lunedì 20 maggio 2013

20 Maggio 1914
Mariano Barbato 66 anni, socialista
Giorgio Pecoraro 60 anni, socialista

Piana dei Greci (Palermo) viene assassinato il dirigente socialista Mariano Barbato, cugino di Nicola Barbato, uno dei dirigenti più prestigiosi del movimento contadino, assieme al cognato Giorgio Pecoraro.

«Verso le ore 7,30 del 20 andante (20 maggio 1914 – n.d.r.), in contrada Cardona di questo territorio, mentre Barbato Mariano fu Giuseppe, d’anni 66, possidente pregiudicato, Percoraro Giorgio fu Nicolò, d’anni 60 contadino e Ciulla Vito fu Crisostomo d’anni 54, muri fabbro, tutti da qui, erano intenti alla costruzione di un muro a secco in un fondo del primo, furono avvicinati improvvisamente da tre sconosciuti i quali, dopo averli salutati, esplosero contro di loro simultaneamente vari colpi di fucile, due dei quali rendevano all’istante cadavere il Barbato e il Pecoraro, restando miracolosamente incolume il terzo operaio nella persona del Ciulla suddetto…».
Il linguaggio dei Reali Carabinieri della Stazione di Piana dei Greci, che alle 22 del 20 maggio 1914 stesero questo rapporto, è ovviamente burocratico. Ma «comunica» perfettamente il cinismo e il sangue freddo dei killer di mafia, che – di giorno e a viso scoperto – uccisero due contadini, risparmiando il terzo, per poi allontanarsi dal luogo del delitto «a passo regolare», senza fretta. Non uccisero anche il Ciulla perché si trovava lì casualmente e, ovviamente, aveva dato «garanzie» che mai avrebbe fatto i nomi degli assassini. Le due vittime non erano persone sconosciute, ma due militanti del Partito socialista di Piana dei Greci (l’attuale Piana degli Albanesi). In particolare, Mariano Barbato era «braccio destro» e cugino di Nicola Barbato, ormai famoso «apostolo» del socialismo siciliano, conosciuto in tutt’Italia. Il duplice delitto destò grande impressione a Piana, anche perché ormai erano alle porte le elezioni amministrative, che i socialisti si apprestavano a vincere. Sembrò, quindi, un «messaggio» ai futuri vincitori per condizionarli e al loro leader politico, Nicola Barbato.
In effetti, Mariano rappresentava un po’ la tradizione di lotte contadine a Piana, anche perché il suo impegno politico era iniziato prima ancora dell’avvento dei Fasci. Già nel 1882 era stato arrestato con altri lavoratori per «istigazione all’ammutinamento dal lavoro durante uno sciopero contadino», racconta Francesco Petrotta nel volume «Politica e mafia a Piana dei Greci da Giolitti a Mussolini» (La Zisa, Palermo, 2001). E aggiunge: «Subì diversi processi politici: nel 1894 per aver partecipato ai Fasci dei lavoratori e nel 1898 per aver preso parte alla Federazione socialista dei Lavoratori di Piana, che secondo i giudici era diretta ad incitare alla disubbidienza della legge e all’odio fra le varie classi sociali». Per questo i Carabinieri scrissero che era un «pregiudicato», esclusero la matrice locale del delitto ed indirizzarono subito le indagini verso San Giuseppe Jato, dove tre giorni prima, nel corso di un comizio di Nicola Barbato per le elezioni provinciali, Mariano Barbato si era lasciato andare a questa affermazione offensiva: «Chi non è con noi è un vigliacco! Abbasso la mafia! Abbasso la camorra!». Un’impostazione non condivisa dal leader socialista Nicola Barbato, che il 26 maggio si recò a Palermo dal giudice istruttore e dichiarò a verbale: «E’ notorio che io sono a capo al movimento di questo locale partito socialista (…) e quei pochi che hanno fin’ora avuto il potere non vedono di buon occhio la loro prossima probabile caduta». Tra quei «pochi» Barbato mette il sindaco Paolo Sirchia, l’assessore Schiadà Luca e l’assessore Fusco Saverio. «Questi tre – spiegò Barbato al giudice – io non l’indico come esecutori dell’assassinio, ma come capaci per la sete di dominio, di andare a suggestionare i delinquenti contro di noi…». In sostanza, Nicola Barbato volle definire un delitto politico-mafioso quello di suo cugino Mariano e del cognato di questi Giorgio Pecoraro. Questa ipotesi di Barbato venne tassativamente (ed imprudentemente) esclusa dal delegato di P.S. di Piana, Andrea Cotugno, che il 7 giugno 1914 scrisse al giudice istruttore: «Conosco … il Sindaco Paolino Sirchia e gli assessori Fusco e Schiadà e conosco pure il loro animo… e perciò non posso ritenere che essi abbiano potuto, non dico determinare, ma neanche ideare semplicemente, un così tenebroso proponimento… ». Come previsto, il 28 giugno 1914 i socialisti vinsero le elezioni a Piana dei Greci ed elessero sindaco l’avv. Giuseppe Camalò, ma l’inchiesta sul duplice omicidio fu archiviata.
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Si può dire che alla fine dell’Ottocento, agli inizi del Novecento, nel primo e nel secondo dopoguerra la lotta per i diritti e la libertà dei lavoratori siciliani fu anche lotta contro la mafia. "Questa lotta - dice Petrotta - fu combattuta principalmente nelle campagne, dove le grandi masse contadine, affamate e senza terra, si mobilitarono sotto la guida del sindacato e del partito socialista prima e comunista dopo per il superamento del latifondo". A Piana questa lotta durissima fu combattuta eroicamente dai contadini, che pagarono un altissimo prezzo di sangue. Infatti, furono eliminati dirigenti politici e sindacali come Mariano Barbato "Laparduni" e Giorgio Pecoraro (20 maggio 1914), Vito Stassi "Carusci" (28 aprile 1921), i fratelli Vito e Giuseppe Cassarà "Portabandiera" (4 maggio 1921), Antonino Ciolino (aprile 1924). E il 1° maggio 1947, a Portella della Ginestra, fu consumata la prima strage contro famiglie contadine inermi. "L’operazione politica che portò il capomafia Ciccio Cuccia a sindaco di Piana - racconta ancora Petrotta - avvenne con l’appoggio del poeta Giuseppe Schirò, irriducibile avversario di Nicola Barbato (...). Lo stesso Schirò difese più volte pubblicamente l’amministrazione mafiosa di Ciccio Cuccia, considerandola "la più adatta per il pacifico sviluppo delle migliori qualità del suo popolo", in grado di aprire un "nuovo periodo della nostra storia". In un discorso tenuto dal balcone del municipio, arrivò persino ad elogiare il capomafia Ciccio Cuccia per avere avuto il merito storico e il coraggio di "avere fatto sparire quel straccio rosso del socialismo dal nostro Comune". Circostanza questa rivelata dalla vedova di Vito Stassi "Carusci", Maria Talento, alle autorità giudiziarie. Dopo il delitto di Mariano Barbato elementi del partito democratico aprirono una aspra campagna di isolamento e di denigrazione contro Nicola Barbato, fatta di insinuazioni e maldicenze, mentre la mafia tentò la sua eliminazione fisica. La mafia non riuscì nel suo proposito per il fatto che Barbato lasciò il paese per Milano, dopo un periodo in cui fu protetto dai suoi compagni.
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giovedì 16 maggio 2013

16 Maggio 1911
Lorenzo Panepinto 46 anni, sindacalista

Lorenzo Panepinto nacque a S. Stefano Quisquina il 4 gennaio 1865, da Federico ed Angela Susinno. Fu maestro elementare e si dilettò pure di pittura. La sua vera passione era, però, la politica, che cominciò a praticare dal 1889, quando fu eletto consigliere comunale nel gruppo dei democratici mazziniani, che mise in minoranza il gruppo dei liberal-moderati fino ad allora al potere. La vecchia maggioranza reagì rabbiosamente, riuscendo a far sciogliere il consiglio comunale ed insediando il regio commissario Roncourt, la cui condotta partigiana non riuscì ad impedire una seconda sconfitta dei conservatori nelle elezioni dell’agosto 1890. Il governo del marchese Di Rudinì commissariò nuovamente il comune e Panepinto si dimise per protesta, dedicandosi all’insegnamento e alla pittura. Poi si sposò e partì per Napoli, ma al ritorno, nel 1893, la Sicilia era in subbuglio per il movimento dei Fasci. Fondò, quindi, il Fascio di S. Stefano, che pochi mesi dopo venne sciolto dal governo Crispi, come tutti gli altri Fasci dell’isola. Per rappresaglia politica fu licenziato dal comune dal posto di maestro elementare, ma non si scoraggiò e continuò i suoi studi pedagogici e di metodologia didattica, pubblicando due interessanti volumi nel 1897.
Nei primi del ‘900, alla ripresa degli scioperi agricoli, Panepinto fu di nuovo in prima linea, al fianco di dirigenti come il corleonese Bernardino Verro e il prizzese Nicola Alongi, insieme ai quali avrebbe messo a punto un cambiamento di strategia politica, puntando a dare ai contadini gli strumenti delle cooperative agricole e delle Casse Agrarie, per emarginare i gabelloti dei feudi.
Tra il 1907 e il 1908 fu in America, ma poi ritornò nuovamente al suo paese.
Il 16 maggio 1911 venne assassinato a Santo Stefano Quisquina, proprio davanti l'ingresso di casa sua, con due colpi di fucile al petto.
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16 Maggio 1955
Salvatore Carnevale 31 anni, sindacalista
Bracciante e sindacalista socialista di Sciara (PA) a 31 anni venne assassinato il 16 maggio 1955 all’alba mentre si recava a lavorare in una cava di pietra gestita dall’impresa Lambertini. I killer lo uccisero mentre percorreva la mulattiera di contrada Cozze secche.
Carnevale aveva dato molto fastidio ai proprietari terrieri per difendere i diritti dei braccianti agricoli: era infatti molto attivo politicamente nel sindacato e nel movimento contadino. Nel 1951 aveva fondato la sezione del Partito Socialista Italiano di Sciara ed aveva organizzato la Camera del lavoro. Nel 1952 aveva rivendicato per i contadini la ripartizione dei prodotti agricoli ed era riuscito ad accordarsi con la principessa Notabartolo. Nell’ottobre 1951 aveva organizzato i contadini nell’occupazione simbolica delle terre di contrada Giardinaccio della principessa. Carnevale per questo fu arrestato e uscito dal carcere si trasferì per due anni a Montevarchi in Toscana, dove scoprì una cultura dei diritti dei lavoratori più forte e radicata.
Nell’agosto 1954 tornò in Sicilia, dove cercò di trasferire nella lotta contadina le sue esperienze settentrionali. Fu nominato segretario della Lega dei lavoratori edili di Sciara. Tre giorni prima di essere assassinato era riuscito ad ottenere le paghe arretrate dei suoi compagni e il rispetto della giornata lavorativa di otto ore.
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16 Maggio 1946
Gaetano Guarina 44 anni, socialista, sindaco di Favara

Gaetano Guarino (Favara, 16 gennaio 1902 – Favara, 16 maggio 1946) è stato un politico italiano, vittima della Mafia.

Nato in una famiglia povera (la madre era casalinga ed il padre ebanista), studiò a Palermo e dopo aver ottenuto nel capoluogo siciliano la maturità classica si laureò nel 1928 in farmacia presso la locale università. Negli anni universitari cominciò a scrivere articoli per L'Avanti!, quotidiano socialista allora clandestino.

Dal 1928 al 1930 lavorò come tirocinante a Burgio, dove conobbe la sua futura moglie. Nel corso degli anni trenta tornò a Favara, suo paese natale, dove acquistò una farmacia esercitando di conseguenza la professione di farmacista: in questi anni Guarino chiese ed ottenne regolarmente la tessera del Partito Nazionale Fascista, anche se probabilmente lo fece solo per poter proseguire la sua attività.

Nel 1943, dopo lo sbarco in Sicilia degli americani, si iscrisse al Partito Socialista Italiano e divenne segretario comunale del PSI a Favara. Il 2 ottobre del 1944, su proposta del prefetto di Agrigento, Guarino venne nominato sindaco del suo paese ma si dimise dall'incarico il 15 settembre del 1945 dopo che tre assessori della Democrazia Cristiana si dimisero dall'incarico.

Guarino lottò contro i grandi proprietari terrieri che sfruttavano la locale manodopera e divenne la voce dell'umile gente che chiedeva l'attuazione delle leggi Gullo-Segni che destinavano alle cooperative i terreni incolti appartenenti ai latifondi: costituì anche una cooperativa agricola, che probabilmente si ispirava alla "Madre Terra" di Accursio Miraglia, ed i "baroni" del latifondo cominciarono a remargli contro.

Il 10 marzo del 1946 si svolsero le elezioni comunali a Favara e Guarino, sostenuto oltre che dai socialisti anche dal Partito Comunista Italiano e dal Partito d'Azione, vinse le consultazioni con il 59% dei voti e fu eletto sindaco; ma la Mafia delle terre non gli perdonò le sue scelte popolari e dopo appena 65 giorni di sindacatura fu ucciso con un colpo di lupara alla nuca.
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giovedì 9 maggio 2013

9 Maggio 1947
Michelangelo Salvia 34 anni, sindacalista

Nelle campagne di Partinico (Palermo) ritrovato il corpo del contadino Michelangelo Salvia, ucciso con colpi di arma da fuoco, ad opera di mafiosi del luogo.
9 Maggio 1990
Giovanni Bonsignore 59 anni, funzionario

Giovanni Bonsignore (Palermo, 10 gennaio 1931 – Palermo, 9 maggio 1990) è stato un funzionario italiano. Bonsignore fu dirigente superiore dell’assessorato regionale della cooperazione, del commercio e pesca della Regione Siciliana. Il funzionario pagò con la vita la sua intransigenza e il profondo rigore applicato quotidianamente al suo lavoro. Non si era mai voluto piegare a direttive che contrastavano con la legge e per questo era stato trasferito ad un altro ramo dell’amministrazione. Da dirigente dell’assessorato alla Cooperazione aveva ostacolato la creazione del consorzio agroalimentare, un organismo costato miliardi di lire, recuperati da capitoli di bilanci che egli sosteneva fossero destinati ad altre spese. Aveva preparato una relazione molto dettagliata nella quale sosteneva che secondo le leggi regionali e statali in vigore, il finanziamento predisposto dalla Regione Siciliana di circa 38 miliardi era illegittimo. Fu assassinato il 9 maggio 1990 alle 8:30 a Palermo in Via Alessio Di Giovanni, appena uscito di casa dopo aver acquistato un quotidiano.
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9 Maggio 1978
Peppino Impastato 30 anni, attivista politico

Giuseppe Impastato, meglio noto come Peppino (Cinisi, 5 gennaio 1948 – Cinisi, 9 maggio 1978), è stato un politico, attivista e conduttore radiofonico italiano, famoso per le denunce delle attività della mafia in Sicilia, che gli costarono la vita.

Peppino Impastato nacque a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio 1948, da una famiglia mafiosa (il padre Luigi era stato inviato al confino durante il periodo fascista, lo zio e altri parenti erano mafiosi e il cognato del padre era il capomafia Cesare Manzella, ucciso nel 1963 in un agguato nella sua Giulietta imbottita di tritolo). Ancora ragazzo rompe con il padre, che lo caccia di casa, ed avvia un’attività politico-culturale antimafiosa. Nel 1965 fonda il giornalino L’idea socialista e aderisce al PSIUP. Dal 1968 in poi, partecipa, con ruolo dirigente, alle attività dei gruppi di Nuova Sinistra. Conduce le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo, in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.
Nel 1976 costituisce il gruppo Musica e cultura, che svolge attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti, ecc.); nel 1977 fonda Radio Aut, radio libera autofinanziata, con cui denuncia i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti, che avevano un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto. Il programma più seguito era Onda pazza, trasmissione satirica con cui sbeffeggiava mafiosi e politici.
Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali. Viene assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, nel corso della campagna elettorale, con una carica di tritolo posta sotto il corpo adagiato sui binari della ferrovia. Pochi giorni dopo, gli elettori di Cinisi votano il suo nome, riuscendo ad eleggerlo, simbolicamente, al Consiglio comunale. Stampa, forze dell’ordine e magistratura parlano di atto terroristico in cui l’attentatore sarebbe rimasto vittima e di suicidio dopo la scoperta di una lettera scritta in realtà molti mesi prima. L’uccisione, avvenuta in piena notte, riuscì a passare la mattina seguente quasi inosservata poiché proprio in quelle ore veniva “restituito” il corpo senza vita del presidente della DC Aldo Moro in via Caetani a Roma.
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ll più sfacciato [depistaggio per proteggere mafiosi importanti] è stato quello dell'inchiesta sull'omicidio di Peppino Impastato. Lo hanno fatto 'suicidare', lo hanno fatto diventare un terrorista. E invece era stato assassinato. Per ordine dei boss e, forse, anche di qualcun altro.

Peppino Impastato è morto il 9 maggio del 1978 sui binari della ferrovia Trapani-Palermo, dilaniato da una bomba. Nello stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, a Roma. Peppino aveva 30 anni, era figlio di un mafioso di Cinisi, militava nell'estrema sinistra e lavorava a Radio Aut, una radio libera. L'indagine sulla sua morte è stata truccata fin dalle prime ore. Dai carabinieri.


L'esplosivo usato per il presunto attentato era esplosivo da cava, eppure nei giorni successivi alla morte di Peppino i carabinieri non fecero neppure una perquisizione nelle cave intorno a Cinisi, che erano tutte di proprietà dei mafiosi. Inoltre, nella prima informativa non fecero menzione di una pietra ritrovata sul luogo del delitto: quella che probabilmente uccise Peppino Impastato prima che venisse 'sistemato' sui binari per sembrare un terrorista suicida. E ancora: nel primo rapporto che i carabinieri presentarono alla procura di Palermo, scrissero: "Anche se si volesse insistere su un'ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia".

La mafia a Cinisi era Gaetano Badalamenti, il boss che Peppino Impastato attaccava ogni giorno dai microfoni di Radio Aut, irridendolo col nome di Tano Seduto ; lo stesso Badalamenti che aveva stretto rapporti con alcuni alti ufficiali dell'Arma. Era lui il boss da proteggere. E, probabilmente, Gaetano Badalamenti non era l'unico a volere morto Peppino Impastato.

Tutta l'inchiesta, fin dall'inizio, si è concentrata esclusivamente sulla ricerca di accuse contro la vittima. C'è stato un depistaggio sistematico - e forse pianificato ancor prima dell'omicidio - che è sempre apparso "sproporzionato" per coprire soltanto un mafioso, sia pure un grande capo di Cosa Nostra come Gaetano Badalamenti. Anche il delitto Impastato, dopo tanti anni, sembra uno di quegli omicidi dove è probabile che si sia registrata una "convergenza di interessi". Il fascicolo giudiziario su Peppino Impastato è rimasto per almeno dieci anni "a carico di ignoti". Ci sono voluti altri dieci anni per riaprire le indagini. E altri quattro ancora per condannare Gaetano Badalamenti come mandante del delitto. Un po' di giustizia è stata fatta nel 2002: in un altro secolo. Ma ci sono ancora molti misteri. Testimoni che non sono stati mai ascoltati. E protagonisti di quell'inchiesta che, tanto tempo dopo, sono scivolati nelle indagini sulle trattative fra mafia e Stato a cavallo delle stragi del 1992"
FAQ mafia di Attilio Bolzoni

domenica 5 maggio 2013

5 Maggio 1971
Pietro Scaglione 65 anni, magistrato
Antonio Lorusso agente di custodia

Il Procuratore Scaglione, che ha segnato l’inizio del martirologio nella magistratura italiana, fu ucciso, con Antonio Lorusso suo agente di custodia, alle ore 10.55 del 5 maggio del 1971 in via Cipressi a Palermo, nel corso di un agguato mafioso, dopo la consueta visita nel cimitero dei Cappuccini, dove era sepolta la moglie.
Come è stato scritto anche in sentenze emesse da diverse autorità giudiziarie, Pietro Scaglione – fu un <<magistrato integerrimo, dotato di eccezionali capacità professionali e di assoluta onestà morale, persecutore spietato della mafia>> e <<tutta la verità è emersa a positivo conforto della figura del magistrato ucciso>>, sia per quanto concerne la sua attività istituzionale, sia in relazione alla sua vita privata.
Purtroppo – come si ribadisce ancora una volta con profonda amarezza – le indagini dell’Autorità giudiziaria di Genova, svolte per un ventennio, non hanno consentito di condannare gli autori dell’efferato crimine. E’ stato però accertato che i possibili moventi del delitto sono in ogni caso da ricollegare all’attività svolta <<in modo specchiato>> e inflessibile dal magistrato, soprattutto nella repressione della mafia.
Nella sua lunga carriera di giudice e, soprattutto, di pubblico ministero, iniziata nel 1928, Pietro Scaglione si occupò, infatti, di gravi episodi di mafia e dei misteri siciliani, dal banditismo del dopo guerra agli assassini dei sindacalisti (come Salvatore Carnevale), fino ai delitti mafiosi degli anni Sessanta e Settanta.
Dopo la strage mafiosa di Ciaculli del 1963, grazie soprattutto alle inchieste condotte dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (guidato da Cesare Terranova) e dalla Procura della Repubblica (diretta da Pietro Scaglione) <<le organizzazioni mafiose furono scardinate e disperse>>, come si legge nella Relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia del 1976.
In particolare, il magistrato Scaglione, prima come Sostituto procuratore generale presso la Corte di appello e poi come Procuratore della Repubblica fu un accusatore implacabile di Luciano Leggio e di tutti gli affiliati alla cosca mafiosa di Corleone – come risulta dagli atti giudiziari e dalle dichiarazioni dei principali collaboratori di giustizia – dirigendo, tra l’altro, personalmente nel 1966, per la prima volta, un’operazione di polizia, a livello internazionale, nei confronti degli stessi (Giuseppe Fava, Tutti gli uomini di Liggio e Navarra arrestati, in Il Tempo del 26 aprile 1966, p. 57).

In questo contesto – come affermò Paolo Borsellino (in La Sicilia, 2 febbraio 1987, p.10) – <<la mafia condusse una campagna di eliminazione sistematica degli investigatori che intuirono qualcosa. Le cosche sapevano che erano isolati, che dietro di loro non c’era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte. Isolati, uccisi, quegli uomini furono persino calunniati. Accadde così per Scaglione [...]>>.
L’uccisione del procuratore Scaglione – come scrisse, a sua volta, Giovanni Falcone (in Interventi e proposte, Sansoni, 1994, p. 310) – ebbe sicuramente <<lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino>>.
Il Procuratore Scaglione svolse anche, con impegno e dedizione, la funzione di Presidente del Consiglio di Patronato per l’assistenza alle famiglie dei detenuti ed ai soggetti liberati dal carcere, promuovendo, tra l’altro, la costruzione di un asilo nido; per queste attività sociali, gli fu conferito dal Ministero della giustizia il Diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d’oro. Infine, con Decreto dello stesso Ministero della Giustizia del 1991, previo parere favorevole del Consiglio Superiore della Magistratura, Pietro Scaglione è stato riconosciuto >>.
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5 Maggio 1960
Cosimo Cristina 24 anni, giornalista

L’irrefrenabile desiderio di giustizia, che lo portava ad una spasmodica ricerca della verità, gli è stato fatale ed ha segnato il suo destino che si è concluso tragicamente nei pressi di una galleria, lungo i binari, alle porte di Termini
Imerese, paese in cui era nato. Una morte terribile, che resta avvolta nel mistero: gli atti processuali parlano di suicidio, ma il convincimento generale è che sia stato ucciso dalla mafia, anzi più precisamente “suicidato” da Cosa Nostra. È la storia di Cosimo Cristina, un giovane cronista. Una storia emblematica di come è difficile fare il corrispondente di provincia, tanto ieri quanto oggi. Il suo corpo, il 5 maggio del 1960, venne trovato dilaniato, con il cranio sfondato. Era quasi irriconoscibile. Aveva 24 anni. Quattro anni prima aveva iniziato a collaborare come corrispondente presso il giornale L’Ora, successivamente anche per l’agenzia Ansa, ed a passare articoli al Corriere della Sera, al Gazzettino di Venezia ed a Il Messaggero di Roma. Veniva pagato poche lire e scriveva di mafia, quando ai quei tempi nessuno osava nemmeno nominarla. I politici di allora dicevano che era un’invenzione dei comunisti. Solo dopo qualche anno verrà costituita la prima commissione d’inchiesta contro la criminalità organizzata che, intanto, nella zona del termitano faceva i propri affari. Siamo a cavallo degli anni ’50 e ’60, quando viene deciso che il futuro di Termini Imerese sarà legato allo sviluppo industriale La società si sta trasformando e la mafia si organizza, muta, si trasforma. Non solo nei comuni della provincia ma anche a Palermo. Un’intuizione che Cosimo Cristina coglie, forse prima di altri. Fonda così, insieme a Giovani Cappuzzo, un settimanale, Prospettive siciliane, e scrive, scava nella realtà, conduce inchieste, indaga su omicidi e fatti di mafia, fa nomi e cognomi di noti personaggi. Gli effetti saranno dirompenti e giorno dopo giorno verrà a poco a poco isolato. Iniziano le minacce, poi seguono le querele. In qualche modo si cerca di intimidire il giovane cronista che va avanti e non si ferma. Cosimo Cristina era entusiasta della vita, che gli si apriva davanti. Era nato a Termini Imerese l’11 agosto 1935. Chi lo ha conosciuto lo descrive come un tipo allegro, gioioso, che non si abbatteva, nonostante le difficoltà. Sempre fermo e deciso ad andare avanti. Un tipo anche eccentrico. Andava in giro a piedi o in sella ad una bicicletta, indossando sempre vestiti eleganti ed al collo un papillon. Portava dei baffetti sottili ed un pizzetto. Il primo numero di Prospettive siciliane esce il 25 dicembre del 1959. Nell’editoriale il giovane cronista anticipa quelle che saranno le sue linee guida, puntando su due temi: la questione morale e la lotta alla mafia. “Prospettive siciliane – scriveva Cristina - sorge in un momento particolarmente importante della storia dell’Isola, che intende affermare i suoi diritti, del resto già consacrati dalla Autonomia, istituto e strumento
di progresso della vita economico- sociale della Sicilia. Uno spirito nuovo anima le popolazioni dell’Isola, che noncuranza di uomini politici ed errori di governanti hanno finora trascurato e dimenticato con grande pregiudizio della economia della stessa nazione. Tale spirito nuovo di fiera e oltranzistica difesa dell’Autonomia contro ogni atto o gesto di sabotatori prezzolati ai monopoli del nord, il nostro giornale intende esprimere attraverso le sue colonne facendosi portavoce degli interessi sani e legittimi, delle aspirazioni più giuste delle nostre popolazioni, nel grande sforzo e nell’immane fatica di riequilibrare le condizioni di vita delle nostre genti. Con spirito di assoluta obiettività, in piena indipendenza da partiti e uomini politici, ci proponiamo di trattare e discutere tutti i problemi interessanti dell’Isola, avendo come nostro motto: senza peli sulla lingua. E poiché riteniamo che premessa indispensabile per ogni opera di rinnovamento è la moralizzazione, denunceremo ogni violazione ai principi di onestà amministrativa e politica, sicuri anche in questo di interpretare i sentimenti e le aspettative di un popolo di antica saggezza. Tutto questo perché noi vogliamo che la Sicilia non sia solo quella folcloristica delle cartoline lucide e stereotipate, né quella delle varie figurazioni a rotocalco e di certa stampa deteriore, per intenderci la Sicilia di Don Calò Vizzini e di Giuliano, ma la Sicilia che faticosamente si fa strada come pulsante cantiere di lavoro e di rinnovamento industriale”. Cosimo Cristina era quindi un cronista libero, non asservito a nessuno, onesto. Un cane senza padrone o meglio come diceva lui un giornalista “senza peli sulla lingua”.

Credeva nella libertà di stampa e nel suo ruolo fondamentale per la democrazia e la crescita di un Paese. Uno di quei corrispondenti di provincia sfruttati, privi di garanzie, di contratto, di protezione e sotto il tiro della mafia. Uno di quei giovani cronisti che muovono i primi passi dentro una redazione e credono di avere toccato il cielo con un dito. Il tutto per pochi soldi che a volte non servono a pagare gli spostamenti, i viaggi, le telefonate. La ricompensa è la firma che appare sotto gli articoli, molto spesso tagliati, magari in parte riscritti. Alcuni non usciranno mai. Ma aveva un fiuto per la notizia, una forte passione ed una grande carica ideale. Chi lo ha conosciuto lo descrive come un fiume in piena, una fucina di idee e notizie. Ma spesso la verità è talmente palese e sotto gli occhi di tutti che, proprio per questo, è difficile da raccontare. Certe cose, secondo alcuni, è bene non scriverle, non farle vedere, potrebbero dare fastidio al sindaco o a quell’altro potente di turno o all’imprenditore.
E così Cosimo Cristina, che non aveva di certo di queste remore, incominciò a dare fastidio. Iniziò a scavare su alcuni omicidi di mafia rimasti insoluti, a fare collegamenti e soprattutto ad indicare presunti mandanti ed esecutori. Scrisse della mafia di Termini Imerese e delle Madonie, facendo luce su interessi ed affari. Dapprima iniziarono ad arrivare i messaggi trasversali, miti “consigli” a stare tranquilli. Poi le minacce telefoniche e gli avvertimenti. Mentre intanto incominciarono a fioccare le prime querele. In pratica a poco a poco venne isolato. Attorno a lui venne creato un vero e proprio vuoto. Poi la tragedia. Il corpo di Cosimo Cristina, soprannominato Co.Cri. dalle iniziali scritte sotto gli articoli di cronaca, venne trovato al centro dei binari, disteso a pancia in su e con la testa che sfiorava la rotaia, nei pressi della galleria Fossola di Termini Imerese. Erano le 15.30 di un giovedì, il 5 maggio del 1960. Appena due giorni prima era scomparso da casa. A dare l’allarme fu un guardialinee Bernardo Rizzo, di Roccapalumba. Per terra furono trovati il portafoglio, un mazzo di chiavi e un portasigarette. In tasca aveva una schedina del totocalcio e due biglietti: uno per la fidanzata, l’altro per l’amico Giovanni Cappuzzo, con i quali si scusava per il gesto estremo. Nessun messaggio invece per la madre e per le tre sorelle alle quali era molto legato. Il caso venne subito chiuso come suicidio e così gli vennero negati i sacramenti. Nessun sacerdote fu disposto ad officiare la funzione religiosa. Due mesi dopo l’inchiesta fu archiviata, senza che venisse eseguita un’autopsia sul corpo ed una perizia calligrafica sui biglietti trovati. Soltanto a distanza di sei anni il “caso Cristina” venne riaperto dal vice questore di Palermo, Angelo Mangano. Il funzionario di polizia, famoso per le sue inchieste antimafia che avevano portato all’arresto di Luciano Liggio, stilò un dossier sui misteri delle Madonie: un voluminoso rapporto che sfociò nell’arresto, tra gli altri, di Santo Gaeta, considerato il boss di Termini Imerese, del figlio Giuseppe, di Agostino Rubino, consigliere comunale sempre di Termini, Vincenzo Sorce, Orazio Calà Lesina e di Giuseppe Panzeca, indicato quest’ultimo come capomafia di Caccamo. Mangano era convinto che il giornalista fosse stato ucciso proprio dalle cosche mafiose termitane, con l’assenso della famiglia di Caccamo, al vertice di Cosa Nostra nella zona. Il vice questore ritenne che il movente era da ricercare proprio negli articoli che il giovane cronista aveva pubblicato su Prospettive siciliane ed in particolare uno, in cui si svelavano i retroscena dell’omicidio di un pregiudicato, Agostino Tripi, denunciato per un attentato dinamitardo ad una gioielleria e successivamente ucciso dalla mafia perché parlava troppo. In quell’articolo Cosimo Cristina aveva intervistato la moglie dell’ucciso. La donna fece importanti rivelazioni, suggerendo il nome del presunto assassino. L’inchiesta sulla morte di Cristina così fu riaperta, esattamente dopo sei anni. Venne disposta finalmente l’autopsia. Ma anche questa volta i risultati dell’indagine portarono alla conferma dell’ipotesi del suicidio smentendo il rapporto della polizia e le ipotesi del vice questore. Il caso così venne definitivamente chiuso. Anche se sulla vicenda permangono molti dubbi e interrogativi. Resta il ricordo di un giornalista che ha svolto il proprio mestiere con coraggio e onestà credendo nel ruolo di una libera stampa.
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Nel 1999 il giornalista catanese Luciano Mirone, mediante il libro "Gli Insabbiati. Storie di giornalisti uccisi della mafia e sepolti dall'indifferenza" (Castelvecchi) riesumò il caso e scoprì che nel 1966 il vice questore di Palermo, Angelo Mangano (famoso per una foto che ha fatto il giro del mondo mentre ammanetta il boss di Corleone Luciano Liggio), riaprì l'inchiesta e stilò un rapporto esplosivo che venne neutralizzato dal risultato dell'autopsia: Mangano scoprì che il cronista era stato ucciso in un luogo e deposto sui binari per simulare il suicidio. Il superpoliziotto accusò il consigliere della Democrazia cristiana Agostino Rubino (uno dei capimafia di Termini) e il boss Santo Gaeta di essere stati i mandanti del delitto, che poi vennero scagionati. A distanza di molti anni, Mirone riprese quel carteggio e lo riportò alla luce, mettendo in risalto le contraddizioni del referto autoptico, sottoposto all'attenzione di Vincenzo Milana, professore di Medicina legale dell'Università di Catania. L'autore de "Gli insabbiati" chiese alla Procura di Palermo - attraverso una raccolta di firme - la riapertura dell'inchiesta, ma l'esito fu negativo. Tuttavia nel 2000 l'Amministrazione comunale di Termini Imerese dedicò una via al giornalista scomparso. Nel 2010 - dopo la pubblicazione della seconda edizione de "Gli insabbiati - le associazioni termitane, sollecitate dal periodoco locale "Espero" - hanno deposto una lapide all'esterno della galleria "Fossola", luogo del ritrovamento del cadavere di Cosimo Cristina.
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sabato 4 maggio 2013

4 Maggio 1980
Emanuele Basile 30 anni, carabiniere

Emanuele Basile (Taranto, 2 luglio 1949 – Monreale, 4 maggio 1980) è stato un carabiniere italiano, ucciso da Cosa Nostra mentre ritornava a casa con la moglie e la figlia, dopo aver presenziato nel paese alla festa del Santissimo Crocifisso a Monreale.
La sera del 4 maggio 1980 mentre con la figlia Barbara di quattro anni e alla moglie Silvana Musanti aspetta di assistere allo spettacolo pirotecnico della festa del Santissimo Crocefisso a Monreale, un killer mafioso gli spara alle spalle e poi fugge in auto atteso da due complici. [L’agente aveva in braccio la figlioletta al momento dell’agguato, che fortunatamente rimase illesa]. Basile viene trasportato all’ospedale di Palermo dove i medici tenteranno di salvargli la vita con un delicato intervento chirurgico ma il carabiniere muore durante l’operazione lasciando nel dolore la moglie e lo stesso Paolo Borsellino che era corso in ospedale. Vincenzo Puccio, il suo assassino, verrà catturato dai carabinieri subito dopo l’omicidio ma verrà assolto tre anni dopo, creando sgomento e rabbia sia nei magistrati sia nei suoi colleghi. Tre anni dopo la sua morte, il 13 giugno 1983, morirà ucciso il Capitano Mario D’Aleo sempre per mano di Cosa Nostra, D’Aleo aveva preso il posto di Basile come comandante della Compagnia dei carabinieri di Monreale.
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4 Maggio 1921
Giuseppe Cassarà socialista
Vito Cassarà socialista

A Piana dei Greci (Palermo) uccisione dei militanti socialisti Vito e Giuseppe Cassarà.

mercoledì 1 maggio 2013

la strage di Portella della Ginestra

1 Maggio 1947, La Strage di Portella della Ginestra
Margherita Clesceri
Giorgio Cusenza
Giovanni Megna 18 anni
Francesco Vicari
Vito Allotta 19 anni
Serafino Lascari 15 anni
Filippo Di Salvo 48 anni
Giuseppe Di Maggio 13 anni
Castrense Intravaia 18 anni
Giovanni Grifò 12 nni
Vincenza La Fata 8 anni

Il 1º maggio 1947, nell’immediato dopoguerra, si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile durante il regime fascista. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si riunirono nella vallata di Portella della Ginestra per manifestare contro il latifondismo, a favore dell’occupazione delle terre incolte, e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell’anno e nelle quali la coalizione PSI – PCI aveva conquistato 29 rappresentanti (con il 29% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa).
Sulla gente in festa partirono dalle colline circostanti numerose raffiche di mitra che lasciarono sul terreno, secondo le fonti ufficiali, 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate. La CGIL proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”.
Solo quattro mesi dopo si seppe che a sparare materialmente erano stati gli uomini del bandito separatista Salvatore Giuliano, colonnello dell’E.V.I.S. Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva chiaramente riferimento ad “elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali”.
Nel 1949 Giuliano scrisse una lettera ai giornali, in cui affermava lo scopo politico della strage. Questa tesi fu smentita dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba. Nel 1950, il bandito Giuliano fu assassinato dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale morì avvelenato in carcere quattro anni più tardi, dopo aver affermato di voler rivelare i nomi dei mandanti della strage. Attualmente vi sono forti dubbi sul fatto che Pisciotta fosse l’autore dell’omicidio, come è stato fatto osservare nella trasmissione Blu notte ed emerge dal lavoro di Alberto Di Pisa e Salvatore Parlagreco.

11 persone furono uccise e 27 persone rimasero ferite.

Tra i morti del primo maggio c'è anche il campiere Emanuele Busellini, ucciso dai banditi della banda Giuliano che l'avevano incontrato lungo la strada per recarsi sul luogo della strage.
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Il dopoguerra si apre, nel 1947, con la strage politico-mafiosa di Portella della Ginestra: 11 persone (9 contadini e 2 bambini) muoiono ammazzate e 27 rimangono ferite durante la pacifica festa del Primo Maggio, all'indomani delle prime elezioni regionali siciliane che hanno visto il Blocco del Popolo (Pci e Psi) trionfare col 29,13% sulla Dc (20,52%). L'allarme rosso in vista delle elezioni politiche del 1948 produce quella che gli storici chiamano la «strage dissuasiva». Le indagini accerteranno che a sparare è stata la banda di Salvatore Giuliano, ma che i mandanti sono politici, e che con questi ultimi il bandito ha avuto rapporti prima e dopo l'eccidio tramite alcuni capimafia, agenti governativi ed esponenti dei servizi segreti italiani e americani.
Quando Giuliano intuisce che i suoi referenti lo stanno scaricando, anzi mirano a «bruciarlo» dopo averlo usato con la promessa dell'impunità, tenta di ricattarli inviando lettere e documenti ai giornali. Il 24 novembre 1948 lancia un messaggio ai parlamentari siciliani della Dc: «Nelle nostre zone non si è votato che per voi e così noi abbiamo mantenuto le nostre promesse, adesso mantenete le vostre». Girolamo Li Causi, senatore comunista, lo invita a fare i nomi dei suoi mandanti. Il bandito gli risponde con una lettera autografa all'«Unità», pubblicata il 30 aprile 1950: «Scelba vuoi farmi uccidere perché io lo tengo nell'incubo per fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita».
Intanto uno dei suoi uomini, Giovanni Genovese, il 29 gennaio 1949 racconta al giudice istruttore di Palermo un fatto di cui è stato testimone oculare: alcuni giorni prima della strage, Giuliano aveva ricevuto una lettera che gli commissionava l'eccidio. Non è una millanteria, ma un fatto accertato dalla sentenza della Corte d'Assise di Viterbo su Portella della Ginestra, in cui si legge: «Che la lettera abbia una qualche relazione con il delitto che, a distanza di qualche giorno, fu consumato da Giuliano e dalla banda da lui guidata, pare alla Corte non possa essere posto in dubbio». Le indagini appureranno anche una trattativa segreta dopo la strage: Giuliano chiede la scarcerazione di alcuni parenti arrestati e l'impunità per sé, con la garanzia dell'espatrio e di una congrua somma di denaro. Ottenute queste garanzie, il 20 giugno 1950 firma un memoriale in cui si dichiara unico responsabile dell'eccidio di Portella. Un errore fatale, che lo priva dell'ultima arma di ricatto e fa di lui un morto che cammina. In Sicilia sono in molti a prevedere che Giuliano farà presto una brutta fine. Alberto Jacoviello, in un reportage da Montelepre intitolato Giuliano sa tutto e per questo sarà ucciso, scrive sull'«Unità»:
Giuliano conosce esecutori e mandanti. E qui il gioco diventa grosso. Giuliano comincia a sapere troppe cose. Se lo prendono, parla. Messana, l'ispettore di polizia, non lo prenderà. Oppure lo prenderà in certe condizioni. Morto e con i suoi documenti distrutti, se ne ha.

E così puntualmente avviene. Poco tempo dopo, nella notte tra il 4 e il 5 luglio 1950, Giuliano viene assassinato nel sonno dal cugino e luogotenente Gaspare Pisciotta: omicidio su commissione, in cambio dell'impunità. I carabinieri sono sul luogo del delitto prim'ancora che venga perpetrato, assistono alla scena, poi trasportano il cadavere altrove per simulare un tragico conflitto a fuoco fra loro e Giuliano. È questa, infatti, la versione ufficiale dei fatti fornita dall'Arma in un rapporto totalmente menzognero. Ma la messinscena viene presto smascherata da un grande giornalista, Tommaso Besozzi.
Anche Pisciotta, però, viene scaricato e arrestato in barba alle promesse. E, sentendosi ingannato, decide di vuotare il sacco al processo di Viterbo. Il 16 aprile 1951, davanti a una folla di giornalisti, fa i nomi dei mandanti politici della strage e racconta per filo e per segno tutti gli incontri e le trattative fra banditi e uomini delle istituzioni, con tanto di promesse di impunità. Le sue clamorose rivelazioni, però, cadono nel vuoto. Dinanzi a quella mole di notizie di reato, il pubblico ministero viterbese finge di non sentire e non avanza nessuna richiesta al giudice di procedere contro i possibili mandanti politici. Un comportamento talmente scandaloso da indurre la Corte d'Assise a prenderne apertamente le distanze nella motivazione della sentenza:
Non è la Corte investita del potere di esercitare l'azione penale. Essa è un organo giurisdizionale il quale conosce di un reato in base a sentenza di rinvio, ovvero in base a richiesta di citazioni, e non può trasformarsi in organo propulsore di quelle attività che sono proprie di altro organo, il Pubblico Ministero.
Li Causi tenta di rilanciare lo scandalo almeno a livello politico, con un appassionato discorso al Senato in cui punta il dito contro il ministro degli Interni Mario Scelba. È il 26 ottobre 1951:
Perché avete fatto uccidere Giuliano? Perché avete turato questa bocca? La risposta è unica: l'avete turata perché Giuliano avrebbe potuto ripetere le ragioni per le quali Scelba lo ha fatto uccidere. Ora aspettiamo che le raccontino gli uomini politici, e verrà il tempo che le racconteranno.
Ma anche le sue parole cadono nel vuoto. Come pure gli appelli di Pisciotta. che dal carcere chiede una commissione parlamentare d'inchiesta. Il 10 ottobre 1952 scrive al presidente della Corte d'Assise:
Faccio appello fin da ora a tutti i signori sottonotati [segue elenco di nomi di varie persone coinvolte nella strage, tra cui importanti esponenti politici, N.d.A.] che è giunto il momento in cui dovranno assumere le loro responsabilità, perché io non mi rassegnerò mai e continuerò a chiederlo sino all'ultimo respiro [...] desidero sempre una inchiesta parlamentare.
Un'altra lettera morta. Di lì a poco anche Pisciotta, testimone scomodo dei crimini del potere, sarà messo a tacere per sempre: il 9 febbraio 1954, nel carcere dell'Ucciardone, con un caffè corretto alla stricnina. Dopo di lui, l'uno dopo l'altro, muoiono assassinati o suicidati tutti i depositari dei segreti di Portella: i banditi intermediari tra Giuliano e le forze dell'ordine, i testimoni degli incontri più compromettenti, l'ispettore di Polizia che aveva tenuto i contatti. L'uomo sospettato di aver procurato il veleno per Pisciotta viene trovato morto nella sua cella dell'Ucciardone. Il procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione, l'ultimo magistrato che aveva raccolto le rivelazioni di Pisciotta poco prima dell'avvelenamento, senza metterle a verbale, verrà assassinato anni dopo, nel 1971, portandosi nella tomba quegli indicibili segreti.
Scrive Leonardo Sciascia nel libro Nero su nero:
Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l'avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l'Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.
Saverio Lodato, Margo Travaglio, Intoccabili