giovedì 30 agosto 2012

30 Agosto 1982
Vincenzo Spinelli commerciante

A Palermo ucciso il giovane commerciante Vincenzo Spinelli. Secondo il collaboratore di giustizia Francesco Onorato, aveva fatto arrestare l'autore di una rapina avvenuta nel suo negozio, un giovane parente dei capimafia Giuseppe Savoca e Masino Spadaro.

mercoledì 29 agosto 2012

29 Agosto 1991
Libero Grassi 67 anni, imprenditore

Libero Grassi (Catania, 19 luglio 1924 – Palermo, 29 agosto 1991) è stato un imprenditore italiano, ucciso dalla mafia dopo aver intrapreso un’azione solitaria contro una richiesta di estorsione (conosciuta in Sicilia come “pizzo”), senza ricevere alcun appoggio, per il meritevole gesto, da parte delle associazioni di categoria.
Nella metà degli anni ’80 iniziano i problemi con la criminalità organizzata. Grassi riceve una telefonata di minacce alla sua incolumità personale, se non pagherà una certa somma a due emissari che gli presenteranno per riscuotere: egli rifiuta di pagare. La prima conseguenza del suo rifiuto è il rapimento di Dick, il cane lasciato a guardie degli stabilimenti della SIGMA, che verrà poi restituito in fin di vita.
Dopo poco tempo, due giovani a volto scoperto tentano di rapinare le paghe dei dipendenti della fabbrica: saranno identificati e arrestati grazie ad alcuni dipendenti di Grassi. Ma in cuor suo Libero sa che è solo l’inizio, poiché la sua azienda, terza leader italiana nel settore della pigiameria, con un fatturato di sette miliardi, non può non suscitare gli appetiti dei malavitosi palermitani.
Il 10 gennaio 1991 Libero Grassi fa pubblicare al “Giornale di Sicilia” una lettera nella quale motiva razionalmente il suo no all’ennesimo ricatto estorsivo: ”… Volevo avvertire il nostro ignoto estorsore che non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia…...se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”.
L’imprenditore rifiuta l’offerta di una scorta personale, ma consegna simbolicamente alle forze di polizia le quattro chiavi dell’azienda, chiedendo così protezione per gli stabilimenti della SIGMA.
Nel frattempo l’imprenditore viene contattato da Sandro Ruotolo, redattore di “Samarcanda”, che lo invita a RAI 3 per parlare della sua lotta condotta, purtroppo, nell’indifferenza degli industriali siciliani. La trasmissione dell’11 aprile 1991 è fondamentale nell’iter di contrapposizione al crimine che Grassi sta conducendo, perché rende il suo caso di dominio nazionale, quale emblema civile della lotta alla mafia. A questo punto rendendosi conto del ruolo che sta assumendo, dichiara con forza a Santoro: “Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte con i mafiosi”.
Libero Grassi viene assassinato il 29 agosto 1991 alle ore 7:30 del mattino.
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29 agosto 2010. Sono le sette e mezzo del mattino del 29 agosto 1991. Un uomo sulla settantina esce di casa e, come ogni giorno, si incammina verso la sua azienda di biancheria, la Sigma. È un imprenditore noto, amato e temuto dai suoi dipendenti, uscito alla ribalta grazie a qualche trasmissione televisiva che ha raccontato la sua storia e ad alcune lettere pubblicate sui giornali che sono lì, a testimonianza delle sue battaglie. La fama non gli ha portato la felicità, tantomeno gli ha attirato addosso l’invidia della gente. Puoi essere felice e invidiato se sei un calciatore, un attore, un uomo di spettacolo, ma se la tua fama è legata all’opposizione alla mafia, diventi un “famoso” al contrario: nessuno ti cerca, la maggior parte delle persone ti evita. Ma quell’uomo non si ferma, continua a camminare a testa alta, a difendere strenuamente e con orgoglio la propria libertà dalle prepotenze mafiose.
Continua a camminare, finché due uomini non lo raggiungono, gli si avvicinano, tirano fuori una pistola calibro 38 e gli sparano addosso quattro colpi. Quel corpo che ora giace inerme a terra, era appartenuto ad un uomo coraggioso, intelligente e battagliero; un uomo che si chiamava Libero.
Questi nacque a Catania il 19 luglio 1924 e visse la maggior parte della sua adolescenza a Palermo, prima di trasferirsi a Roma durante gli anni della guerra. Appartenente ad una famiglia antifascista, anch’egli dimostrò una profonda avversione nei confronti del regime di Benito Mussolini e nei confronti della politica nazista e antisemita. Per questo, dopo essersi iscritto alla facoltà di Scienze Politiche, entrò in convento come seminarista, per sfuggire alla guerra ed evitare di servire gli ideali di uomini folli. Nel ’45 tornò con la famiglia a Palermo e conseguì la laurea in Legge e, sebbene volesse intraprendere una carriera di diplomatico, prese in mano le redini dell’attività imprenditoriale di famiglia.

Tuttavia, un imprenditore a Palermo è soggetto ad una tassa in più da pagare; una tassa che non gli impone lo Stato, ma la mafia: il pizzo. E così arrivarono le prime richieste da parte degli esattori di Cosa nostra. Il lungo calvario iniziò negli anni Ottanta con una telefonata di un certo “zio Stefano”, che pretendeva cinquanta milioni di lire. Libero risponde di no, così “ignoti” ladri entrarono nella sua azienda e gli rubarono gli stipendi destinati agli operai, per un totale, neanche a farlo apposta, di cinquanta milioni. Arrivarono nuove richieste e nuove minacce, finché Libero non decise di prendere carta e penna e scrive una lettera, pubblicata sul “Giornale di Sicilia” il 10 gennaio 1991, diretta al suo estorsore, che iniziava così: “Volevo avvertire il nostro ignoto estorsore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia.”
Il giorno dopo giornalisti e poliziotti si presentarono sotto casa sua e sulla porta delle aziende commerciali, così quel piccolo imprenditore diventò un simbolo della lotta all’estorsione e l’incarnazione vivente del sogno di una Sicilia libera dalle prepotenze mafiose.
Libero di nome e di fatto, quando gli chiedevano se avesse paura di eventuali ritorsioni da parte di Cosa nostra, rispondeva: “Paura? E perché? La paura fa il gioco della mafia. Bisogna avere il coraggio di fare scelte precise, di decidere da che parte stare. E non farsi cogliere da sentimenti irrazionali.” Eppure la punizione della mafia non si fece attendere e, il 29 agosto 1991, due sicari lo uccisero brutalmente sulla strada che lo portava al lavoro.
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martedì 28 agosto 2012

28 Agosto 1980
Carmelo Jannì albergatore

Carmelo Jannì era [...] un imprenditore. “Un idealista che amava stare tra la gente” dicono di lui le persone che lo hanno conosciuto. Gestiva un hotel a conduzione familiare in un paesino in provincia di Palermo. Un bell’albergo, a ridosso del mare, in cui anche i famigerati chimici marsigliesi, che si occupavano della raffinazione della droga, misero piede nei terribili anni Ottanta. Fu per questo che la polizia chiese all’imprenditore il permesso di poterli spiare da vicino sotto copertura, come uomini del personale, e di accedere alle loro stanze per perquisirle. Quel senso dello Stato di cui si parlava prima, impose a Carmelo Jannì di accettare. Il 24 agosto 1980, gli stessi poliziotti fecero un blitz in una raffineria vicino Palermo e riuscirono ad arrestare anche il boss Gerlando Alberti, detto “u paccarè”. Quattro giorni dopo, il 28 agosto 1980, due uomini entrano nell’albergo di Carmelo, alle tre e trenta del pomeriggio, ma questa volta non sono poliziotti, sono mafiosi, killer che gli sparano al cuore e alla testa e lo lasciano morire sul pavimento della sua hall. “U paccarè” aveva dato l’ordine dal carcere e i suoi scagnozzi avevano eseguito.
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28 agosto 2010. 30 anni fa la mafia uccideva Carmelo Jannì. E’ difficile che oggi ne sentiate parlare nei tg. E’ difficile che oggi avvenga qualche commemorazione con le più alte cariche dello Stato. E' difficile che troviate un aeroporto, ma nemmeno una stazione, una villa, un giardino, uno stadio, una strada, un vicolo intitolato a Carmelo Jannì. Non era né un poliziotto, né un magistrato. Un cittadino. Ucciso dalla mafia perché aveva consentito ai poliziotti di infiltrarsi nel suo albergo per potere effettuare un’operazione che sarebbe poi andata a buon fine con l’arresto di un boss di spicco. E la mafia restituì la “cortesia”. Uccidendolo appena 4 giorni dopo quell’operazione.
Alle 15,30 del 28 agosto 1980, due uomini entrano in un albergo di Villagrazia di Carini. Nella hall c’è il proprietario. Gli sparano al cuore e alla testa. Carmelo Jannì muore così. Lasciando moglie e tre figlie, la più piccola di 11 anni.
E’ questo l’epilogo della storia di un eroe per caso. Una storia che inizia quando la Polizia chiede al signor Jannì di contribuire a un’azione investigativa. Nell’hotel gestito da Jannì, infatti, alloggiano alcuni chimici venuti da Marsiglia a Palermo per insegnare le tecniche di raffinazione della droga ai chimici locali.
La polizia aveva bisogno di potere seguire tutti i passi, tutte le conversazioni di quegli scienziati venuti dalla Francia. Potere perquisire le loro stanze. E c’era un modo solo. Travestirsi da personale dell’hotel, così da non potere dare nell’occhio.
Carmelo Jannì disse “si, va bene”. Senza sapere che mentre pronunciava quelle parole, pronunciava altresì la propria condanna a morte.
Perché la Polizia, dopo giorni di indagini, il 24 agosto 1980, fece un blitz in una villa di Trabia. Gli stessi poliziotti che si erano infiltrati nell’hotel trovarono la raffineria. Li arrestarono tutti. Con grande sorpresa degli stessi agenti, trovarono anche Gerlando Alberti senior, detto 'u paccarrè', il temuto boss della mafia.
E fu proprio il boss, dal carcere, a ordinare l’omicidio di Carmelo Jannì. Responsabile di avere agevolato la Polizia, in maniera determinante, nella propria attività di indagine.
Carmelo Jannì non aveva nessun dovere, se non quello morale. Probabilmente non sarà mai rappresentato come icona dell’antimafia. Probabilmente mai il suo nome verrà urlato nei cortei. Probabilmente mai la sua effige sarà stampata su una magliettina.
E nessuno, probabilmente mai, penserà di dedicargli un film.
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28 Agosto 1979
Calogero Di Bona 35 anni agente di custodia

Calogero Di Bona era un maresciallo del Corpo degli Agenti di Custodia in servizio presso la Casa Circondariale di Palermo. Nato a Villarosa (EN) il 29 agosto del 1944, scomparve alla vigilia del suo trentacinquesimo compleanno, il 28 agosto 1979. La moglie ricorda che quel giorno le disse che sarebbe andato a prendere un caffè dopo aver accompagnato i figli dalla nonna, ma non si rividero mai più. Le indagini sulla sua scomparsa furono affidate al giudice Rocco Chinnici, il quale era sicuro che la misteriosa scomparsa di Di Bona fosse strettamente legata al lavoro che svolgeva, al suo status di servitore fedele dello Stato, sempre ligio al proprio dovere. Ma quando il tritolo si portò via il magistrato, anche la speranza di fare chiarezza sulla scomparsa del giovane maresciallo svanì e, sebbene gli inquirenti classifichino la scomparsa come un caso di “lupara bianca”, a distanza di anni, la verità non è ancora venuta a galla. Il movente pare sia stato una relazione che l’ufficiale fece in seguito ad un pestaggio di un agente di custodia all’interno del carcere, per denunciare l’accaduto. Per questo sarebbe stato punito dalla mafia. Nessuno però, ha ancora punito la mafia per la sua scomparsa.
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lunedì 27 agosto 2012

27 Agosto 1996
Santa Puglisi 22 anni
Salvatore Botta 14 anni

Stretta nei vestiti a lutto di giovane vedova di mafia, ogni giorno portava fiori freschi sulla tomba del suo compagno, ammazzato alcuni mesi fa. Neanche nel torrido agosto catanese aveva voluto rinunciare a questa mesta cerimonia, ripetuta con scrupolo proprio nelle ore più calde della giornata. Santa Puglisi, 22 anni, moglie e vedova di mafia, era anche figlia di mafioso. Anzi aveva un cognome di quelli che a Catania fanno subito venire alla mente faide senza fine: il padre e' Antonino Puglisi, capo della cosiddetta cosca "Da Savasta", attualmente in carcere perché ritenuto mandante di altre crudeli vendette trasversali. Con la giovane vedova ieri al cimitero erano andati anche due nipoti del capomafia, Salvatore Botta di 14 anni ed una ragazzina di appena 12 sulla cui identità viene mantenuto il riserbo. Su questo gruppetto familiare si e' abbattuta la furia bestiale di un killer solitario. Un sicario spietato e deciso a consumare vendetta, sfregiando le vittime e di riflesso il boss detenuto. La sua mano si e' fermata solo davanti alla piccola dodicenne alla quale però non e' stato risparmiato uno spettacolo di morte che forse non dimenticherà per tutta la vita. Il cadavere della giovane vedova resta riverso all'interno della cappella che porta la scritta "Famiglia Puglisi". Sulla tomba del marito, Matteo Romeo, ucciso il 23 novembre scorso alla Pescheria di Catania, la grande foto scattata nel giorno del matrimonio: lui sorridente nel vestito a festa mentre stringe un grosso bouquet di fiori. Poco lontano dalla cappella, scomposto nel vano tentativo di fuggire alla morte, il corpo di Salvatore Botta. Un' istantanea di morte che fa sprofondare Catania. Una scena che lascia sgomenti gli stessi inquirenti e spinge anche un magistrato come Mario Amato, abituato ad indagini su stragi ed a omicidi di mafia, a fare commenti da punto di non ritorno. "Quanto a degrado e atrocità a Catania non si era mai scesi così in basso, commenta. Abbiamo proprio toccato il fondo. Purtroppo in questa città continuano questo tipo di stragi che coinvolgono innocenti e purtroppo anche questo sangue non riesce più a stupire e scuotere". Stando alle indagini il sicario non si è limitato ad uccidere la figlia ed il nipote del boss Antonino Puglisi. Li ha pure oltraggiati prima di ammazzarli. Chi ha agito conosceva le abitudini di Santa Puglisi e sapeva che giornalmente si recava al cimitero. A quanto pare si e' rintanato nei viali del cimitero già alcune ore prima e ha nascosto la pistola, una "calibro 7,65", all' interno di un vaso con i fiori. È sbucato fuori: prima ha colpito Santa Puglisi alle spalle, poi al volto. Quindi si è accanito contro Salvatore Botta, raggiunto dai primi colpi di pistola mentre tentava di scappare e poi preso a calci prima del colpo di grazia sempre al volto. "Forse – affermano gli inquirenti – il giovane è stato ucciso perché aveva visto in faccia l' assassino". Miracolosamente salva l'altra nipote di Antonino Puglisi. Ieri pomeriggio la piccola è stata la prima ad essere ascoltata dal magistrato inquirente nella speranza di riuscire a ricostruire l'identità dell' assassino.
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domenica 26 agosto 2012

26 Agosto 1986
Salvatore Benigno cassiere

Ucciso a Palermo Salvatore Benigno, cassiere presso un cinema, che vide dare alle fiamme un'auto da due mafiosi che avevano commesso un omicidio.

lunedì 20 agosto 2012

20 Agosto 1977
Giuseppe Russo 49 anni, carabiniere
Filippo Costa 59 anni, insegnante

Giuseppe Russo (Cosenza, 6 gennaio 1928 – Ficuzza, 20 agosto 1977) è stato un carabiniere italiano.
Tenente colonnello dei carabinieri, era tra gli uomini di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa ed era il comandante del Nucleo Investigativo di Palermo quando fu assassinato dalla mafia mentre si occupava del caso Mattei.
Quando fu ucciso era a Ficuzza, frazione di Corleone, dove stava trascorrendo le vacanze, e stava passeggiando con l’insegnante Filippo Costa, pure lui ucciso insieme a Russo per non lasciare testimoni dell’omicidio.



La mafia non va in vacanza, nemmeno la settimana di Ferragosto. Quando ci sono conti da regolare, tutto il resto passa in secondo piano. E di conti aperti con Cosa nostra, il tenente colonnello Giuseppe Russo ne aveva più di uno, in quel lontano 1977. Comandante del Nucleo Investigativo di Palermo e uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’ufficiale calabrese era l’unico, insieme al giudice Cesare Terranova e al commissario Boris Giuliano, ad aver intuito la pericolosità dei Corleonesi di Totò Riina nell’organigramma criminale degli anni Settanta.

“Un nemico irriducibile dei mafiosi”, lo definivano i colleghi, che voleva mettere i bastoni tra le ruote a Cosa nostra nella sua brutale caccia ai subappalti, che gravitavano attorno alla costruzione della diga Garcia. L’affare del secolo per le cosche; ma non fu solamente quello a costargli la vita. Il fatto che fosse un mastino alle calcagna di Riina e Provenzano decretò la sua condanna a morte. Aveva persino finto dissidi con gli altri comandi del capoluogo, nella speranza di un aggancio con don Tano Badalamenti per una “soffiata” sui nascondigli dei due boss. Catturare i due Corleonesi era ciò che gli stava più a cuore e non lo si può certo biasimare se si pensa che, se fosse riuscito ad acciuffarli a quei tempi, l’Italia oggi avrebbe meno morti da piangere.

Il commando di morte, però, fu mobilitato ancora prima che i sogni di Giuseppe Russo potessero ben delinearsi. La sera del 20 agosto di trentatré anni fa, l’uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa perse la vita davanti ad un bar di Ficuzza, frazione di Corleone, territorio dei boss. Il colonnello non fu l’unica vittima dell’agguato. Filippo Costa, un insegnante che non aveva niente a che fare col mondo della mafia, morì insieme all’ufficiale, colpevole solo di aver voluto fare quattro passi con un amico.

Ecco come ricordò quella tragica sera del 1977 il giornalista Mario Francese, sul “Giornale di Sicilia”, all’indomani dell’omicidio:

“Al bar entrò soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si accorse di una ’128’ verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad ’U’ e si fermò proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di ’Minerva’. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima sigaretta.

Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due.

Appena furono vicini aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia.

Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo.

Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo «in via Ausonia sotto casa a Palermo e il professor Costa a Misilmeri, dove abitava?- si chiede ancora il giornalista- No, perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”

Per l’omicidio del tenente colonnello e del suo amico professore furono inizialmente condannati tre pastori: Salvatore Bonello, Rosario Mulè e Casimiro Russo; quest’ultimo, autoaccusatosi, aveva chiamato in causa gli altri due; ma nel ‘97 vengono assolti e la II sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo condanna definitivamente all’ergastolo Leoluca Bagarella, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano per l’assassinio di Giuseppe Russo e Filippo Costa.
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domenica 19 agosto 2012

19 Agosto 1949 Sttrage di passo di Rigano – Bellolampo
Giovan Battista Aloe 23 anni, carabiniere
Armando Loddo 22 anni, carabiniere
Segio Mancini 24 anni, carabiniere
Pasquale Antonio Marcone 27 anni, carabiniere
Gabriele Palandrani 23 anni, carabiniere
Carlo Antonio Pabusa 23 anni, carabiniere
Ilario Russo 21 anni, carabiniere
http://www.liberanet.org/wordpress/?p=391
La strage di Passo di Rigano – Bellolampo si inquadra nel difficile contesto del secondo Dopoguerra. Era il 1949. L’eccidio fu consumato alle 21.30 del 19 agosto in quella che allora era una piccola borgata alle porte di Palermo, posta sulla strada provinciale SP1 di accesso alla città provenendo da Partinico e Montelepre. Una strada, dunque, di obbligato passaggio. Qui il bandito Salvatore Giuliano, detto “Turiddu”, fece esplodere una potente mina anticarro, collocata lungo la strada. La deflagrazione investì l’ultimo mezzo, con a bordo 18 carabinieri, di una colonna composta da 5 autocarri pesanti e da due autoblindo che trasportavano complessivamente 60 unità del “XII Battaglione Mobile Carabinieri” di Palermo. L’esplosione dilaniò il mezzo e provocò la morte di sette giovani carabinieri. Erano tutti di umili origini, provenivano da varie città italiane: Giovan Battista Aloe, classe 1926, da Cosenza, Armando Loddo, classe 1927, da Reggio Calabria, Sergio Mancini, classe 1925, da Roma, Pasquale Antonio Marcone, classe 1922, da Napoli, Gabriele Palandrano, classe 1926, da Ascoli Piceno, Carlo Antonio Pabusa, classe 1926, da Cagliari, e il più giovane, Ilario Russo, classe 1928, da Caserta. Altri dieci carabinieri rimasero feriti, alcuni subirono gravi mutilazioni.
Quel tragico pomeriggio i militari dell’Arma delle caserme “Carini” e “Calatafimi” erano pronti per uscire in permesso serale quando giunse la notizia dell’ennesimo attacco, con l’utilizzo di mitragliatrici e bombe a mano, della banda Giuliano alla caserma dei carabinieri dell’isolata località di Bellolampo. Erano le 18. A seguito dell’allarme, molti ragazzi si presentarono volontariamente al punto di raccolta: si equipaggiarono rapidamente e non esitarono a salire sui mezzi per portare aiuto ai colleghi, pur consci del grave pericolo a cui andavano incontro. Giunti a Bellolampo, effettuarono il rastrellamento dell’area insieme ad un piccolo contingente di agenti di pubblica sicurezza, giunto a bordo di “camionette”. L’esito negativo li convinse verso le 21 a rientrare. Il piano di attacco del bandito Giuliano prevedeva però una esecuzione in tre tempi: l’attacco dimostrativo alla caserma di Bellolampo, con lo scopo di attirare le forze di polizia in una zona particolarmente adatta all’agguato; la strage della colonna sulla via di ritorno; l’assalto alle forze che da Palermo sarebbero accorse. A Passo di Rigano i banditi avevano posto una grossa mina legata con un filo di ferro, nascondendosi sul lato opposto in un folto boschetto, attendendo il rientro a Palermo dell’autocolonna. Il rumore dei motori annunciò agli attentatori l’arrivo dei mezzi dei carabinieri, uno strappo al filo di ferro e la mina si posizionò tra le ruote posteriori dell’ultimo autocarro al comando del tenente Milillo e del brigadiere Tobia, che erano nella cabina di guida. Il fragoroso scoppio fece fermare l’autocolonna, i carabinieri ed i poliziotti saltarono a terra dai mezzi e corsero verso il luogo dell’esplosione. Fra i feriti, il più grave, il Carabiniere Ilario Russo, morirà il giorno dopo all’ospedale militare di Palermo. Alla notizia dell’attentato l’ispettore generale di Pubblica sicurezza Verdiani, il generale dei carabinieri Polani, il colonnello Tuccarin, il maggiore Jodice e un vice questore con due automobili si diressero verso Passo di Rigano. Attraversata piazza Noce, nel tratto di strada per Passo di Rigano, le autovetture subirono una aggressione da parte di un gruppo di fuorilegge appostati dietro un muro che costeggiava la strada. Una prima bomba colpì l’autovettura dell’ispettore Verdiani e del generale Polani, altre bombe e raffiche di mitra colpirono l’altro mezzo. Gli occupanti si salvarono la vita abbandonando il mezzo.

lunedì 13 agosto 2012

13 Agosto 1955
Giuseppe Spagnuolo 54 anni, politico comunista

Giuseppe Spagnuolo lavorava a Cattolica Eraclea ed era un coraggioso amministratore di 54 anni. Era un sindaco comunista di Cattolica Eraclea, attivista della camera del lavoro, presidente della cooperativa agricola La Proletaria e della locale associazione di contadini. Spagnuolo si impegnava nella lotta a favore dell’occupazione delle terre. Lo ricordiamo perché nonostante le minacce e le intimidazioni non si è mai tirato indietro, ha sempre portato avanti il suo dovere di amministratore onesto e coraggioso, erede dei valori di giustizia e legalità. Giuseppe Spagnuolo venne ucciso il 13 agosto del 1955.

sabato 11 agosto 2012

11 Agosto 1982
Paolo Giaccone 53 anni, medico legale

Paolo Giaccone (Palermo, 21 marzo 1929 – Palermo, 11 agosto 1982) è stato un medico italiano.

Fu assassinato tra i viali alberati del Policlinico di Palermo.

Giaccone era uno dei più grandi esperti di medicina legale. Divideva il suo impegno tra l'istituto di Medicina legale che dirigeva e le consulenze per il palazzo di giustizia. Aveva ricevuto l'incarico di esaminare un'impronta digitale lasciata dai killer che nel dicembre 1981 avevano scatenato una sparatoria tra le vie di Bagheria con quattro morti come risultato. L'impronta era di un killer della cosca di Corso dei Mille ed era l'unica prova che poteva incastrare gli assassini.

Il medico ricevette delle pressioni perché aggiustasse le conclusioni della perizia dattiloscopica. Giaccone rifiutò ad ogni invito e ogni minaccia e il killer fu condannato all'ergastolo. In seguito il pentito Vincenzo Sinagra rivelò i dettagli del delitto incolpando Salvatore Rotolo che venne condannato all'ergastolo al primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Per le minacce a Paolo Giaccone fu arrestato un avvocato che al telefono lo avrebbe invitato a cambiare i risultati della perizia dattiloscopica.
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Dovevo esserci anch'io quel mattino. Ogni giorno insieme da casa all'Ospedale, verso il nostro lavoro così diverso eppure uguale negli intenti: tu Professore con i tuoi studi, il tuo laboratorio, con le tue analisi, ed io studentessa in Medicina. Io non c'ero. Meno male? Per quello che ho passato in questi anni direi che sarebbe stato meglio finirla quel caldo giorno accanto a te, insieme come eravamo vissuti. Ma se guardo gli occhi profondi dei miei figli dico che, forse, è giusto che abbia passato la soglia del dolore, che l'ansia e l'angoscia mi abbiano rapita la vita per lungo tempo. Non esiste controprova, comunque. Ho sempre cercato di immaginare quello che era accaduto nel vialetto alberato, tra le auto posteggiate e sull'asfalto caldo che accolse il tuo corpo. Quei due che attendevano il tuo arrivo ... il "palo" fuori dall'Ospedale dentro una 126. Le otto e un quarto. Posteggi l'auto, ti avvii al tuo giorno ... ti avvicinano, forse ti chiamano, e sparano con due pistole ... due proiettili alla tua sinistra ... cadi su quel lato e ... dopo ... un altro colpo alla tua destra. Crolli sull'asfalto e con te cade il tuo mondo, il nostro mondo. E' tutto finito. Gli assassini fuggono, scavalcano il muro di cinta dell'Ospedale ... vengono visti su una potente moto, uno di loro ha una smorfia di riso sulle labbra. Al primo uomo che ti soccorre, qualcuno con un camice bianco dice: " E' il Professore Giaccone". Poi gli assassini vanno ancora ad ammazzare. E' tutto qui il tuo giorno di morte. Essere stata assente in quel momento... è stato il mio incubo. Quando ti hanno ricomposto nella bara, dicendomi (per pietà) che non avevi subito autopsia, ti ho guardato, gridando col pensiero: "Basta! Non scherzare più!" E il freddo mi avvolge...Mi chino per baciarti la fronte, ed il freddo mi avvolge le membra, il cuore, il cervello e la vita... La sensazione del dolore la provai in quel momento: è freddo, il dolore, avvolgente... Come un ragno che trattiene l'insetto nella ragnatela, così il dolore ha avvolto il mio animo. Da quel momento ho capito che non eri più accanto a me...
Milly Giaccone

giovedì 9 agosto 2012

9 Agosto 1991
Antonio Scopelliti 56 anni, magistrato

Antonino Scopelliti era un magistrato, nato a Campo Calabro (RC) il 20 gennaio 1935.

Entrato in magistratura a soli 24 anni, ha svolto la carriera di magistrato requirente, iniziando come Pubblico Ministero presso la Procura della Repubblica di Roma, poi presso la Procura della Repubblica di Milano. Procuratore generale presso la corte d'Appello quindi, Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione. Seguì una eccezionale carriera, che lo portò ad essere il numero uno dei sostituti procuratori generali italiani presso la Corte di Cassazione. Si è occupato di vari maxi processi, di mafia, camorra, 'ndrangheta e terrorismo.

E' stato ucciso a 56 anni in un agguato il 9 agosto del 1991 in località Campo Piale a Campo Calabro, il paese a pochi chilometri da Villa San Giovanni (Reggio Calabria) del quale il magistrato era originario e dove tornava ogni anno per trascorrervi le vacanze estive.

Senza scorta, metodico nei suoi movimenti, Scopelliti viene intercettato dai suoi assassini mentre, a bordo della sua automobile, una Bmw, rientrava in paese dopo avere trascorso la giornata al mare. L' agguato avviene all' altezza di una curva, poco prima del rettilineo che immette nell' abitato di Campo Calabro. Gli assassini, almeno due persone a bordo di una moto, appostati lungo la strada, sparano con fucili calibro 12 caricati a pallettoni. La morte del magistrato, colpito alla testa ed al torace, istantanea. L'automobile, priva di controllo, finisce in un terrapieno. In un primo tempo si pensò che Scopelliti fosse rimasto coinvolto in un incidente stradale. L'esame esterno del cadavere e la scoperta delle ferite da arma da fuoco fecero emergere la verità sulla morte del magistrato.

Secondo i pentiti della 'ndrangheta Giacomo Lauro e Filippo Barreca, sarebbe stata la cupola di Cosa Nostra siciliana a chiedere alla 'ndrangheta di uccidere Scopelliti, che avrebbe rappresentato la pubblica accusa in Cassazione nel maxi processo a Cosa nostra. Cosa nostra, in cambio del ''favore'' ricevuto, sarebbe intervenuta per fare cessare la ''guerra di mafia'' che si protraeva a Reggio Calabria dall'ottobre 1995, quando fu assassinato il boss Paolo De Stefano. Nell' abitazione del padre di Scopelliti, dove il magistrato soggiornava durante le vacanze, fu trovato il fascicolo del processo alla ''Cupola'' di Cosa nostra.

Dopo una serie di processi, con condanne ed assoluzioni, nel 2001, la Corte d' Assise d'Appello di Reggio Calabria assolve Bernardo Provenzano, Giuseppe e Filippo Graviano, Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffre' e Benenetto Santapaola dall'accusa di essere stati i mandanti. L'omicidio Scopelliti rimane quindi impunito.
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L’ultimo delitto eccellente – l’uccisione di Antonino Scopelliti – è stato realizzato, come da copione, nella torbida estate meridionale cosicché, distratti dalle incombenti ferie di Ferragosto e dalla concomitanza di altri gravi eventi, quasi non vi abbiamo fatto caso.
Unico dato certo è l’eliminazione di un magistrato universalmente apprezzato per le sue qualità umane, la sua capacità professionale e il suo impegno civile. Ma ciò ormai non sembra far più notizia, quasi che nel nostro Paese sia normale per un magistrato – e probabilmente lo è – essere ucciso esclusivamente per aver fatto il proprio dovere.
Ma se, mettendo da parte per un momento l’emozione e lo sdegno per la feroce eliminazione di un galantuomo, si riflette sul significato di questo ennesimo delitto di mafia, ci si accorge di una novità non da poco: per la prima volta è stato colpito direttamente il vertice della magistratura ordinaria, la suprema corte di Cassazione.
Non è questa la sede per azzardare ipotesi, né si pretende di suggerire nulla agli investigatori; ma il dato di cui sopra è sicuramente di grande importanza e merita particolare attenzione.

Non importa stabilire quale sia stata la causa scatenante dell’omicidio, ma è certo che è stato eliminato un magistrato chiave nella lotta alla mafia, uno dei più apprezzati collaboratori del procuratore generale della corte di Cassazione, addetto alla trattazione di gran parte dei più difficili ricordi riguardanti la criminalità organizzata.
Queste qualità della vittima, ignote al grande pubblico, erano ben conosciute invece dagli addetti ai lavori e, occorre sottolinearlo, anche dalla criminalità mafiosa. L’eliminazione di Scopelliti è avvenuta quando ormai la suprema corte di Cassazione era stata investita dalla trattazione del maxiprocesso alla mafia palermitana e ciò non può essere senza significato. Anche se, infatti, l’uccisione del magistrato non fosse stata direttamente collegata alla celebrazione del maxiprocesso davanti alla suprema corte, non ne avrebbe comunque potuto prescindere nel senso che non poteva non essere evidente che l’uccisione avrebbe influenzato pesantemente il clima dello svolgimento del maxiprocesso in quella sede. E se tale ovvia previsione non ha fatto desistere dal delitto, ciò significa che il gesto, anche se non direttamente ordinato da Cosa Nostra, alla stessa non era sgradito. Non si dimentichi, si ribadisce, che Antonino Scopelliti era un magistrato la cui uccisione avrebbe sicuramente determinato l’addensarsi di pesanti sospetti su Cosa Nostra, come in effetti è avvenuto.
Si aggiunga che l’omicidio di Scopelliti è avvenuto in territorio di Calabria, in una zona dove finora non erano stati uccisi magistrati o funzionari impegnati nella lotta alle cosche. Ciò è stato correttamente interpretato come un preoccupante “salto di qualità” che non potrà non influenzare il futuro della lotta alle organizzazioni mafiose calabresi e che già da adesso, suona come un grave segnale di pericolo per tutti coloro che in quelle terre sono impegnati in questa, finora impari, battaglia. Se così è – e purtroppo ben pochi dubbi possono sussistere al riguardo – le conseguenze sono veramente gravi.

E’ difficilmente contestabile, infatti che le organizzazioni mafiose (Cosa Nostra siciliana e ‘ndrangheta calabrese) probabilmente sono molto più collegate tra di loro di quanto si affermi ufficialmente e che le stesse non soltanto conoscono il funzionamento della macchina statale, ma non hanno esitazioni a colpire chicchessia, ove ne ritengano l’opportunità; e alla luce dell’esperienza fatta non si può certo dire che queste organizzazioni abbiano fatto passi falsi.

Non sembri un caso che il maxiprocesso – qualunque ne sia la valutazione che ognuno ritenga di darne in termini di efficacia alla lotta alla mafia – sia stato scandito in tutte le sue fasi, a cominciare dalle investigazioni preliminari, da assassinii di magistrati e di investigatori con conseguente pesante e inevitabile condizionamento psichico per tutti coloro che per ragioni di ufficio se ne sono dovuti occupare.
Adesso il maxiprocesso – che gronda del sangue dei migliori magistrati e investigatori italiani – è approdato all’ultima istanza di giudizio, la Cassazione, ed era stato affidato a chi, Antonino Scopelliti, già più volte, con serenità e coraggio, aveva espresso il punto di vista della pubblica accusa, in ultimo opponendosi alla scarcerazione preventiva per decorrenza dei termini degli imputati; scarcerazione poi concessa dalla suprema corte con conseguente intervento governativo.
Non ci vuol molto a capire, allora, che, a parte le eventuali causali dell’omicidio di Scopelliti, lo stesso sarebbe stato inevitabilmente recepito dagli addetti ai lavori come una intimidazione nei confronti della suprema corte e che se è stato tuttavia consumato, le organizzazioni mafiose non temono le eventuali reazioni dello Stato.

Ognuno è in grado di comprendere, dunque, qual è il grado di pericolosità raggiunto dalle organizzazioni mafiose.
L’opinione pubblica, nel periodo del terrorismo, ha cominciato a rendersi conto della sua pericolosità con l’inizio degli attentato contro persone che, sconosciute ai più, rivestivano in realtà grande importanza nei meccanismi produttivi del Paese (vedi, per esempio, l’omicidio di Carlo Ghiglieno a Torino). Probabilmente stiamo attraversando adesso, nel campo della criminalità organizzata, una fase analoga. Si spera che l’ultimo infame assassinio faccia comprendere quanto grande sia la pericolosità criminale delle organizzazioni mafiose e che se ne traggano le conseguenze. Al riguardo, nel rilevare che attualmente è tutto un fiorire di ricette per battere la criminalità organizzata, ci si permette di suggerire che, ferma l’opportunità di scegliere moduli organizzativi adeguati, è giunto ormai il tempo di verificare sul campo la bontà degli stessi e, nel concreto, l’effettivo impegno antimafia del governo.
Giovanni Falcone, "La Stampa", 17 agosto 1991

martedì 7 agosto 2012

7 Agosto 1952
Filippo Intile contadino, militante comunista

Nelle campagne di Caccamo (Palermo) viene ucciso a colpi d'accetta il contadino Filippo Intile: voleva dividere il prodotto dei campi che aveva a mezzadria al 60% per il mezzadro e il 40% per il proprietario, in base a un decreto del ministro Fausto Gullo dell'ottobre 1944. A molti anni dal decreto agrari e mafiosi pretendevano di dividere ancora al 50%.

lunedì 6 agosto 2012

6 Agosto 1985
Ninni Cassarà 37 anni, poliziotto
Roberto Antiochia 23 anni, poliziotto

La strage di via croce rossa
Ninni Cassarà era vicedirigente della Squadra mobile di Palermo ed era riconosciuto come uno dei migliori investigatori della Polizia del capoluogo siciliano. Aveva guidato insieme ai colleghi americani l’operazione denominata “Pizza Connection” che aveva portato all’arresto di decine di mafiosi tra Italia e Stati Uniti e guidato molte operazioni contro la mafia, insieme al suo amico e stretto collaboratore Beppe Montana ( assassinato dalla mafia il 28 Luglio ), sotto il coordinamento del pool antimafia della procura di Palermo. Intorno alle 14,30 del 6 Agosto il vicequestore Cassarà stava facendo rientro a casa, in Viale Croce Rossa a Palermo, insieme a tre collaboratori della propria sezione, uno dei quali era l’agente Roberto Antiochia, il quale, pur prossimo al trasferimento per Roma, dopo l’omicidio del commissario Montana, aveva deciso di rimanere accanto al proprio dirigente. Quando l’Alfetta blindata con i quattro poliziotti entrò nel cortile del palazzo dove abitava il vicequestore Cassarà, dall’ammezzato di un edificio vicino, le cui finestre davano sul cortile interno, una decina di mafiosi armati di Kalashnikov fecero fuoco. Il vicequestore Cassarà e l’agente Antiochia morirono sul colpo, falciati da decine di proiettili. Un terzo agente venne gravemente ferito. Il quarto agente, l’assistente Natale Mondo, si salvò per miracolo riparandosi sotto alla vettura.

L'ALFETTA BLINDATA, di colore bianco, è appena entrata nel cortile del condominio di Via Croce Rossa, al civico 81, a due passi dalla Stadio comunale. Alla guida c'è Natale Mondo, al suo fianco, Ninni Cassarà. Alle spalle di Mondo, Roberto Antiochia. Il primo a scendere dall'auto è proprio Antiochia che poi apre lo sportello di Cassarà per coprirgli le spalle. Entrambi passano di fronte al cofano. Si scatena una tempesta di piombo. Cassarà è colpito a un braccio. Roba da nulla. Si lancia al volo verso i cinque scalini esterni. Capisce che se ce la fa a entrare, può salvarsi. Anche Antiochia scavalca i cinque scalini, ma è in quel momento che viene colpito mortalmente alla testa. E lì finisce la sua corsa.
Laura Cassarà, la moglie di Ninni, in quei giorni brutti è molto preoccupata, dorme poco, e telefona costantemente in Questura per sapere se tutto è a posto. Quel giorno è normale che sia affacciata al balcone con in braccio la figlia Elvira di due anni, all'ottavo piano. È in attesa del marito che rientra dal lavoro per una veloce pausa pranzo. Dopo dirà che in quel momento, udito il frastuono dei colpi, pensa che si tratti di una bomba. In realtà dal terzo, quarto e quinto piano del palazzo di fronte, a meno di trenta metri di distanza, vengono giù cascate di fuoco, raffiche di centinaia e centinaia di colpi di kalashnikov. Indirizzate verso il basso, ma, precauzionalmente, anche verso l'alto. Natale Mondo, che nel frattempo si è rannicchiato fra l'auto e l'ingresso della portineria, le urla di rientrare. All'esterno del condomino, intanto, una dozzina di uomini travestiti da militari, stanno deviando il traffico impedendo a chiunque di entrare in via Croce Rossa. Hanno persino le palette dei vigili urbani. Ninni Cassarà è finalmente dentro l’edificio. Con una sola falcata sopravanza un'altra piccola rampa, una decina di scalini. In quell'istante viene raggiunto da un altro colpo. Ma questa volta all'aorta. Laura si precipita giù per le scale, trascinandosi dietro la bambina che piange. Suona a ogni pianerottolo. Nessuno apre. Verso la fine della sua corsa, una porta finalmente si socchiude e un braccio caritatevole le strappa di mano Elvira, mettendola in salvo. Laura, che dal balcone ha visto com'è iniziata, e che Ninni si è tuffato dentro, è convinta di trovarlo vivo. Lo troverà invece morto, in un lago di sangue. A due passi, una rampa sotto, c'è Roberto Antiochia, uno degli angeli custodi di Ninni, fra i più fedeli. L'urlo delle sirene delle ambulanze e delle auto di legioni di poliziotti si protrae per un giorno intero. Disperazione, sgomento. Ma anche tante finte lacrime. Cominciò tutto alle 15 del 6 agosto 1985, una giornata di caldo africano. Finì tutto in una decina di minuti. Natale Mondo sopravvisse. Lo ammazzarono nel 1988 all'Arenella, mentre tirava su la saracinesca del negozio di giocattoli per bambini che aveva chiamato: “Il mondo dei balocchi”. Chi erano? Da tempo erano morti che camminavano. Da tempo erano segnati, non potevano salvarsi, e lo sapevano. […]
Chi era Ninni Cassarà? Un poliziotto moderno. Leggeva libri di storia, Portava gli occhiali, essendo miope. Gli piaceva il tennis. Aveva fatto il classico al Liceo Garibaldi, il migliore della città, e si era laureato a pieni voti in giurisprudenza. Era un intellettuale, espressione di una fragile borghesia che cercava di chiudere qualsiasi canale di collegamento con tutto ciò che di illegale era rappresentato proprio dai boss che aggredivano ogni forma di economia lecita. Con Laura si erano sposati nel ’72, quando lui aveva venticinque anni e lei ventitré. Cassarà aveva una memoria d'acciaio. Una concezione sacrale del lavoro di poliziotto: i delinquenti andavano arrestati. Sapeva cosa fossero le “prove”. Ci fu lui dietro i grandi successi del maxi processo.
Qualche data. Il 1972. Laurea in giurisprudenza, a Palermo, relatore Giuseppe Mirabella, docente di economia politica. Tesi: “Strategia economica degli Stati Uniti in campo internazionale”. Inizio della tesi: «L'intera storia americana è caratterizzata da una costante tendenza all'espansione: sete di terra, sete di nuovo, sete di grandezza, sete di potere». Conclusione, 250 pagine dopo: «È sufficiente sapere che l'esistenza di questi punti deboli (decisioni economiche, militari e finanziarie) crea nuove possibilità di mutamento in campo internazionale e in ogni caso porta in primo piano la lezione inesorabile della storia contemporanea: nessuna nazione può guidare i destini del mondo intero».
Entrò in polizia nel 1974, a 27 anni. Quando fu ucciso, ne aveva 38. Quale fu la sua stagione? Quelli erano gli anni dei primi pentimenti mafiosi di Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno. Gli anni della scoperta delle raffinerie in cui l'oppio, arrivato dall'Oriente, a Palermo diventava eroina purissima. La stagione del patto fra massoneria piduista e mafia. La stagione dell'uccisione di un altro grande poliziotto, Boris Giuliano, che Ninni Cassarà ebbe modo di conoscere, o di Dalla Chiesa, con il quale invece non fece in tempo a incontrarsi. Ma anche quelli del giudice Rocco Chinnici che lo stimava tanto.
Il settimanale L'Espresso (8 aprile 1984) titola: “A Palermo c'è un commissario che somiglia in tutto a quello della Piovra. Si chiama Antonino Cassarà, e al processo Chinnici ha detto molte cose sulla potente famiglia dei Salvo. Da allora è più solo che mai”. Verissimo. Cassarà rivela che Chinnici, prima di finire assassinato, aveva intenzione di arrestare i cugini Nino e Ignazio Salvo, espressione del più importante potentato economico e democristiano nella Sicilia di quegli anni. Piero Calderoni scrisse sul L'Espresso: «Il giorno dopo le dichiarazioni del commissario Cassarà, i Salvo si fanno vivi con un comunicato in cui denunziano “il grado di approssimazione col quale il dottore Cassarà porta avanti l'alimentazione dei sospetti”». Non è facile, in casi del genere, dire da quando dati l'isolamento. Certo che il rapporto scritto da Cassarà, insieme al carabiniere Angiolo Pellegrini, nell'estate 1981, contro il padrino dell'epoca, Michele Greco, e contro altri 161 imputati di mafia non gli aveva provocato amicizie nella città dei morti che camminano. Poi tutto precipitò. Il 29 luglio 1985, Giuseppe Montana, capo della “sezione catturandi”, fu assassinato a Porticello. Anche lui, a bordo dei Vespini 50 o di auto prese in prestito (quelle di servizio erano regolarmente sfasciate), si inerpicava con Cassarà e gli altri ragazzi della squadra in cima a Gibilmanna. Qualche giorno dopo quel delitto, venne arrestato un giovane di borgata, Salvatore Marino pesantemente coinvolto nel delitto. Entrò alla squadra mobile per un interrogatorio, ma la notte ne uscì cadavere. Torturato a morte, buttato in mare da un gruppo di poliziotti che architettarono una macabra messinscena fingendo poi il ritrovamento di un annegato. L'impressione fu enorme. Esplose l'affaire. Cassarà riuscì a dimostrare la sua estraneità. Altri suoi colleghi, invece, vennero rimossi in tronco da Oscar Luigi Scalfaro, che all'epoca era ministro degli interni. In una manciata di giorni, la Squadra mobile di Palermo fu azzerata. Il tam tam di mafia condannò a morte Cassarà. L'ultimo atto, al civico 81 di Via Croce Rossa.

Ninni Cassarà, un poliziotto moderno. Saverio Lodato, L’unità 6 Agosto 2005-
6 Agosto 1980
Gaetano Costa 64 anni, magistrato

Gaetano Costa (Caltanissetta, 1916 – Palermo, 6 agosto 1980) è stato un magistrato italiano ucciso dalla mafia.
Procuratore Capo di Palermo all’inizio degli anni ottanta, fu assassinato dalla mafia il 6 agosto 1980, mentre sfogliava dei libri su una bancarella, sita in un marciapiede di via Cavour a Palermo, a due passi da casa sua, freddato da tre colpi di pistola sparatigli alle spalle da due killer in moto. Causa di quella spietata esecuzione, il fatto che egli avesse firmato personalmente dei mandati di cattura nei confronti del boss Rosario Spatola ed alcuni dei suoi uomini che altri suoi colleghi si erano rifiutati di firmare.

Di lui scrisse un suo sostituto che era un uomo “di cui si poteva comperare solo la morte”.
Alle 19:30 del 6 agosto 1980, mentre passeggiava da solo ed a piedi, morì dissanguato sul marciapiede di via Cavour a Palermo. Al funerale parteciparono poche persone soprattutto pochi magistrati. Non va dimenticato che, pur essendo l’unico magistrato a Palermo al quale, in quel momento, erano state assegnate un’auto blindata ed una scorta, non ne usufruiva ritenendo che la sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che lui era uno di quelli che “aveva il dovere di avere coraggio”. Nessuno è stato condannato per la sua morte ancorché la Corte di assise di Catania ne abbia accertato il contesto individuandolo nella zona grigia tra affari, politica e crimine organizzato. Da molti settori, compresa la Magistratura, si è cercato di farlo dimenticare anche, forse, per nascondere le colpe di coloro che lo lasciarono solo e, come disse Sciascia, lo additarono alla vendetta mafiosa. Il suo impegno fu continuato da Rocco Chinnici, allora tra i pochi che lo capirono e ne condivisero gli intenti e l’azione, e, per questo ne seguirà la sorte.
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Acuto e duro nella lotta alla mafia il magistrato siciliano Gaetano Costa. Un procuratore della Repubblica che a Palermo sconvolge gli equilibri paludosi del Palazzo di Giustizia e indaga sui delitti eccellenti della fine degli anni Settanta coniugando la tecnica giudiziaria alla conoscenza del fenomeno mafioso. Chiamato a Roma dal ministro di Grazia e Giustizia, Tommaso Morlino, per relazionare sullo stato delle cose a Palermo, nel chiuso dell’ufficio, alla fine del discorso, testimonia Giacomo Spataro, all’epoca presidente del tribunale del capoluogo siciliano: «di scatto si alzò ed assumendo un’espressione di dura fermezza, accompagnato da un gesto della mano, quasi a significare la forza dell’opinione che stava per manifestare, come a far intendere che una tale forza, una tale fermezza, un tale rigore erano mancati nella lotta alla mafia disse queste poche parole «la mafia si può vincere colpendola nelle ingenti ricchezze accumulate, nella sua ingente forza finanziaria, nei suoi forzieri, nei canali ingegnosi attraverso i quali passa il flusso di queste ingenti ricchezze grondanti di sangue, di molto sangue, di quello versato dalle vittime». Tra quelle vittime presto ci sarà anche lui. Isolato da molti in quel Palazzo che di Giustizia ne dispensava poca. Con un percorso inverso a quello di Mario Amato, sostituto lasciato solo dal suo capo. Per Costa accade l’esatto contrario. Il procuratore ha un’idea antesignana del pool. Indagini collettive degli inquirenti per impedire che si possano creare dei bersagli. Ma il progetto crolla in una celebre riunione della procura di Palermo il 9 maggio del 1980. Tre mesi dopo Gaetano Costa sarà ucciso. Il procuratore della Repubblica sa che carabinieri e polizia su iniziativa del questore stanno ricucendo una delicata inchiesta che va oltre lo Stretto di Messina e mette in relazione Palermo con Milano, Torino con Roma. Costa, da parte sua, lavora ad una pista consistente che lega politica e mafia. È stato a stretto contatto con Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione Sicilia che ha denunciato vicende legate agli appalti per la costruzione di alcune scuole affidati a ditte riconducibili alla mafia. Ma il giorno dell’Epifania di quel tragico anno Mattarella, mentre va a messa, viene ucciso. Pochi giorni prima della riunione voluta da Costa la mafia ha ucciso alla fine di una processione a Monreale il capitano dei carabinieri, Emanuele Basile. Il contesto è difficile. Anche in questura a Palermo la situazione è complicata dopo la morte del capo della Mobile, Boris Giuliano, avvenuta l’anno precedente mentre la vittima si recava al lavoro. I poliziotti hanno sospetti su alcuni giudici e hanno paura di redigere rapporti che si possono tramutare in condanne a morte. Il fronte della fermezza a Palermo è costituito da Costa, dal questore Immordino e dal consigliere istruttore Rocco Chinnici che è solito incontrare il procuratore della Repubblica in ascensore per impedire che qualche talpa intercetti le loro parole.
A Costa, pochi giorni dopo l’omicidio Basile, giunge un rapporto. Il questore Immordino scrive che Rosario Spatola, i Gambino a New York e gli Inzerillo detengono il monopolio dell’eroina nel mondo. Per Spatola stanno per scadere i termini della custodia cautelare. Costa “è un giudice prudente” riferirà al Csm Rocco Chinnici dopo il suo omicidio. Guarda e riguarda il rapporto. Convoca una riunione di tutti i sostituti per il 9 maggio nella sua stanza. La sera precedente a casa del sostituto Scicchitano quelli intenzionati a far fronda guardano le carte coperte da segreto istruttorio e decidono per il pollice verso.
Costa propone di emettere 55 ordini di cattura. Indica lacune e positività del rapporto. Fa capire a chiare lettere che va dato un segnale di fermezza. I sostituti si mostrano scettici. Lui ne ha parlato anche con il procuratore aggiunto Gaetano Martorana che si era mostrato accondiscente verso la sua linea. Ma si guarda bene del partecipare alla riunione. Si legge nei diari di Costa dopo la sua morte un appunto del 9 settembre del 1978 scritto a futura memoria di Martorana: “A suo criterio dovrei solo svolgere funzioni di rappresentanza e in effetti è riuscito (finora) ad isolarmi di fatto e a far filtrare fino a me solo pochissime pratiche…. Credo che sarebbe felice se potesse internarmi”. In quella riunione in cui si devono decidere gli arresti nell’ufficio del procuratore della Repubblica ogni nome di mafioso è uno scoglio insormontabile. Costa comprende. Croce e Scicchitano che hanno interrogato gli arrestati argomentano col garantismo il no alle manette. Costa ribatte le sue idee. Uno dei due gli dice “Allora se li firmi lei”. Dirà 12 anni dopo al processo per l’omicidio nella sua arringa l’avvocato di parte civile Zupo: “la sfida è stata raccolta senza parole, senza questioni, col semplice tratto di quella firma solo un po’ più dilatato e grande del solito… Perché Costa come il capitano Bellodi di Sciascia è un uomo e non un ominicchio o un quaquaraquà”. Costa ringrazia tutti e resta solo nel suo studio “consapevole di aver imboccato una strada senza ritorno”. Fuori da quella stanza aspettano gli avvocati dei mafiosi e i loro parenti e i giornalisti che già hanno odore e sentore di quello che sta accadendo. Croce con un sorrisetto obliquo sulle labbra e Scicchitano con una certa drammatizzazione fanno trapelare subito la notizia che il procuratore ha deciso di firmare da solo i 55 mandati di cattura. Palermo trasmette la notizia di bocca in bocca e l’indomani è pronta a commentare i resoconti dei giornali.
Fa una scelta solitaria in stile con la toga molto particolare quel signore di 64 anni abbattuto dal piombo mafioso nel centro di Palermo a pochi metri dalla prefettura. “Un antisimbolo” scrive Mario Farinella all’indomani della sua morte su L’Ora di Palermo tratteggiando questo ritratto: “Era l’antisimbolo per cultura, per educazione, per naturale disposizione. Si considerava ed era soltanto un caparbio amministratore della giustizia, un uomo apparentemente comune, disadorno, dalla vita semplice, essenziale nelle parole, nei gesti, nel lavoro e perciò era un magistrato di audace modernità, razionale e puntiglioso, di raro rigore morale e intellettuale”. Era nato il primo marzo del 1916 a Caltanissetta. Piccolo di statura, sempre gilet e giacca, di ottima cultura umanistica ricavata da ore di lettura. A Caltanissetta consegue la licenza liceale. Poi studia Legge a Palermo. Da ragazzo aderisce al Partito Comunista siciliano clandestino. Infatti insieme alla moglie Rita Bartoli, discendente di patrioti carbonari, aderisce alla sinistra frequentando il circolo di cospiratori che annovera Emanuele Macaluso, Leonardo Sciascia, Gino Cortese. Vince il concorso in magistratura e inizia la sua carriera a Roma. Si arruola nell’aviazione e come ufficiale ottiene due croci di guerra. Alla data dell’otto settembre è uno di quelli che sceglie la via del riscatto e la parte giusta. Raggiunge la Val Susa e combatte con i partigiani. Torna a Caltanissetta dove diventa sostituto procuratore. Restituisce la tessera al partito. Si occupa della mafia di campagna e del rapporto con gli agrari. Ne coglie le trasformazioni imprenditrici nell’assalto ai centri urbani. Nel 1966 diventa procuratore capo a Caltanissetta. Per capire la sua conoscenza della mafia sono inoppugnabili le dichiarazioni che rende alla Commissione parlamentare Antimafia che arriva in Sicilia nel 1969 “In un certo paese ad esempio, il sindaco, concede un appalto e prima lo fa regolarmente. Ma la regolarità è solo apparente, in quanto effettivamente invitato è soltanto uno: gli altri non sono stati invitati; però si fa figurare che lo siano stati, e l’appalto viene dato al primo”. E gli esempi che pone Costa tratti dalla sua esperienza sono da manuale: i concorsi, la punizione della guardia municipale onesta, la licenza di un distributore che ostruisce la strada, le certificazioni false previdenziali. I profitti illeciti e il sistema di potere che opprime. E Costa quando nessuno mette il naso in certe faccende a Caltanissetta compie accertamenti nella Banca rurale di Mussomeli, nella Banca Artigiana di San Cataldo, alla filiale del Banco di Sicilia di Campofranco. Fanno clamore manette a clienti, banchieri, funzionari. I colletti bianchi locali temono Costa che fa compiere accertamenti alla Banca d’Italia scoprendo che i miliardi di un crac erano legati agli appalti della mafia imprenditrice.
Costa è anche un magistrato tecnicamente dotato. Nel 1970 quando partecipa al concorso per la promozione in Cassazione, il presidente della sessione, Flores, presidente vicario della Suprema Corte e eminente giurista affermerà: “Ho letto i suoi titoli, il suo curriculum e ritengo di dire che ci troviamo di fronte ad un magistrato di grande valore”.
Sono elementi utili alla grande svolta del 1978. Il quadro politico nazionale e siciliano modificato dalla collaborazione dei comunisti che appoggiano esternamente i due governi e le nuove irruenze della mafia inducono ad un passaggio epocale deciso dal Csm. Il nuovo procuratore della Repubblica a Palermo è estraneo alla città e non fa parte della corrente di Magistratura indipendente. L’ex procuratore Giovanni Pizzillo diventa procuratore generale. A Palermo nella procura centrale della mafia arriva Gaetano Costa. Uno che viene da Caltanissetta con le sue specifiche competenze su Cosa Nostra. Una toga rossa particolare che non aderisce per esempio a Magistratura democratica ma che ha invece la tessera dell’Unione Magistrati italiani, che ben spiega il giudice Di Lello: “è tanto corporativa da essere anacronistica: scomparirà con l’avvento del sistema proporzionale nelle elezioni per il Csm”.
Una toga rossa a Palermo mette i brividi a tanti. Anche se Emanuele Macaluso in un ricordo postumo sostiene: “Posso testimoniare che in quarant’anni di amicizia Costa non parlò mai, con me e con altri, di vicende giudiziarie, di fatti che lo coinvolgessero come magistrato”. Certo un ex partigiano con la schiena dritta che sa come combattere la mafia mette agitazione sotto il Monte Pellegrino. Quando nel febbraio si ufficializza la nomina la palude giudiziaria si agita come testimonia una bella inchiesta del giornalista Sottile sul “Giornale di Sicilia” che ben ricostruisce quel contesto. I nomi attesi erano altri per quella carica fondamentale per gli equilibri palermitani. Costa non era stato messo in conto da nessuno quindi scrive “Il suo successo ha sovvertito ogni previsione, ha stravolto ogni progetto. Ora rischia di intaccare ogni preordinato equilibrio di potere”. Perché a Palermo l’azione penale mette a rischio imperi finanziari, politici ed economici enormi. Il primo contraccolpo non si fa attendere. Infatti Pizzillo evita la consuetudine del “possesso anticipato” ritardando per mesi la prassi che prevede l’avvicendamento immediato del nuovo procuratore. Quel ritardo provocherà la lettura terroristica della morte di un giovane dilaniato dall’esplosivo a Cinisi nel maggio del 1978. Si chiama Peppino Impastato. Saranno il nuovo procuratore Costa e il consigliere istruttore Rocco Chinnici a tracciare i primi indizi che anni dopo condurranno alla condanna di Tano Badalamenti. Tano Costa aspetta il suo insediamento. Ligio al suo carattere intransigente si presenta a modo suo nel discorso d’investitura. Dopo strette di mano e saluti Costa afferma: “Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti di inimicizia, di interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”. Il sasso è lanciato e in molti hanno capito che lo scontro arriverà molto presto.
A Palazzo di Giustizia l’anno successivo si somma la notizia dell’arrivo di Cesare Terranova. La mafia risolve temporaneamente il problema uccidendo il futuro capo dell’ufficio istruzione. Ma il Csm lo sostituisce con Rocco Chinnici che presentandosi a Costa afferma: “Non ti farò rimpiangere Cesare”. Finisce la tregua giudiziaria. Le inchieste sulla mafia e la pubblica amministrazione riprendono fiato. L’ufficio ha punti di riferimento certi. Costa chiede ai sostituti di lavorare su poche indagini da condurre al processo. Termina la stagione dei faldoni che si accumulano sulle scrivanie. Costa raccoglie subito l’allarme sottoposto da Piersanti Mattarella sull’appalto concorso per la costruzione di sette scuole a Palermo aggiudicato da sette ditte che hanno partecipato da sole ad ogni singola gara. Proprio il caso di specie che Costa aveva illustrato alla Commissione antimafia nel 1969.
Quella celebre riunione del 9 maggio nella sua stanza è la concretizzazione di quanto Costa aveva profetizzato nel suo discorso d’insediamento. Con gli interlocutori ostili siamo a qualcosa in più della lite. Lui inavvicinabile, e forse anche scostante, in rotta con i mediatori che mai avevano associato la mafia alla gente che conta con il denaro e il potere. Con il procuratore generale Pizzillo gli scontri si erano già manifestati dai tempi di Caltanissetta. Con il procuratore aggiunto Martorana il rapporto si può definire distaccato e freddo pur se segnato da un vicendevole rispetto formale. Un quadro difficile, Costa deve operare nell’ambito di inchieste che non si erano mai viste a Palermo. Dopo la riunione del 9 maggio tutto si complica. Costa si sfoga con Chinnici discutendo del presunto garantismo dei suoi antagonisti: “ Ma quali garantisti, di questi solo tre sono garantisti sul serio, degli altri la metà ha paura e l’altra metà è in malafede”. Costa ha personalmente firmato il 15 ottobre del 1979 le indagini per gli appalti delle scuole che annoverano i nomi di Rosario Spatola, Salvatore Inzerillo e dei Gambino. E la Guardia di Finanza ritrova nell’ufficio di Vincenzo Spatola documenti del comune di Palermo che non potrebbe possedere. Quello stesso Spatola che incrocia gli affari e i ricatti del finanziere siciliano Michele Sindona. L’omicidio di Piersanti Mattarella è una risposta a quell’indagine. Il procuratore di Palermo la amplia puntando ai mandanti di quel clamoroso delitto politico. Costa è anche il procuratore che accoglie la richiesta della Guardia di Finanza di procedere ad inchieste bancarie sui conti sospetti. Costa affiderà queste delicate indagini ad un ineccepibile colonnello della Guardia di Finanza. Il colonnello Pascucci. Lo fa il 14 luglio in un Palazzo di Giustizia vuoto insistendo sulla “necessità” di quelle indagini. La moglie del colonnello stranamente viene avvicinata per strada, qualcuno le dice in siciliano “signora raccomandi al comandante di non approfondire troppo le indagini”. Chi ha avvisato i compari della delicata inchiesta che puntava a scoprire i mandanti dell’assassinio Mattarella? Qualcuno a Palazzo di Giustizia? Non ci sono prove in tal senso. Una sola è la certezza. Contro ogni logica dopo l’omicidio Costa il colonnello Pascucci viene trasferito. Il colonnello Pizzuti testimonierà al processo Costa che la P2 si era preoccupata della vicenda considerato che il comandante nazionale delle Fiamme Gialle dell’epoca più che alla Repubblica rispondeva agli interessi di Licio Gelli. Un altro sconcertante fatto è certo. La Guardia di Finanza non completerà mai quell’indagine bancaria disposta su tutto il territorio nazionale.
Ma già prima dell’incarico a Pascucci si registra un particolare insolito nella carriera del magistrato. In 36 anni non ha mai parlato di vicende d’ufficio in famiglia. Invece ad un mese dal suo omicidio, Costa alla moglie e al cugino Aldo, giornalista dell’Ora, comunica che ha chiesto un rapporto di polizia sulle scuole e sui vincitori dell’appalto. Qualcuno ha anche dato un’indicazione di massima dicendo che la vicenda ruota attorno al politico democristiano Vito Ciancimino.
La signora Rita intuisce che il marito ha voluto lasciare una testimonianza per un fatto più grave del solito e infatti quel giorno non si reca ad un matrimonio dove era stata invitata assalita da tristi presagi. Costa ormai cammina sull’orlo di un precipizio. E’ ansioso di avere in mano gli esiti delle indagini ordinate alla Guardia di finanza. La moglie preoccupata chiede al marito, in quei drammatici giorni, se ha avuto notizie da Pascucci, ma il magistrato risponde che “è ancora troppo presto”.
Il 6 agosto del 1980 la famiglia Costa è alla vigilia della partenza per le vacanze a Vulcano. In mattina è stato in Procura. Poi uno sguardo ai funerali delle vittime della strage di Bologna. Le valige delle vacanze sono già pronte. Il giudice è sdraiato sul divano prima della sua ultima passeggiata. La moglie, evidentemente in grand’allarme, torna a chiedere di quel rapporto. “Penso che me lo consegneranno dopo che torno da Vulcano” risponde il procuratore. Ma a Vulcano Costa non arriverà mai. Un sostituto che aveva la foto del giudice sul tavolo aveva ben pensato di scriverci sopra “Vi sono uomini di cui si può comprare solo la morte”. Il giudice che aveva scelto di camminare sull’orlo del precipizio non voleva la scorta. Aveva detto a proposito “Vi sono uomini che hanno diritto di avere paura ed altri che hanno il diritto del coraggio”. Non c’è dubbio che Costa avesse coraggio. A quel tempo era l’unico magistrato che aveva diritto alla scorta e all’auto blindata, ma non la voleva utilizzare per non mettere a repentaglio la vita di nessuno. Il questore Nicolicchia, che ha sostituito Immordino, quello del rapporto che è andato in pensione, contro il volere del magistrato, per predisporre, in occasione della partenza, un rigido sistema di vigilanza. Nessuno ha previsto il servizio di scorta per il ritorno da Vulcano. In quella calda sera del 6 agosto nel centro di Palermo non si vedono divise in giro. La rabbia e la teoria del complotto nel corso del tempo farà arrovellare sul fatto che il capo della Mobile a Palermo fosse Impallomeni, altro iscritto alla solita P2 di Gelli. Il senatore Amintore Fanfani avrà parole di grande biasimo nei confronti delle forze dell’ordine per non aver saputo tutelare il procuratore della Repubblica di Palermo.
Dopo aver risposto alla moglie su quel rapporto Tano Costa si alza e si veste. Esce per far scorta di libri da leggere durante le vacanze. La direzione è verso la vicina bancarella di via Cavour, vicino al Supercinema Excelsior, a due passi dalla birreria Italia e dalla Banca d’Italia. Sono le 19. Costa è solito far questa visita per trovare qualche lettura di buon gusto. Arriva sul posto alle 19,15. Il solito sguardo ai titoli, la richiesta di un giallo che sfoglia con interesse. Commento sul prezzo e qualche chiacchiera con il libraio Angelo Panarello. C’è anche un altro signore che curiosa al banco. Sono le 19,23. Gaetano Costa è solo su quel marciapiede. Come solo era rimasto a Palazzo di Giustizia fidandosi soltanto di Rocco Chinnici. Un giovane smilzo scende da un A112 e gli va incontro con andatura veloce. In macchina resta l’autista. L’auto bruciata verrà poi trovata dietro la chiesa di San Domenico. Il killer punta e spara per due volte. Poi il colpo di grazia. Ma non muore Gaetano Costa con quei tre proiettili ad espansione di fabbricazione americana esplosi da un revolver Smith e Wesson. Costa è un giudice solo. Irriconoscibile scrive Saverio Lodato. Con il volto scavato, gli occhiali in frantumi, zeppo di sangue. Tanto sangue. Costa è vivo. Resta per 20 minuti su quel marciapiede. Arriva una pantera ma nessuno lo trasporta in ospedale. L’ambulanza tarda ad arrivare. Ci vuole un’ora per sapere che a Palermo per la terza volta hanno ucciso un magistrato. L’autopsia dirà che nessuna ferita era mortale. Ma Costa è morto alle 20,11. In molti hanno risolto i loro problemi.
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6 Agosto 1944
Andrea Raia politico, comunista

Il 6 agosto 1944, a Casteldaccia, in provincia di Palermo, era stato assassinato Andrea Raia, definito dalla Voce Comunista «un organizzatore comunista» e un «membro attivo e intelligente del comitato di controllo ai granai del popolo».
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domenica 5 agosto 2012

5 Agosto 1985
Antonino Agostino 28 anni, poliziotto
Giovanna Ida Castellucci 20 anni

Antonino Agostino, ucciso il 5 agosto 1985 a Villagrazia di Carini (Pa), è stato un agente di polizia in servizio presso la questura di Palermo ucciso insieme alla moglie, Ida Castellucci, incinta di cinque mesi. Le circostanze legate al duplice omicidio sono ancora ignote ma negli ultimi anni sono state ricollegate all’attività di intelligence svolta da Agostino al servizio dello Stato contro Cosa nostra. Sul fascicolo relativo alle indagini sul suo assassinio è stato apposto il Segreto di Stato. Alcune circostanze legano il lavoro di Agostino con quello di un altro agente della polizia ucciso poco dopo, Emanuele Piazza.
Il pentito Oreste Pagano ha raccontato che ad un matrimonio, in Canada, ha sentito raccontare di questo omicidio da Alfonso Caruana (boss siculo-canadese di Cosa Nostra) “sono stati uccisi perché il poliziotto aveva scoperto i collegamenti tra le cosche ed alcuni componenti della questura. Anche la moglie sapeva e per questo morì”.

Durante un matrimonio, matrimonio mica da persone normali, ma tra fecce di mafia. Quei matrimoni con il sapore acre del gangsterismo e per di più nel dorato Canada. A sposarsi è Nicola Rizzuto, uomo di Cosa Nostra trapiantato nel profondo nord americano, e tra un flute di champagne e una mezza ostrica e saliva Oreste Pagano intercetta un bisbiglìo: “Ero al matrimonio di Nicola Rizzuto, in Canada. C’era un rappresentante dei clan palermitani, Gaetano Scotto. Alfonso Caruana mi disse che aveva ucciso un poliziotto perché aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura. Anche la moglie sapeva, per questo morì.” Una storia di desolazione mica normale, quella del poliziotto Nino Agostino ammazzato con la moglie Ida Castellucci a Villagrazia di Carini il 5 agosto del 1989. Con una nascitura di cinque mesi nel grembo morta prima di nascere, come quelle storie che finiscono sempre per essere di seconda mano. Perché se muori ammazzato d’agosto sulle strade che portano al mare senza favole o poesie ma solo a forma di due cadaveri e mezzo e un cespuglio folto di punti di domanda, nel nostro disperato Paese, finisce che sei pure un morto ammazzato di serie b. Nella gogna del ricordo che divora vittime come fosse un gorgo.

Eppure Nino Agostino era un poliziotto di quelli che ci credono al proprio lavoro, di quelli che in missione ci sono da sempre, senza decreti di governo o premi in busta paga, in una Sicilia assolata che in quegli anni passa sui morti come fossero un colpo di sole. Eppure Nino Agostino, da vivo prima che da morto, è una storia italiana con tutti gli ingredienti della melma: un collega e (presunto amico) Guido Paolilli, oggi in pensione, che indaga sul caso e chiude il faldone parlando di “delitto passionale”. Come nelle più becere e scontate storie di pavidità d’indagine; una presunta collaborazione di Nino con i servizi segreti e un coinvolgimento nelle indagini per la cattura del boss dei boss Bernarso Provenzano; un foglietto, stropicciato, nel portafoglio in cui si legge “Se mi succede qualcosa andate a cercare nell’armadio di casa”, e nell’armadio di casa, ovviamente, arriva prima di tutti una perquisizione che verbalizza di non avere trovato nulla di interessante.

Oggi Nino Agostino è un fantasma. Un fantasma con in tasca una storia sempre troppo poco conosciuta e un serie di incroci che lambisce anche Bruno Contrada. Suo padre Vincenzo, insieme alla moglie Augusta, caracolla per l’Italia raccontando di una famiglia sparata prima ancora di sbocciare rivendicando la giustizia. Ha la rabbia degli onesti traditi senza risposte e lo sguardo lieve di chi non ha mica smesso di voler essere padre di suo figlio, e una barba lunga che gli si appoggia all’altezza del cuore che non taglierà finché non avrà risposte.
Nel calderone altisonante della mafia epica la storia di Nino e Ida Agostino è una barba di storia. Nella quotidianità della memoria esercitata la storia di Nino e Ida Agostino è una storia da tenersi in tasca. Per ricordarsi almeno quante storie ci dimentichiamo, dimenticandoci che non ce le hanno nemmeno raccontate per intero.
Giulio Cavalli. Nino Agostino. Ammazzato per niente