute a Palermo o Catania. Eppure Trapani ha sempre vissuto così, nuotando nell'abbondanza. Come? Ricorrendo a quali fonti nascoste di sostentamento?Esattamente gli stessi interrogativi che si era posto Ciaccio Montalto venendo a Trapani nel '71. Per dodici lunghi anni cercò risposte esclusivamente nelle sue indagini, nei suoi processi, nei suoi dossier. Indossò quasi un'armatura, ancor prima che una divisa, pur di resistere alle tentazioni accattivanti di questa sirena dai mille volti e dai mille misteri e dove mai nessuna storia giudiziaria, neanche un piccolo scandalo, è stato chiarito fino in fondo. L'armatura consisteva nel suo rinchiudersi all'interno di un'esistenza scandita esclusivamente da casa e lavoro. Dicevano che Ciaccio Montalto avesse un brutto carattere. Sicuramente era un giudice di poche parole, che si faceva vedere raramente in giro e che evitava - per sua precisa scelta - una mondanità salottiera provinciale e rampante. Amava le buone letture, era un grande esperto di musica sinfonica. I pochi trapanesi che ebbero l'onore di frequentarlo, qualche collega, qualche avvocato, lo ricordano di fronte al televisore a rispondere ai quesiti di Mike Bongiorno battendo regolarmente sul tempo Massimo Inardi, il fenomeno di " Rischiatutto ".Montalto fino al 1982 visse in compagnia della moglie, Marisa La Torre, trapanese, laureata in lettere, anche lei amante di musica classica, e delle sue tre figlie, Marena, Elena e Silvia. Abitavano tutti in un antico palazzo liberty, stracolmo di libri, porcellane, mobili d'epoca. Era qui, fra grandi saloni, salotti ottocenteschi, spartiti di Bach e di Beethoven, che il magistrato preferiva trovare conforto al termine di giornate lavorative ricche di sorprese via via sempre più amare. Un bell'uomo, amante del mare e della vita all'aria aperta, che appena poteva prendeva il largo a bordo del suo " Lighea ", - uno swan di dodici metri - con il quale batteva spesso la rotta delle isole Egadi e una volta si spinse fino in Turchia. Ma questo giudice, che con le sue inchieste per dodici anni aveva rivoltato come inguanto tutti gli ambienti della Trapani bene, era trapanese soltanto a metà. Nato a Milano, quarantadue anni prima, si era laureato a Roma e appena vinto il concorso per l'ingresso in magistratura aveva scelto Trapani. Suo padre, Enrico, era magistrato di Cassazione. Suo nonno, per parte di madre, era stato il notaio Giacomo Montalto, che alla fine dell'800 si era ritrovato dalla parte dei contadini nei fasci siciliani e sarebbe poi diventato sindaco socialista di Erice. Enrico, il fratello di GianGiacomo, morto a ventidue anni in un incidente stradale, era stato un giovane dirigente comunista che aveva partecipato nel trapanese alle lotte bracciantili del dopoguerra. Con un antenato socialista, un fratello comunista, il giudice che prediligeva soprattutto Bach, non poteva riscuotere grandi simpatie in ambienti imprenditoriali, politici e anche mafiosi accomunati dalla sensazione che fosse un persecutore, legato ad ambienti cittadini di sinistra e perciò tutt'altro che " imparziale ". Iniziò a cercarsi i suoi guai nella prima metà degli anni '70, firmando una ventina di ordini di cattura per truffa e falso ideologico e portando alla sbarra i funzionari della Banca Industriale coinvolti in una gestione molto discussa. Gli andò male: gli imputati, condannati in primo grado a pene severe, vennero assolti a Palermo in appello. Ricordate lo scandalo per la mancata ricostruzione del Belice terremotato (centinaia di miliardi andati in fumo) che spinse il presidente Pertini a chiamare duramente in causa la classe politica e i pubblici poteri? Bene. Nel 1976, Moltalto, raccogliendo la circostanziata denuncia di "don" Riboldi, all'epoca parroco di Santa Ninfa, mise sott'accusa una ventina di alti funzionari dello stato, compreso il provveditore per le opere pubbliche di Palermo. Anche questa volta gli andò male: sei mesi dopo la Procura Generale di Palermo avocò l'inchiesta. Si occupò anche di sofisticazione vinicola, fenomeno diffusissimo nel trapanese: nell'80 gli uomini della squadra mobile di Trapani, per sua iniziativa, sequestrarono un intero convoglio ferroviario carico di zucchero.

Non lasciava in pace nemmeno i personaggi politici più in vista. Incriminò ben tre ex sindaci democristiani, il segretario regionale del partito liberale, Francesco Braschi, un assessore DC, Michele Megale, il presidente del Pri trapanese, Francesco Grimaldi, coinvolti tutti in storie di ordinaria cattiva amministrazione. Povero Gian Giacomo Ciaccio Montalto: gli imputati di lusso che voleva portare sul banco degli imputati o venivano rimessi in libertà o prosciolti o finivano per essere amnistiati. Otteneva così soltanto un risultato: nuovi nemici, in una città piccola piccola dove non c'è cosa peggiore che farsi la fama di persecutore, per giunta introverso, per giunta "straniero". Lui incassava con signorilità, sapendo che Trapani, tutt'altro che estranea al regolamento di conti fra le cosche, esprimeva una mafia feroce ipersensibile ai mutamenti di equilibrio all'interno del palazzo. Mise sotto torchio il clan dei Minore, alleati organici dei corleonesi, e coinvolti nelle peggiori pagine di cronaca nera: dal finto sequestro dell'industriale Rodittis al sequestro di Luigi Corleo, due " sgarbi "messi a segno da gruppi di delinquenti comuni che pagarono duramente subendo poi una vera e propria decimazione per mano di mafia. Le indagini sui Minore costituirono il comune denominatore di tante indagini, grandi e piccole, di Ciaccio Montalto. Un precedente che da un'idea della sua tenacia investigativa: aveva fatto riesumare il cadavere di Giovanni Minore, morto d'infarto, perché nutriva seri dubbi sulle reali cause del decesso: la perizia aggiunse dubbi su dubbi. Si disse a Trapani che la famiglia Minore aveva considerato blasfemo il comportamento del magistrato. Montalto, ancora una volta, nonostante gli insuccessi tenne duro e continuò ad indagare su questo gruppo: nel '79, Antonio Minore, detto " Totò ", fu costretto a fuggire inseguito da un paio di mandati di cattura firmati dall'ufficio istruzione su richiesta di Ciaccio Montalto. Da allora è latitante e viene ormai considerato come uno dei massimi rappresentanti della mafia trapanese, un boss che per anni aveva vissuto indisturbato frequentando - se necessario - proprio i politici più in vista. Di queste storie se ne potrebbero raccontare tante, perché numerosissime furono - in dodici anni di attività - le occasioni in cui il giudice non si fece scrupoli reverenziali al momento di ricercare la verità. Anche lui, come i giudici istruttori di Palermo, Chinnici, Falcone e Borsellino, si segnalò per un'immediata applicazione della legge La Torre. Fin troppo ovvio che la sua inchiesta sui trentanove soggetti della nuova mafia trapanese si fosse infranta, altrettanto tempestivamente, nello scoglio delle trentanove scarcerazioni per mancanza di indizi. Era un magistrato colto e preparato. Non legato a gruppi o personaggi locali. Geloso della sua autonomia. Immerso in una realtà che da decenni produce scandali, misteri, traffici illeciti di ogni tipo. Eppure le sue indagini scrupolose e ponderate, a dispetto dei pettegolezzi di corridoio, nascevano sotto una cattiva stella. Cozzavano contro uno strano muro invisibile, fatto di alleanze sotterranee fra potenti di ogni risma. Negli ultimi tempi Gian Giacomo Ciaccio Montalto appariva stanco. Saremmo tentati di dire - se non si corresse il rischio di far torto alla sua proverbiale tenacia - che si era stufato. Stufato dei suoi colleghi, molto spesso sotto tono rispetto ad un nemico rapidissimo nel prendere le sue decisioni. Sconcertato per il comportamento di un magistrato, Antonio Costa, che aveva accettato centocinquantamilioni dai Minore per ammorbidire le sue richieste investe di pubblico ministero proprio nel processo che vedeva i Minore alla sbarra. Che lite furibonda fra i due, il giorno che Ciaccio Montalto scoprì la pastetta. Almeno in questa occasione (anche se a futura memoria) ebbe ragione: Costa venne messo in galera per corruzione e perfino detenzione abusiva di armi. Circondato da ostilità, odi, disprezzo, Ciaccio Montalto, all'inizio degli anni '80, presentò domanda di trasferimento a Firenze. Il giudice era in ottimi rapporti con Pierluigi Vigna e Rosario Minna, impegnati in delicate indagini antimafia nell'ufficio istruzione del capoluogo toscano. E a Firenze, ormai da tempo, si era stabilita una vera e propria colonia di mafiosi siciliani (parecchi i trapanesi) spesso mandati lì al soggiorno obbligato e che a tutto pensavano tranne che a starsene buoni buoni: nel settembre'82 in un calzaturificio di Firenze erano saltati fuori -per far solo un esempio - ottanta chili d'eroina. Nascosti in scatole di scarpe erano destinati al mercato di New York.

Nell'ottobre '82, Montalto fu ospite a TG2 dossier. Lo intervistò il giornalista Fausto Spegni. Quella di alcuni giudici siciliani antimafia non rischiava di diventare una "guerra privata" contro i clan più in vista?Montalto rispose: "... finisce per apparire una guerra privata...in realtà è una guerra pubblica. Ma siccome siamo in pochi, pochi che ce ne possiamo occupare, pochi che abbiamo determinate conoscenze, la cosiddetta memoria storica, e privi di determinati mezzi, va a finire che le nostre conoscenze... finiscono col diventare un patrimonio personale.... Tutto ciò finisce per individualizzare la lotta al fenomeno mafioso". Sociologia giudiziaria?Protagonismo, come si direbbe oggi? E allora ascoltiamo quest'altra risposta ad una domanda specifica del giornalista sul riciclaggio: " Le indagini bancarie le facciamo sempre, quantomeno iniziamo sempre a farle. Solo che l'indagine bancaria è un'indagine tecnicamente difficile e molto lunga. In un'indagine occorrerebbe necessariamente memorizzare i dati perché quel singolo dato che emerge in un'indagine al momento può non essere significativo, ma diventarlo domani. E comunque il canale di riciclaggio passa necessariamente attraverso le banche di cui il trapanese è pieno ". E, come se il povero Montalto non si fosse già fatto abbastanza nemici in quel di Trapani, rincarò ancora di più la dose: "dai dati ufficiali sappiamo che in provincia di Trapani ci sono più banche che a Milano".Andò incontro alla morte da solo, come aveva vissuto sul lavoro per dodici lunghi anni, da quando fresco di laurea era venuto a Trapani. Considerando imminente il suo trasferimento a Firenze si era sfogato con una persona affezionata: " Me ne vado da questa città senza rimpianti, non lascio un solo amico". Quanti ne avrebbe trovati - se solo l'avesse voluto - in quei salotti che per tanto tempo gli avevano fatto la corte prima di indispettirsi per i suoi rifiuti! Quando invece si allontanava momentaneamente da Trapani per viaggi di lavoro in Alta Italia, Montalto si incontrava con il giudice Carlo Palermo che stava già indagando su mafia, droga, armi e - guarda caso - entrambi concordavano sull'importanza della pista trapanese. Meglio cambiare aria, andare a Firenze e seguir da vicino le mosse dei signori della droga. Aveva detto Dalla Chiesa nell'intervista a Bocca: " La mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana". Ma anche: " Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può ucciderlo perché è isolato". Se condividiamo la doppia intuizione del prefetto di Palermo possiamo senz'altro dire che l'uccisione di Ciaccio Montalto rientrava alla perfezione in questo schema. La mafia aveva " misurato" per dodici anni questo giudice ed era giunta alla conclusione che ne potevano venire solo dispiaceri. Era diventato troppo pericoloso ma nello stesso tempo sempre più isolato. I ragionieri della morte tirarono le somme nella notte fra il25 e il 26 gennaio dell'83. Il giudice, che da qualche tempo non viveva più in famiglia, stava rincasando nella sua villetta di Valderice, frazione di diecimila abitanti a pochi chilometri da Trapani. Era stato a cena con due avvocati. Tornava solo a bordo d'una Volkswagen Golf. Teneva fra le gambe un thermos pieno di caffè che gli avrebbe dato conforto in una nottata di lavoro che si prospettava lunga: l'indomani avrebbe dovuto prenderparte ad un processo delicato. Non ebbe il tempo di scendere dalla macchina: numerosi killer fecero fuoco con una mitraglietta Luger, una pistola calibro 38 e una 7.65. Per Montalto non ci fu scampo. Il suo orologio da polso si bloccò all'una e trenta. Nessuno quella notte diede l'allarme: " pensavamo fossero cacciatori di frodo" diranno i vicini l'indomani. Alle sei e quarantacinque il cadavere venne ritrovato, grazie alla telefonata d'un pastore. E rimosso soltanto alle dodici, quando furono espletate le lentissime formalità di rito. Qualche mese prima una croce nera era stata disegnata con una bomboletta spray sul cofano della sua Golf. "Ce l'hanno con me", aveva confidato all'avvocato Elio Esposito, suo amico carissimo. Ma croce o non croce Ciaccio Montalto aveva continuato a percorrere la sua strada senza ritorno." La mafia a Trapani non esiste ", tagliò corto Erasmo Garuccio, democristiano, sindaco della città, quando finalmente gli inviati di tutt'Italia riuscirono a strappargli una frase. E coerente con un'impostazione che fece scandalo, il sindaco ordinò di affiggere pochissimi manifesti per proclamare il lutto cittadino: nel testo non figurava la parola mafia. Tornò alla carica Forattini disegnando un Garuccio con coppola e lupara. Il provveditore agli studi " dimenticò " di inviare ai presidi le disposizioni per il giorno dei funerali. E perché meravigliarsi se gli amministratori del luogo si chiudevano a riccio quando lo stesso ministro della giustizia, Clelio Darida, aveva teorizzato che la mafia non poteva essere sradicata e andava ricondotta semmai entro"limiti fisiologici"? Concetto infelice, espresso pubblicamente durante un convegno di magistrati, a Palermo, alla vigilia dell'uccisione di Montalto. L'associazione dei magistrati liguri chiese le dimissioni del guardasigilli. Rosario Minna, giudice istruttore a Firenze, e amico personale del magistrato assassinato, dichiarò all'" Espresso ": " Io allora voglio sapere qual è il numero fisiologico degli assassinati per mano della mafia.
Saverio Lodato, Trent’anni di mafia

mercoledì 23 gennaio 2013

23 Gennaio 1990
Vincenzo Miceli imprenditore

Vincenzo Miceli è stato un imprenditore che si era ribellato alle estorsioni mafiose. Per questo motivo nel gennaio 1990 venne ucciso a Monreale, in provincia di Palermo.

lunedì 21 gennaio 2013

21 Gennaio 1986
Paolo Bottone imprenditore

A Palermo omicidio dell'imprenditore Paolo Bottone, titolare assieme al padre dell'ISAVIA, una ditta di manutenzioni industriali. Probabilmente il delitto è dovuto al rifiuto di pagare il pizzo.

sabato 19 gennaio 2013

19 Gennaio 1961
Paolino Riccobono 13 anni

Faceva molto freddo il 19 gennaio 1961 sulle pendici del monte Billemi, a Tommaso Natale, borgata di Palermo. Ma ciò non scoraggiò i killer del tredicenne Paolino Riccobono. I primi due colpi lo raggiunsero al petto. Lui tentò di scappare, ma altre due fucilate alle spalle lo stesero definitivamente. Per Paolino bambino di 13 anni dal cognome segnato, la mafia non ebbe alcuna pietà. Il padre era stato ucciso la sera del 16 novembre del ’57 mentre rincasava. Il fratello Giuseppe fu sequestrato ed assassinato nel 1960. Un altro fratello, Natale, venne eliminato a metà degli anni ’70, poco dopo la scarcerazione. Era un predestinato Paolino. Uno sterminio frutto della faida, che andava avanti dal 1953, tra le famiglie di Tommaso Natale e di Cardillo. Per l’uccisione di Paolino venne condannato a trent’anni Giovanni Chifari, soprannominato “crozza munnata” (cranio sbucciato, spoglio).
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venerdì 18 gennaio 2013

18 Gennaio 1946
Vitangelo Cinquepalmi militare
Vittorio Epifani militare
Angelo Lombardi militare
Imerio Piccini militare

Nei pressi di Montelepre (Palermo) in un conflitto a fuoco muoiono 4 militari: Vitangelo Cinquepalmi, Vittorio Epifani, Angelo Lombardi, Imerio Piccini

giovedì 17 gennaio 2013

17 Gennaio 1978
Gaetano Longo politico, democristiano

Gaetano Longo, già Sindaco democristiano di Capaci (era stato sindaco dal 1962 al 1975) venne assassinato il 17 gennaio 1978 a Capaci.
17 Gennaio 1947
Pietro Macchiarella dirigente sindacale

Pietro Macchiarella, dirigente sindacale iscritto al Partito comunista e impegnato nelle lotte contadine, venne ucciso a Ficarazzi (Palermo)

mercoledì 16 gennaio 2013

16 Gennaio 1922
Domenico Spatola militante comunista
Mario Spatola
Pietro Spatola
Paolo Spatola

A Paceco (Trapani) vengono uccisi Domenico Spatola, militante comunista, Mario, Pietro e Paolo Spatola, figli del dirigente comunista Giacomo, protagonista delle lotte contadine fin dai Fasci siciliani.

lunedì 14 gennaio 2013

14 Gennaio 1988
Natale Mondo 36 anni, poliziotto

Natale Mondo (Palermo, 21 ottobre 1952 – Palermo, 14 gennaio 1988) è stato un agente di polizia. Mondo si era arruolato in Polizia nel 1972, prestando servizio presso il reparto autonomo del Ministero dell’Interno e la Questura di Roma, Siracusa e Trapani dove conobbe Ninni Cassarà, che ne auspicò il trasferimento alla Squadra Mobile di Palermo, da lui diretta. Da allora fu per anni autista e braccio destro di Cassarà, partecipando a molte operazioni. Nell’agosto del 1985 era sfuggito all’attentato in cui avevano perso la vita i colleghi Ninni Cassarà e l’agente di scorta Roberto Antiochia. Accusato da un pentito di essere corrotto venne arrestato e incarcerato. Mondo fu scagionato in seguito all’intervento della vedova di Cassarà e di altri colleghi che testimoniarono a suo favore che egli si era infiltrato nelle cosche mafiose del quartiere Arenella, ove era nato e risiedeva, dietro ordine dello stesso Cassarà. Questo, di fatto, lo espose alla vendetta della mafia, che lo uccise proprio davanti al negozio di giocattoli della moglie, sito nella stessa borgata. Gli fu conferita, postuma, per merito assoluto, la qualifica di Assistente capo.
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Tre killer trucidarono con decine di colpi di pistola Natale Mondo, trentasei anni, poliziotto della squadra mobile, per anni autista e braccio destro di Ninni Cassarà. […] era l'agente rimasto illeso durante il micidiale agguato a colpi di kalashnikov in cui erano caduti Cassarà e il giovane agente Roberto Antiochia. Era l'agente che aveva conosciuto l'onta delle manetteprima di riuscire a dimostrare (venne infatti prosciolto in istruttoria) di non essere stato la talpa che aveva informato i killer dell'imminente rientro a casa del vicecapo della squadra mobile. Ma era anche uno dei poliziotti presenti in questura la notte in cui venne torturato e ucciso il calciatore Salvatore Marino. E per questo, Natale Mondo, era stato rinviato a giudizio insieme ad altri funzionari e semplici agenti. Nei suoi ultimi mesi di vita, pur essendo stato riabilitato per la prima accusa, era stato trasferito alla questura di Trapani. Ma le cosche di mafia non potevano dimenticare facilmente il suo passato. Cassarà infatti gli aveva affidato il delicatissimo compito di infiltrarsi propriodentro alcune famiglie dell'eroina che vivevano all'Arenella, la stessa borgata in cui abitava Natale Mondo con la sua famiglia. Era una circostanza ormai nota a Palermo: Cassarà infatti annotava in una agenda giorni e luoghi d'incontro del suo autista con i boss che ancora non sospettavano il doppio gioco. Mondo fu costretto a render noto il particolare volendo così dimostrare la sua estraneità all'uccisione del suo dirigente. Se la fece franca in tribunale, ma segnò la sua condanna a morte. Venne ammazzato all'Arenella. Nel preciso istante in cui stava alzando la saracinesca di un negozio di giocattoli, "Il mondo dei balocchi", di proprietà della moglie. Era l'orario dell'apertura pomeridiana. Cadde sfigurato fra fucili e pistole per bambini.
Saverio Lodato, Trent’anni di mafia

sabato 12 gennaio 2013

12 Gennaio 1906
Giuseppe Insalaco 43 anni, politico democristiano

Giuseppe Insalaco (San Giuseppe Jato, 12 ottobre 1941 – Palermo, 12 gennaio 1988) è stato un politico italiano. Fu sindaco di Palermo dal 17 aprile al 13 luglio del 1984. Come politico aveva denunciato, più volte, le collusioni fra mafia e politica. Ascoltato dalla Commissione antimafia il 3 ottobre del 1984 insieme all’allora sindaco in carica Nello Martellucci – sulle ingerenze della mafia nella politica palermitana, denunciò le pressioni subite da Vito Ciancimino e dal suo entourage. Li indicò come i gestori dei grandi appalti al comune di Palermo per conto della mafia. Fu assassinato a colpi di pistola in macchina insieme al suo autista il 12 gennaio 1988. Dopo la sua morte fu trovato un memoriale in cui Insalaco accusava diversi esponenti della Dc palermitana, e il sistema di gestione degli appalti e del potere cittadino. Il quotidiano di Palermo, “L’Ora”lo definì la “scheggia impazzita che sparava dritto contro i suoi nemici e non si rassegnava a tapparsi la bocca” .

Quel 12 gennaio 1988 via Cesareo era un groviglio di automobili. C’era Giuseppe Insalaco al centro del gomitolo. Un uomo morto, ucciso. Lui e il suo autista. Lui e il suo fare politica, da sindaco: il quotidiano “L’Ora” lo avrebbe ricordato come “scheggia impazzita che sparava dritto contro i suoi nemici e non si rassegnava a tapparsi la bocca”. Un politico immerso nella Dc, che lo aveva portato lassù, primo tra i cittadini, ma che non lo aveva reso incapace di resitere a un Vito Ciancimino sempre più pressante. Era un rinnovamento quello che cercava. Così aveva messo mano agli appalti, a quel sistema intoccabile di Palermo, come per il rinnovo degli appalti della Lesca (dal 1938, per la manutenzione di strade e fogne di proprietà dei Cassina) e della Icem (dal 1969 per l’illuminazione pubblica di proprietà dell’ingegnere Roberto Parisi). “Ogni delibera – dichiarò – valeva decine di miliardi”. Per tre mesi occupò la massima poltrona cittadina, fino al 13 luglio del 1984. Quasi quattro anni dopo uccisero lui e le sue verità, contenute nelle dichiarazioni che rilasciò all’Antimafia di Giovanni Falcone nell’ottobre del 1984. Con il giudice parlò di quegli stessi “perversi giochi” che lo avevano costretto “alle dimissioni dopo appena tre mesi”.

“Insalaco forse ha promesso di fare quello che io non ho voluto fare e poi non ha mantenuto le promesse: così lo hanno massacrato. Denunce, lettere anonime. L’hanno lasciato solo. Non ho mai visto un uomo invecchiare così in tre mesi”, disse di lui chi al Comune lo aveva preceduto, la Dc Elda Pucci. Due settimane dopo la sua deposizione qualcuno rubò e appiccò fuoco alla sua auto, poi l’arrivo di un esposto anonimo, l’accusa di corruzione, l’incarcerazione e un processo che non si concluse mai. Furono cinque colpi di pistola a fermargli al vita quel 12 gennaio. Un delitto per il quale solo nel 2001, la Cassazione individuò nei due mafiosi Domenico Ganci e Domenico Guglielmini i responsabili.

Ma c’è chi ancora cerca altri mandanti, chi non riesce ad inquadrare quest’omicidio nella sola matrice mafiosa. Tra coloro che ricordano Giuseppe Insalaco, nei primi giorni dopo la sua morte, c’è chi non lo fa con grandi encomi. Di lui si disse che “era in corso a Palermo un frettoloso processo di beatificazione”, parola dell’avvocato Vito Guarrasi; mentre “inquietante protagonista di quella zona grigia dove mafia e politica vanno a braccetto”, fu la definizione del presidente della Regione Rino Nicolosi. Dopo la sua morte venne ritrovata una raccolta di memorie. Le righe che scrisse svelavano intrecci poltico-affaristico-mafiosi. Troppo tardi, però. Lui era già morto una, due, cento volte. E mai nessuna istituzione si preoccupò più di riaccendere il suo ricordo.
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12 Gennaio 1906
Andrea Orlando 42 anni, medico chirurgo

Andrea Orlando era medico chirurgo, possidente, figlio del farmacista Giovanni e di Marianna Streva. Nato a Corleone nel 1864, era quasi coetaneo di Bernardino Verro, con il quale condivise le ansie di rinnovamento della politica municipale e lo slancio per migliorare le condizioni di vita e di lavoro della povera gente. Un “apostolo” del socialismo, come si usava dire allora, con un linguaggio mutuato dal Vangelo. Da medico, conosceva bene l’assoluta povertà di tante famiglie contadine, che diventava tragedia davanti ad una malattia. E, come accadeva al medico socialista di Piana degli Albanesi, Nicolò Barbato, anche Orlando non di rado curava gratuitamente la povera gente.
Eletto consigliere comunale nelle fila socialista, si batté contro la cricca che amministrava il comune, per la moralizzazione della vita pubblica. In primo luogo, contro il metodo con cui venivano determinate le tasse comunali. A quel tempo, infatti, il maggior “diletto” degli amministratori comunali era quello di non iscrivere a ruolo le loro famiglie e i loro amici e – per pareggiare il bilancio – spremere all’inverosimile centinaia di famiglie povere. Una costante in tanti comuni siciliani di quel periodo.
Insieme a questa attività in consiglio comunale, Andrea Orlando sostenne i contadini nelle lotte per le “affittanze collettive”, aiutandoli a costituire la cooperativa “Unione agricola”. Per la mafia, gli agrari e certi amministratori comunali, certamente un personaggio scomodo, da eliminare. Ed anche per lui arrivò il piombo mafioso. La sera del 13 gennaio 1906, intorno alle 19.30, si trovava in contrada “Rianciale”, dove aveva un appezzamento di terra. Gli spararono contro due colpi di lupara, uccidendolo sul colpo: aveva 42 anni.
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venerdì 11 gennaio 2013

11 Gennaio 1979
Filadelfio Aparo 44 anni, poliziotto

Filadelfo Aparo (Lentini, 15 settembre 1935 – Palermo, 11 gennaio 1979) è stato un poliziotto italiano.
Vice Brigadiere della Squadra mobile della Pubblica Sicurezza della questura di Palermo assassinato all’età di 44 anni in un agguato di mafia, la mattina dell’11 gennaio 1979, a Palermo, in piazza Tenente Anelli n°25, con numerosi colpi di lupara.
Il suo assassinio si deve alla vendetta delle cosche che decisero eliminare un “segugio” particolarmente efficiente e pericoloso. Il sottufficiale era impegnato in delicate indagini mirate all’individuazione degli organigrammi di cosche mafiose palermitane.
Lasciò la moglie Maria e tre bambini, Vincenzo di 10 anni, Francesca di 5 anni il più piccolo Maurizio dei quali di 1 anno.
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11 Gennaio 1996
Giuseppe Di Matteo 15 anni

Giuseppe Di Matteo (1981-1996) figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, ex-mafioso, divenne vittima di una vendetta trasversale nel tentativo di far tacere il padre.
La sua morte è risaltata grandemente su tutti i giornali perché il cadavere del ragazzo non fu mai trovato, essendo stato disciolto in una vasca di acido nitrico.
Fu rapito il 23 novembre 1993, quando aveva 12 anni, al maneggio di Altofonte (PA) da un gruppo di mafiosi che agivano su ordine di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato. Secondo le deposizioni di Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento, i sequestratori si travestirono da poliziotti ingannando facilmente il bambino, che credeva di poter rivedere il padre in quel periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia. Dice Spatuzza: “Agli occhi del bambino siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. (…) Lui era felice, diceva ‘Papà mio, amore mio’ “. Il piccolo fu legato e lasciato nel cassone di un furgoncino Fiat Fiorino, prima di essere consegnato ai suoi carcerieri. La famiglia cercò presso tutti gli ospedali cittadini notizie del figlio, ma quando, il 1º dicembre 1993, un messaggio su un biglietto giunse alla famiglia con scritto «Tappaci la bocca» e due foto del bambino che teneva in mano un quotidiano del 29 novembre 1993, fu subito chiaro che il rapimento era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sull’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo. Il 14 dicembre 1993, Francesca Castellese, moglie di Di Matteo, denunciò la scomparsa del figlio. In serata fu recapitato un nuovo messaggio a casa del suocero (Giuseppe Di Matteo, padre di Santino) con scritto «Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie». Dopo un iniziale cedimento psicologico il pentito non si piegò al ricatto, sebbene fosse angosciato dalle sorti del figlio, e decise di proseguire la collaborazione con la giustizia. Brusca decise così l’uccisione del ragazzo, ormai fortemente dimagrito e indebolito per la prolungata e dura prigionia, e che venne strangolato e successivamente sciolto nell’acido l’11 gennaio 1996, all’età di 15 anni, dopo 779 giorni di prigionia. Per l’omicidio del piccolo Giuseppe, oltre che Giovanni Brusca, sono stati condannati all’ergastolo i boss Leoluca Bagarella e Gaspare Spatuzza.
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giovedì 10 gennaio 2013

10 Gennaio 1974
Angelo Sorino 57 anni, Maresciallo di Pubblica Sicurezza

Angelo Sorino, Maresciallo di Pubblica Sicurezza presso la Questura di Palermo Commissariato di Resuttana, venne ucciso il 10 Gennaio 1974 all’età di 57 Anni.
Aveva lasciato la Polizia nel 1971 per limiti di età e, su sua richiesta, era stato richiamato in servizio per altri otto mesi e, il primo gennaio del 1973, dovette abbandonare per sempre l’uniforme.
Un anno dopo, il 10 gennaio del 1974, venne ucciso a colpi di pistola: un sicario gli sparò alle spalle in Via San Lorenzo, nell’omonimo quartiere palermitano ad alta densità mafiosa, dove il sottufficiale abitava. Il killer lo colpì da distanza ravvicinata con una calibro .38. Sorino stramazzò sull’asfalto, stringendo ancora in mano l’ombrello col quale si era riparato dalla pioggia e con cui aveva accennato ad un’ultima, disperata quanto inutile difesa.
L’assassino gli esplose contro altri due colpi di pistola e fuggì a bordo di una Fiat 500, guidata da un complice. L’utilitaria, rubata ventiquattr’ore prima, fu ritrovata il giorno dopo nella vicina borgata Pallavicino. Sulla matrice mafiosa dell’omicidio gli inquirenti non ebbero, fin da subito, alcun dubbio: “cosa nostra” aveva deciso di ucciderlo perché, anche senza vestire più l’uniforme, non aveva mai smesso di essere e comportarsi da poliziotto e le sue giornate da pensionato le trascorreva raccogliendo informazioni, che puntualmente riferiva ai colleghi. E, questo, i capifamiglia della zona non potevano consentirlo e non glielo perdonarono.
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martedì 8 gennaio 2013

8 Gennaio 1993
Beppe Alfano 47 anni, giornalista

Giuseppe Aldo Felice Alfano detto Beppe (Barcellona Pozzo di Gotto, 1945 – Barcellona Pozzo di Gotto, 8 gennaio 1993) è stato un giornalista italiano, ucciso per mano della mafia.
Frequentò la facoltà di economia e commercio all’Università di Messina dove conobbe Mimma Barbarò, sua futura moglie. Dopo la morte del padre lascia gli studi e si trasferisce a Cavedine, vicino a Trento, trovando lavoro come insegnante di educazione tecnica alle scuole medie e ritornando in Sicilia nel 1976. Appassionato di giornalismo e militante di destra (in gioventù fu militante di Ordine Nuovo e poi del MSI, Alfano comincia a collaborare con alcune radio provinciali, con l’emittente locale Radio Tele Mediterranea ed è corrispondente de La Sicilia di Catania. Le inchieste sulla mafia e il malaffare in Sicilia. La sua attività giornalistica è rivolta soprattutto verso uomini d’affari, mafiosi latitanti, politici e amministratori locali e massoneria. La sua operosità e il suo lavoro diedero fastidio a più di una persona. La notte dell’8 gennaio 1993 fu colpito da tre proiettili mentre era alla guida della sua auto in via Marconi a Barcellona Pozzo di Gotto.
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Sono le 22 e 30 dell'8 gennaio 1993. In via Marconi, a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, accostata al marciapiede c'è una Renault rossa. E' ferma da un po', come se fosse parcheggiata, ma ha il motore acceso, che romba, su di giri. Dallo scappamento, nel freddo di quella notte d'inverno esce una nuvola di gas di scarico che l'ha quasi avvolta, come se avesse preso fuoco. Arriva il 113 e gli agenti vedono che dentro l'auto c'è un uomo, che sembra essersi addormentato contro il sedile, e col piede sta premendo l'acceleratore. Ma quell'uomo non dorme. Quell'uomo è morto, gli hanno sparato in testa tre colpi di pistola.

L'uomo è un giornalista che si chiama Beppe Alfano. Pochi minuti prima era arrivato a casa con la moglie, aveva parcheggiato e l'aveva accompagnata fino al portone, per salire con lei, ma all'improvviso si era fermato, come se avesse visto qualcosa. Senza dire niente, corre fino all'angolo della strada, per guardare verso una piazzetta che si trovava là dietro. Poi torna indietro, dice alla moglie “vai a casa e chiuditi dentro!”, corre in macchina e parte, svoltando l'angolo. Fa pochi metri, arriva in Via Marconi, e lì gli sparano in testa tre colpi di pistola calibro 22, uccidendolo sul colpo. Perché?

A dire la verità, Beppe Alfano non è un vero giornalista. O meglio, non lo è ufficialmente, non ha il tesserino dell'ordine, ha 47 anni, è un professore di educazione tecnica in una scuola media di un paese vicino. Ha cominciato con le radio private alla fine degli anni '70, a Messina, poi, negli anni '80, le televisioni locali. E i giornali, anche, da tre anni è il corrispondente locale per un quotidiano di Catania, la Sicilia. Politicamente, Beppe Alfano è un militante che viene dall'estrema destra e poi è approdato all' Msi di Giorgio Almirante, anche se ha spesso dei problemi con i vertici perché è troppo indipendente, troppo allergico ai compromessi, tanto che per un periodo viene anche sospeso dal partito. Un giornalista e un politico tutto d'un pezzo, un uomo di destra, quella di Paolo Borsellino, per esempio, che ha idee precise sull'ordine, sulla legge e sullo stato, e su quelle non scende a compromessi.

Un giorno, però, alla fine del '92, parlando con i familiari di quello che sta succedendo in città, Beppe Alfano dice che succederà qualcosa anche a lui. “Mi uccideranno entro la fine di dicembre”, dice. Dicembre passa, passa Natale, passa Capodanno ma l'incubo non svanisce. “Ormai è questione di giorni, dice agli amici. “Non mi hanno ucciso a dicembre, lo faranno prima della festa di San Sebastiano”.

Beppe Alfano non poteva saperlo, ma aveva detto la stessa cosa anche Pippo Iannello, un personaggio importante della criminalità organizzata di Barcellona, ad un altro pregiudicato, Maurizio Bonaceto. Beppe Alfano, aveva detto Iannello, era da considerarsi un uomo morto. Ma perché? Solo perché era bravo? Cosa succede a Barcellona in quegli anni?

In quel periodo è interessata da una lotta fratricida di mafia. E' la fine degli anni '80, quando inizia Mani Pulite. A Barcellona e nell'hinterland il vecchio sistema di potere comincia a scricchiolare. Intanto viene realizzato il raddoppio ferroviario che porta finanziamenti nuovi e finisce di rompere gli equilibri. E' un posto particolare, Barcellona, come lo è tutta la provincia di Messina. Dal punto di vista criminale Messina è sempre stata considerata una provincia “babba”, un po' tonta, perché lì la mafia non c'è, non ha saputo organizzarsi per sfruttare illegalmente le risorse del territorio. Ma non è vero. La mafia a Messina c'è, eccome, solo che non si vede molto. E come emergerà dalle indagini successive, dal processo “Mare Nostrum”, da quello che verrà chiamato il processo al “verminaio di Messina”, da quello che segue all'omicidio di una ragazzina di paese che forse aveva visto troppo e che si chiama Graziella Campagna, la mafia si è anche messa d'accordo con esponenti politici, ha fatto amicizia con magistrati e uomini delle forze dell'ordine per gestire indagini e processi e per garantire una latitanza dorata a boss ricercati. Si è messa in società con imprenditori per inserirsi nell'economia, anche quella illegale. Si è anche fusa con un'altra cosca, quella del boss Nitto Santapaola, che sta a Catania.

Una mafia così ci tiene a far credere di non esistere, a tenere tutto tranquillo e sottotono, a sembrare “babba”. Ma non è vero. Barcellona, per esempio, è un piccolo centro, ha quarantacinquemila abitanti, ma è sempre stato un posto importante per la mafia e fino dagli anni '70. Da lì passavano le rotte del contrabbando di sigarette che poi si sono trasformate in quelle della droga verso il continente, direttamente gestite dalla mafia di Palermo. Lì c'è una raffineria di eroina gestita dal boss Francesco Marino Mannoia, e sempre lì, a Barcellona, c'è un importante manicomio giudiziario, controllato da Cosa Nostra, in cui, grazie a perizie psichiatriche compiacenti, finiscono boss come Tano Badalamenti, boss della 'Ndrangheta e anche capi della mafia americana. Naturalmente, lì la vita è molto diversa da quella che normalmente ci sarebbe in un manicomio giudiziario, ed è facile anche evadere, quando si vuole. E poi, a Barcellona ci sono i soldi, c'è il raddoppio della linea-ferroviaria da fare, c'è l'autostrada Messina-Palermo, ci sono gli appalti e i subappalti. Tutto questo, tutta questa tranquillità che sembra avere il suo boss in Francesco Rugolo e il suo simbolo e il suo garante in un ricco imprenditore, Francesco Gitto, presidente della squadra di calcio cittadina, amico di politici come l'allora sottosegretario al Ministero degli Interni, parente di gente importante come Mario Cuomo, il governatore di New York, tutta questa tranquillità apparente viene sconvolta a metà degli anni '80.
Nel 1986, a Terme Vigliatore, vicino a Barcellona, torna Pino Chiofalo, detto “u' seccu”. “U' seccu” si è fatto tanti anni di galera, ma adesso è uscito e vuole la sua parte. Pino Chiofalo fa parte della piccola mafia che vuole emergere, fuori dalle regole e dal controllo di Cosa Nostra e quello che compie con i suoi 200 mila uomini, a Barcellona, è un vero e proprio bagno di sangue. Girolamo Petretta, storico referente delle famiglie palermitane, ammazzato nel novembre dell'87, Franco Emilio Iannello in marzo, Carmelo Pagano in luglio, Francesco Ghitto in dicembre. Quindici giorni dopo la morte di Francesco Ghitto c'è un blitz della polizia. Pino Chiofalo è a Pellaro, in provincia di Reggio Calabria , impegnato in un summit con i suoi luogotenenti, praticamente tutto lo stato maggiore della sua “famiglia”. La polizia arriva, a colpo sicuro, e li arresta tutti. “U' seccu” finisce dentro di nuovo, si prende l'ergastolo e resta in carcere fino al '95, quando comincia a collaborare con la giustizia. Ammette la responsabilità di tutti gli omicidi di quella sanguinosa guerra di mafia, ma accusa alcuni magistrati e alcuni esponenti delle forze dell'ordine di essere d'accordo con la cosca avversaria, sostenuta direttamente dal boss catanese Nitto Santapaola, che li avrebbe usati per toglierlo di mezzo in maniera pulita. Tolto di mezzo Chiofalo, la situazione si normalizza. Molti dei suoi passano con lo schieramento vincente e arrivano gli appoggi della cosca di Santapaola. Il capo dell'ala militare, l'uomo forte di Barcellona, il referente di Nitto Santapaola, diventa un giovane di buona famiglia, Giuseppe Gullotti.

Ancora. Dal 25 maggio 1992 anche a Barcellona c'è il Tribunale e c'è un pm che sembra considerarlo una trincea per la lotta alla Mafia. Viene dal nord e ha bisogno di informazioni, così tra il sostituto procuratore Olindo Canali e Beppe Alfano, il giornalista bene informato, il segugio che sa fare il suo mestiere, il cane sciolto che non guarda in faccia a nessuno e si lancia contro tutti per rispettare il suo ideale di verità e di giustizia, tra il giornalista e il magistrato d'assalto si stabilisce da subito un rapporto molto stretto. Poi, succede qualcosa. Beppe Alfano vuole parlare con il magistrato. Ma non c'è tempo.

Prima della festa di San Sebastiano aveva detto. La festa di San Sebastiano si tiene il 20 gennaio. L'8, la sua macchina accosta in via Marconi. Alfano abbassa il finestrino. Un colpo alla mano che si copre il volto, uno in bocca, uno alla tempia destra e uno al torace. Calibro 22, un calibro piccolo, da professionisti, silenzioso e micidiale se saputo usare. Perché? Cosa ha scoperto quel giornalista? Quel “cane sciolto” che sa fare bene il suo mestiere?

In quel periodo Beppe Alfano aveva alcune fissazioni. Una è l'influenza economica di Nitto Santapaola a Barcellona, per esempio. E' anche convinto che il boss di Catania sia nascosto l^ e ha ragione. Lui non lo sa, perché morirà prima, ma il boss per un po' di tempo è stato nascosto proprio a Barcellona. In via Trento, a pochi metri da casa sua. Un'altra è l'AIAS, un'associazione che si occupa di assistenza agli spastici, ha sedi in tutta la Sicilia e la sede di Milazzo è la più ricca e meglio finanziata, con centinaia e centinaia di dipendenti, un ingentissimo patrimonio immobiliare e un giro di miliardi. Nei suoi articoli, Beppe Alfano scrive di acquisti gonfiati, di assunzioni facili, di interessi privati, provocando un'inchiesta che coinvolge Nino Mostaccio, presidente dell'AIAS. Altra fissazione, Beppe Alfano sembra convinto di aver scoperto una loggia massonica deviata a Barcellona. A Barcellona, però, non c'è una loggia massonica. C'è un circolo, un circolo culturale molto antico che si chiama Corda Fratres, di cui fanno parte molti nomi noti di Barcellona, esponenti di tutti i settori della società e di tutte le parti politiche. Della Corda Fratres fanno parte molte persone note e rispettate, ma c'è anche un personaggio molto particolare, che al momento della sua iscrizione non è ancora salito alla ribalta della cronaca e almeno ufficialmente è ancora un bravo ragazzo di Barcellona, figlio di una famiglia bene. Il boss Giuseppe Gullotti.

Le indagini sull'omicidio di Beppe Alfano si concludono in fretta. Il 18 novembre 1993 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina emette tre ordinanze di custodia cautelare in carcere. Una è per Nino Mostaccio, il presidente dell'AIAS, accusato di essere il mandante dell'omicidio Alfano. L'altra è per Giuseppe Gullotti, accusato di essere l'organizzatore dell'omicidio. La terza è per Nino Merlino, considerato uno dei Killer del clan di Gullotti. Ad accusarlo è un collaboratore di giustizia, Maurizio Bonaceto, che dice di essere passato per via Marconi la sera dell'omicidio e di aver visto che parlava con Alfano.

Il 15 maggio 1996, la Corte d'Assise di Messina condanna Nino Merlino a 21 anni e 6 mesi e assolve Nino Mostaccio e Giuseppe Gullotti. Bonaceto a ritrattato tutto e così anche un altro testimone chiamato in causa, Lelio Coppolino. Ricorso in appello da parte di pm e difesa di Merlino e nuovo processo.

Il 6 febbraio 1998 la Corte d'Appello conferma la condanna a Merlino e capovolge la sentenza per Gullotti, condannandolo a trent'anni. Mostaccio esce dal processo, completamente scagionato.

La Corte di Cassazione annulla la condanna di Merlino, per cui deve essere rifatto il processo e il 17 aprile 2002, la Corte d'Assise di Regio Calabria cambia ancora e assolve Nino Merlino. In carcere resta soltanto Giuseppe Gullotti, condannato a trent'anni per aver organizzato l'omicidio di Beppe Alfano.

Ma non finisce qui. C'è un collaboratore di giustizia, che si chiama Maurizio Avola. E' di Catania e fa parte della cosca di Nitto Santapaola. E' un uomo importante, che faceva parte del gruppo di fuoco che uccise un altro giornalista, Giuseppe Fava, a Catania, e quando collabora confessa almeno cinquanta omicidi. Parla anche di Alfano. Maurizio Avola dice che Alfano sarebbe stato ucciso su ordine di Cosa Nostra perché aveva scoperto che dietro il commercio degli agrumi si nascondevano gli interessi di Nitto Santapaola e di insospettabili imprenditori legati alla massoneria. Riciclaggio di denaro sporco attraverso i fondi della Comunità Europea, grosse quantità di denaro spariscono nel nulla. Un'attività che farebbe capo a Barcellona. Su questo argomento esiste un'indagine della Procura Distrettuale Antimafia di Messina, ancora in corso e di cui non si conoscono gli sviluppi. Il mistero, per adesso, resta ancora. Chi ha ucciso Beppe Alfano? E perché?
Carlo Lucarelli – L'UNITA' – 03/03/2003

domenica 6 gennaio 2013

6 Gennaio 1980
Piersanti Mattarella 44 anni, politico democristiano, presidente della Regione Siciliana

Piersanti Mattarella (Castellammare del Golfo, 24 maggio 1935 – Palermo, 6 gennaio 1980) è stato un politico italiano, assassinato dalla mafia mentre era presidente della Regione Siciliana.

Figlio di Bernardo Mattarella, uomo politico della Democrazia Cristiana, e fratello di Sergio Mattarella. Crebbe con istruzione religiosa, studiando a Roma al San Leone Magno, dei Fratelli maristi. Dopo l’attività nell’Azione cattolica, si dedicò alla politica nella Democrazia Cristiana. Fra i suoi ispiratori ci fu Giorgio La Pira, avvicinandosi alla corrente politica di Aldo Moro e divenendo consigliere comunale a Palermo.
Assistente ordinario all’Università di Palermo, fu eletto all’Assemblea regionale siciliana nel 1967 nel collegio di Palermo, rieletto per tre legislature. Dal 1971 al 1978 fu assessore regionale alla Presidenza. Fu eletto presidente della Regione Siciliana nel 1978, guidando una giunta di centro sinistra, con il sostegno esterno del PCI. Nel 1979 dopo una breve crisi politica, formò un secondo governo.

Rappresentò una chiara scelta di campo il suo atteggiamento alla Conferenza regionale dell’agricoltura, tenuta a Villa Igea la prima settimana di febbraio del 1979. L’onorevole Pio La Torre, presente in quanto responsabile nazionale dell’ufficio agrario del Partito Comunista Italiano (sarebbe divenuto dopo qualche mese segretario regionale dello stesso partito) attaccò, con furore, l’Assessorato dell’agricoltura, denunciandolo come centro della corruzione regionale, e additando lo stesso assessore come colluso alla delinquenza regionale. Mentre tutti attendevano che il presidente della Regione difendesse vigorosamente il proprio assessore, sgomentando la sala, Mattarella riconobbe pienamente la necessità di correttezza e legalità nella gestione dei contributi agricoli regionali.
Un solo periodico sfidando il clima imposto pubblicò il resoconto, sottolineando come fosse generale lo sconcerto e come fosse comune la percezione che si apriva, quel giorno a Palermo, un confronto che non avrebbe non potuto conoscere eventi drammatici. Un senatore comunista e il presidente democristiano della regione si erano, di fatto, esposti alle pesanti reazioni della mafia.

Il 6 gennaio 1980, appena entrato in auto insieme con la moglie e col figlio per andare a messa, un killer si avvicinò al suo finestrino e lo uccise a colpi di pistola. In quel periodo stava portando avanti un’opera di modernizzazione dell’amministrazione regionale. Si presume che ad ordinare la sua uccisione fu Cosa Nostra, a causa del suo impegno nella ricerca di collusioni tra mafia e politica.

Inizialmente considerato un attentato terroristico, il delitto fu indicato da Tommaso Buscetta come delitto di mafia. Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, Giulio Andreotti era consapevole dell’insofferenza della mafia per la condotta di Mattarella, ma non avvertì né l’interessato né la magistratura, pur avendo partecipato ad almeno due incontri con capi mafiosi aventi ad oggetto proprio la politica di Piersanti Mattarella e, poi, il suo omicidio. Il fatto viene riportato nella sentenza del giudizio di Appello del lungo processo allo stesso Giulio Andreotti confermata dalla Cassazione nel 2004. La stessa sentenza afferma che l’allontanamento di Andreotti dal sodalizio mafioso fu dovuta proprio all’efferato delitto Mattarella.
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Trentuno anni fa, nel giorno dell’Epifania, in una Palermo indaffarata a riporre l’albero di Natale nel ripostiglio, si accasciava al suolo l’uomo più in vista della Sicilia dell’epoca, il suo Presidente: Piersanti Mattarella. Morto paradossalmente in una strada che porta il nome di Libertà, il presidente siciliano era stato il punto di riferimento della parte sana della società civile e di quell’esigua minoranza politica che aveva a cuore gli interessi del proprio popolo. Un elemento raro da trovare. Gli uomini politici del suo calibro, quelli che combattono a testa alta contro la sopraffazione, la corruzione e le infiltrazioni criminali, a costo anche della propria vita, sono oggi in via d’estinzione.

Piersanti Mattarella divenne il portavoce di una ventata di cambiamento allorquando, in un’aula gremita alla Conferenza regionale dell'agricoltura, tenuta a Villa Igea la prima settimana di febbraio del 1979, dopo l’intervento dell’onorevole Pio La Torre, che denunciava l'Assessorato dell'agricoltura, designandolo come centro della corruzione regionale e additando lo stesso assessore come colluso alla delinquenza regionale, quando tutti si aspettavano una sua dura presa di posizione contro il politico comunista e in difesa del proprio assessore, il Presidente stupì tutti, parlando dell’importanza della legalità e della correttezza all’interno delle Istituzioni. Ma la sua lotta alle collusioni politico-criminali non si limitò ad una pura esibizione di retorica antimafiosa. No, Mattarella andò oltre: continuò a denunciare le irregolarità che poteva constatare e fece pulizia all’interno del partito e nel Consiglio regionale.

Aveva incarnato, per un attimo e con gesti che dovrebbero essere normali e doverosi da parte di un rappresentante delle Istituzioni, il sogno di quei Siciliani che pretendevano di vivere in una terra migliore ed incontaminata e credo che avrebbe potuto benissimo rappresentare la bandiera portata in alto da quei tanti giovani armati di coraggio e speranza che oggi resistono a questo sistema corrotto al grido di “fuori la mafia dallo Stato!”. Un grido che ci ricorderà per sempre la sua instancabile voglia di spendersi per una Sicilia migliore. Era un uomo speciale, Piersanti Mattarella. E un politico di quelli che non ne nascono più. Forse lo capì più in fretta Cosa nostra, che gli tolse la vita, in via della Libertà, il giorno dell’Epifania di trentuno anni fa. E tolse alla Sicilia un’altra speranza di cambiamento.
Serena Verrecchia

sabato 5 gennaio 2013

5 Gennaio 1984
Giuseppe Fava detto Pippo 59 anni, giornalista

Giuseppe Fava detto Pippo (Palazzolo Acreide, 15 settembre 1925 – Catania, 5 gennaio 1984) è stato uno scrittore, giornalista e drammaturgo italiano, oltre che saggista e sceneggiatore.
Fu un personaggio carismatico, apprezzato dai propri collaboratori per la professionalità e il modo di vivere semplice. È stato direttore responsabile del Giornale del Sud e fondatore de I Siciliani, secondo giornale antimafia in Sicilia. Il film Palermo or Wolfsburg, di cui ha curato la sceneggiatura, ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1980. È stato ucciso nel gennaio 1984 e per quel delitto sono stati condannati alcuni membri del clan mafioso dei Santapaola. È stato il secondo intellettuale ad essere ucciso da Cosa nostra dopo Giuseppe Impastato (9 maggio 1978). È il padre del giornalista e politico Claudio Fava.
Alle ore 22 del 5 gennaio 1984 Giuseppe Fava si trovava in via dello Stadio e stava andando a prendere la nipote che recitava in Pensaci, Giacomino! al Teatro Verga. Aveva appena lasciato la redazione del suo giornale. Non ebbe il tempo di scendere dalla sua Renault 5 che fu freddato da cinque proiettili calibro 7,65 alla nuca.
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"Chi non si ribella al dolore umano, non è innocente", diceva Pippo Fava. Parole sacrosante che, se rivolte ad un popolo disinteressato e spesso omertoso come quello italiano e, ancor di più, quello siciliano, pesano come un macigno. Sì, perché, per consuetudine propria di questo Paese, l'Italiano, quando all'estero gli cuciono addosso l'etichetta del mafioso, del criminale, pensa di poter accantonare il tutto con uno sbrigativo "purtroppo in Italia abbiamo la mafia, la camorra, la 'ndrangheta, uno dei più pericolosi sistemi criminali al mondo insomma, ma io non sono uno di loro, io ho altro a cui pensare, questi non sono problemi miei". E invece no. Chi accetta nel silenzio il rafforzarsi dei poteri criminali, il loro lento instaurarsi nei grovigli più inconcepibili e inarrivabili della società e delle Istituzioni, chi si arrende al predominio della presenza mafiosa in tutti i settori imprenditoriali, politici, finanziari ed amministrativi del Paese, è uno di loro. Un complice silenzioso, uno che non incapperà facilmente in asperità e seccature, ma pur sempre un complice. Chi non si ribella al dolore umano e al vassallaggio nei confronti della mafia, in sintesi, non è innocente. Vittima innocente era invece Pippo Fava, giornalista siciliano ucciso da Cosa nostra il 5 gennaio 1984, ventisette anni fa. Anche se poi tanto innocente Pippo non lo era stato. Non lo era stato perché, di uova nel paniere alla mafia ne aveva rotte, e tante.


Nato a Palazzolo Acreide il 15 settembre 1925, Pippo si trasferì presto a Catania, dove stazionò per brevi periodi di tempo, dedicandosi totalmente al proprio lavoro, che lo costrinse a viaggiare da un versante all'altro della Sicilia, alla ricerca della Verità. Si laureò in giurisprudenza, ma, divenuto giornalista professionista, iniziò a collaborare con alcune testate regionali e nazionali. Pippo Fava amava raccontare la verità. Le violenze della mafia, le infiltrazioni all'interno delle Istituzioni, le collusioni tra malaffare, politica ed imprenditoria; ma anche la realtà siciliana di per sé, le sfaccettature del vivere quotidiano del suo popolo, le condizioni sociali in cui era riversato. Fu scrittore, drammaturgo e sceneggiatore oltre che giornalista. C'è anche il suo nome infatti nei titoli di coda del film "Palermo or Wolfsburg", vincitore dell'Orso d'Oro al Festival di Berlino del 1980.

Fu caporedattore dell'Espresso sera, successivamente direttore responsabile del Giornale del Sud, quotidiano che conquistò in breve tempo il titolo di difensor Iustitiae Libertatisque, difensore della Giustizia e della Libertà, perseguite attraverso la ricerca costante della Verità. Pippo Fava basava il proprio lavoro di giornalista su principi etici e morali e, difatti, lo disse anche lui stesso: " Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo." Nonostante i buoni risultati ottenuti in veste di direttore del Giornale, dai piani alti lo licenziarono, sia perché si oppose all'installazione di una base missilistica a Cosimo, sia per la sua avversione nei confronti dei "novelli imprenditori" approdati in redazione, tra i quali Gaetano Graci e Salvatore Lo Turco, di cui si scoprirono in seguito i rapporti con i boss del clan Santapaola. Nel 1982, con pochi giovani e volenterosi, fondò il mensile "I Siciliani", da dove continuò imperterrito le sue denunce, pur conscio del destino cui andava incontro: "Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, per dio! Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa... ". Metteva a nudo la Verità sulle pagine del suo giornale. Elencava i delitti e i crimini di cui si macchiavano gli uomini d'onore di Cosa nostra, imputava alla politica e all'imprenditoria stretti legami con il malaffare, come, ad esempio, quello che intrattenevano i "cavalieri dell'Apocalisse" con Nitto Santapaola. Si trattava dei quattro imprenditori più famosi di Catania e, forse, dell'intera isola: Graci, Costanzo, Finocchiaro e Rondo, dei loro loschi affari e degli stretti rapporti che avevano con gli ambienti criminali. Poi, però, improvvisamente tutto finì, una sera di gennaio del 1984, quando arrivò il ragazzotto con il mezzo milione in tasca. O forse anche meno. Sta di fatto che lo freddò con cinque colpi di pistola alla testa, mentre scendeva dalla sua auto per andare a prendere la nipote che recitava al teatro. Come da copione, iniziarono immediatamente i depistaggi, gli inquirenti cercarono di liquidare tutto con il solito movente del delitto passionale, ma, dopo anni in attesa di Giustizia, sono stati condannati definitivamente per l'omicidio Fava, Benedetto Santapaola, come mandante, e Aldo Ercolano e Maurizio Avola, come esecutori materiali.

Con Pippo Fava, il giornalismo ha assaporato per un attimo quella Libertà che consente di sentirsi vivi, quella Libertà che porta alla ricerca insistente e tenace della Verità, affinché l'opinione pubblica possa uscire da quello stato di oblio che la costringe a girarsi dall'altra parte e possa finalmente dare una scossa alle proprie coscienze. Con Pippo Fava, il giornalismo ha conquistato quella Libertà che gli spetta di diritto per metterla al servizio della Giustizia. Pippo Fava era un giornalista libero, la cui storia e la cui passione non dovrebbero esimerci dal nostro compito civile e morale di continua ricerca e perseguimento della Giustizia e della Verità.

Grazie Pippo, perché hai vissuto da uomo libero in uno Stato schiavo.
Serena Verrecchia