sabato 30 giugno 2012

La strage di Ciaculli

30 Giugno 1963, La strage di Ciaculli
Mario Malausa 25 anni, tentente dei carabinieri
Silvio Corrao maresciallo dei carabinieri
Calogero Vaccaro 44 anni, maresciallo dei carabinieri
Eugenio Altomare appuntato
Marino Fardelli appuntato
Pasquale Nuccio maresciallo dell’esercito, artificiere
Giorgio Ciacci soldato, artificiere

La strage di Ciaculli del 30 giugno 1963 sconvolse l’opinione pubblica siciliana e nazionale. A Palermo, dilaniati da una Giulietta al tritolo (PA 78373), davanti a Villa Serena di Ciaculli, a pochi passi dall’abitazione del boss mafioso Salvatore "Totò" Greco "Cicchiteddu", avevano perso la vita Mauro Malausa, tenente dei carabinieri, Silvio Corrao, maresciallo di polizia, Calogero Vaccaro, maresciallo dei carabinieri, Marino Fardella, carabiniere, Eugenio Altomare, carabiniere, Pasquale Nuccio, maresciallo artificiere, e Giorgio Ciacci, soldato artificiere, mentre altri militari dell’Arma riportavano gravissime ferite.
La macchina era stata imbottita di tritolo, mediante un ordigno innescato con la tecnica nuova della doppia carica: una effettiva e l’altra apparente. La prima carica, facilmente individuabile, doveva servire a trarre in inganno Salvatore Greco "Cicchiteddu", la seconda ad ucciderlo. Avvisati da una telefonata anonima, i carabinieri arrivarono sul posto dov’era stata abbandonata la macchina e disinnescarono la prima carica. Ma quando il maresciallo Pasquale Nuccio aprì la portiera, alla quale era collegata la seconda carica, quella nascosta sotto il sedile del posto di guida, l’esplosione dilaniò tutti e sette i militari.
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Il 30 giugno 1963 una telefonata anonima avverte la locale Stazione dei carabinieri che lungo la strada Gibilrossa - Villabate, in provincia di Palermo, precisamente nel territorio della Contrada di Ciaculli, un'autovettura Alfa Romeo di tipo "Giulietta" è abbandonata con le portiere aperte sulla banchina della strada stessa.

I Carabinieri intervengono, e sospettando la presenza di esplosivo innescato a bordo della vettura, convocano i colleghi artificieri. Questi ultimi ispezionano l'interno del veicolo, scorgono una miccia collegata ad una bombola di metano, scollegano l'innesco e dichiarano il cessato allarme, A quel punto, la pattuglia inizia la perquisizione del mezzo ed il tenente Mario Malausa apre il portabagli. Immediatamente, il tritolo collegato alla serratura ed innescato esplode, la deflagrazione investe i carabinieri ed oltre al tenente Malausa uccide sul colpo i Marescialli Calogero Vaccaro (dei Carabinieri), Silvio Corrao (della Polizia) e Pasquale Nuccio (dell'Esercito, squadra artificieri), gli appuntati Eugenio ALtomare e Mario Forbelli, e l'artificiere Giorgio Ciacci.
La strage è rimasta impunita, ed i mandanti misteriosi: si è sostenuta però la tesi che quella fosse l'autobomba destinata da La Barbera ai Greco, poi per motivi oscuri abbandonata lungo la strada provinciale in zona Ciaculli.
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venerdì 29 giugno 2012

29 Giugno 1982
Antonio Burrafato 39 anni, agente penitenziario

A Termini Imerese (Palermo) viene ucciso l'agente penitenziario Antonino Burrafato. Si era rifiutato di fare incontrare Leoluca Bagarella con la madre e la sorella.

Tutto accadde alle ore 15.30 del 29 giugno 1982. In quel giorno fu assassinato a Termini Imerese, in Piazza S. Antonio, da barbara e vigliacca mano mafiosa il sottufficiale degli agenti di custodia, Antonino Burrafato. A quattro passi da casa, a due passi dal carcere “Cavallacci”: il suo posto di lavoro. Aveva 49 anni.
Una storia che non è fatta solo di terapie e rimedi, ma soprattutto del senso del dovere che nell’esistenza della vita di mio padre si è concretizzato non solo nel lavoro ma anche nei sentimenti. La trama della sua vita è stata intessuta con la trama della vita dei detenuti. Le loro patologie, i loro atteggiamenti quotidiani, il sacrificio vissuto in carcere hanno costituito il sostanziale fulcro della storia di Antonino Burrafato.
Vicebrigadiere degli agenti di custodia era un marito fedele e laborioso, un padre affettuoso e premuroso. Uno di quegli uomini che ogni donna sogna di avere al proprio fianco e che ogni ragazzo sarebbe orgoglioso di avere come guida. Coraggiosamente si era schierato dalla parte dello Stato in un’epoca in cui bastava poco per finire nel mirino della mafia. Un eroe del nostro tempo, la cui vita è stata spezzata ingiustamente solo perché non si piegava a ricatti e minacce in un posto di trincea, com’era il carcere dei Cavallacci negli anni ’80, dove - tra gli altri - era detenuto quel Leoluca Bagarella che, come si seppe molti anni dopo, decretò la sua morte.
La sua colpa? Una vivace discussione con un mafioso allora detenuto nel carcere di Termini Imerese. La questione in sé era banale. Un permesso forse non accordato, perché quelle erano le disposizioni dei suoi superiori, del regolamento ed alle quali si doveva attenere. Il risultato di questo rifiuto generò il suo isolamento nel luogo di lavoro. Solo, davanti ad un boss del calibro di Leoluca Bagarella cognato di Totò Riina, in quel tempo al massimo della sua potenza, ed al quale nessuno poteva dire no.
Un’offesa da lavare col sangue. Di lì a poco (a testimonianza dell’alta permeabilità delle strutture carcerarie prima del 41 bis) la vendetta venne consumata. Era addetto all’ufficio matricola ed anche in quel giorno d’estrema calura, in leggero ritardo rispetto agli orari quotidianamente osservati, inconsapevole del suo ingrato destino, dopo essersi affettuosamente intrattenuto con me e mia madre per l’ultima volta, uscì per tornare al lavoro. Il cammino che lo portava da casa al carcere era breve e lo percorreva a piedi come ogni giorno. Lo hanno assassinato in modo spietato, sotto il tiro incrociato della lupara e di una rivoltella calibro 38, colpendolo, mentre si trovava sul lato più basso di piazza S. Antonio, quando era oramai a pochi passi dal carcere. Poi, abbiamo saputo che i killers avevano sparato da un’auto dapprima con un fucile a canne mozze senza colpirlo. Solo uno di loro era sceso a terra ed aveva sparato cinque colpi mortali con una calibro 38 centrandolo alla testa e al torace.
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giovedì 28 giugno 2012

27 Agosto 1987
Giuseppe Cotroneo 8 anni
Rosario Montalto 11 anni

Giuseppe Cutroneo otto anni, ucciso come il suo inseparabile amico Rosario Montalto, undici anni, da un proiettile calibro 38 sparato durante un conflitto a fuoco tra gang rivali per il traffico di droga nell’agosto del 1987. Giuseppe colpito al cuore morì sul colpo, Rosario fu ricoverato immediatamente al reparto chirurgia dell’ospedale di Caltagirone, i medici tentarono un difficilissimo intervento per estrargli la pallottola che, dopo aver attraversato il fegato e i polmoni, si era fermata all’ altezza della colonna vertebrale. L’operazione era riuscita, sabato mattina il bambino aveva riaperto gli occhi, si era svegliato, aveva tentato un debolissimo sorriso. Ma poi non ce l’ ha fatta. Il suo fisico non ha retto alle devastanti conseguenze della ferita mortale. Rosario non ha mai capito cos’ è accaduto quella tragica sera in via Turati a Niscemi. E nessuno ha avuto il coraggio di dirgli che la madre Giuseppina Di Liberto, 45 anni, era deceduta poche ore prima dell’agguato, per ictus cerebrale.
21 Agosto 1949
Giovanni Calabrese carabiniere
Giuseppe Fiorenza carabiniere

A Sancipirello (Palermo) la banda Giuliano uccide i carabinieri Giovanni Calabrese e Giuseppe Fiorenza
28 Giugno 1946
Pino Camilleri 28 anni, politico socialista e dirigente contadino

Pino Camilleri è stato un politico italiano, sindaco socialista di Naro (AG) ucciso dalla mafia.
Il 28 giugno 1946, a soli 27 anni, già riconosciuto come capo contadino in una vasta zona a cavallo tra le province di Caltanissetta e Agrigento, fu colpito dalla lupara mentre cavalcava da Riesi verso il feudo Deliella, aspramente conteso tra gabelloti e contadini.

martedì 26 giugno 2012

26 Giugno 1959
Anna Prestigiacomo 15 anni

Anna Prestigiacomo, aveva 15 anni, quando venne uccisa una sera d’estate nel giardino di casa sua nel rione San Lorenzo, a Palermo. Era il 26 giugno 1959.
Una sorellina di Anna, Rosetta, di 11 anni, vide in volto il killer e lo riconobbe: agli investigatori indicò il nome del vicino di casa, il pregiudicato Michele Cusimano. Ma questi negò tutto, venne arrestato con il padre e rinviato a giudizio. Il padre, invece, fu prosciolto in istruttoria. Il processo si concluse con la clamorosa assoluzione dell’imputato. Il verdetto venne ribaltato in Corte d’Assise e di Appello e Cusimano venne condannato con la concessione, però, di alcune attenuanti.

venerdì 22 giugno 2012

22 Giugno 1947, La strage di Partinico
Giuseppe Casarrubea dirigente sindacale
Vincenzo Lo Jacono dirigente sindacale

Il 22 giugno 1947 una banda criminale assaliva la Camera del Lavoro di Partinico, sede anche del Partito comunista italiano, sezione “Antonio Gramsci”. I dirigenti sindacali, entrambi artigiani, Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Jacono furono uccisi. Sul posto viene trovato un volantino firmato dal bandito Giuliano che invita i siciliani a lottare "contro la canea dei rossi" e annuncia la costituzione di un quartiere generale di lotta contro il bolscevismo, promettendo sussidi a quanti si sarebbero presentati alla sede della formazione militare, il feudo Sagana nelle vicinanze.
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mercoledì 20 giugno 2012

20 Giugno 1945
Filippo Scimone maresciallo dei carabinieri

A San Giuseppe Jato (Palermo) la banda Giuliano uccide il maresciallo dei carabinieri Filippo Scimone.

martedì 19 giugno 2012

19 Giugno 1991
Giuseppe Sceusa imprenditore
Salvatore Sceusa imprenditore

Capaci (Palermo) assassinati gli imprenditori Giuseppe e Salvatore Sceusa. Secondo il collaboratore di giustizia Angelo Siino sarebbero stati uccisi perché non si attenevano alle imposizioni della mafia relative agli appalti e non si accordavano per il pizzo

lunedì 18 giugno 2012

18 giugno 1975

18 Giugno 1975
Calogero Monreale sindacalista

A Roccamena (Palermo) ucciso Calogero Morreale, segretario socialista e dirigente dell'Alleanza coltivatori. Era stato uno dei principali artefici della vittoria delle sinistre alle elezioni comunali del 15 giugno.
Fu ucciso quando cominciarono a prendere corpo i piani di esproprio per la costruzione della diga del Belice.

domenica 17 giugno 2012

17 giugno 1991

17 Giugno 1991
Gaspare Palmeri 61 annni, guardia forestale

Gaspare Palmeri di 61 anni, Castellammare del Golfo fu ucciso in un agguato la sera del 17 giugno 1991 a Corleone. L’uccisione è collegata al tentativo dei corleonesi di allargare il proprio controllo sulla cittadina trapanese di Alcamo. Nello stesso agguato morirono Stefano Siracusa di 32 e Domenico Parisi di 41, entrambi di Alcamo. Palmeri aveva la sola colpa di essere in compagnia degli "obiettivi".

sabato 16 giugno 2012

strage della Circonvallazione

16 Giugno 1982, Strage della Circonvallazione
Salvatore Raiti 20 anni, carabiniere
Silvano Franzolin 41 anni, appuntato
Luigi Di Barca 25 anni, carabiniere
Giuseppe di Lavore 27 anni, autista giudiziario

È definita strage della circonvallazione l’attentato mafioso che venne messo in atto il 16 giugno 1982 sulla circonvallazione di Palermo.
L’attentato era diretto contro il boss catanese Alfio Ferlito, grande alleato di Bontate e Inzerillo, che veniva trasferito da Enna al carcere di Trapani scortato da tre carabinieri e che morì nell’agguato insieme ai tre carabinieri della scorta (Salvatore Raiti, Silvano Franzolin e Luigi Di Barca) e al ventisettenne Giuseppe Di Lavore, autista della ditta privata che aveva in appalto il trasporto dei detenuti, il quale aveva sostituito il padre. Di Lavore ebbe la medaglia d’oro al valor civile. Giunta all’altezza di via Ugo La Malfa, la Mercedes sulla quale si trovava Ferlito viene assalita da tre killer armati di kalashnikov. Il mafioso fu trucidato e con lui morirono l’appuntato Silvano Franzolin, i carabinieri Luigi Di Barca e Salvatore Raiti, e l’autista giudiziario Giuseppe Di Lavore.



Nella prima mattinata del 16 giugno '82, scortato da tre carabinieri, il mafioso catanese Alfio Ferlito viene trasferito dal carcere di Enna, nel quale era detenuto, al carcere di Trapani. Giunta all'altezza di via Ugo La Malfa, la Mercedes sulla quale si trovava Ferlito viene assalita da tre killer armati di kalashnikov. Oltre al mafioso catanese grande alleato di Bontate e Inzerillo, vengono assassinati anche i tre carabinieri di scorta e l'autista. Una strage che fece molto clamore.
I giudici, con l'aiuto di alcuni pentiti, hanno potuto ricostruire buona parte di quella vicenda e dare un significato a quella strage apparentemente assurda. Nell'ordinanza, infatti, i magistrati palermitani affermano che quella strage segnò il suggello dell’avvenuta fusione tra le famiglie palermitane vincenti nella guerra di mafia e il clan di Benedetto Santapaola, astro nascente della mafia catanese.
Fonte

venerdì 15 giugno 2012

Quello che segue è parte di un pamphlet elettorale edito dal responsabile della propaganda di un movimento dell'antipolitica. Apparve in una democrazia europea colpita da una devastante crisi economica, davanti alla quale i vecchi partiti sembravano paralizzati.

Io ho cambiato solo alcune parole, sostituendo il nome di questo paese con l'Italia.

Quello che noi domandiamo è nuovo, decisivo, radicale e rivoluzionario nel vero senso della parola. Ma non ha niente a che vedere con rivolte e colpi di Stato. Potrebbero pure accadere ma non le vogliamo. Le rivoluzioni sono atti spirituali. Prima appaiono nelle persone, poi in politica ed infine nell'economia. Persone nuove formano strutture nuove. La trasformazione che noi vogliamo è prima di tutto spirituale: da quella nasceranno tutte le altre.

La rivoluzione è già visibile nei nostri iscritti ed esponenti. Il risultato è un nuovo tipo di movimento politico. Coerente con questo atteggiamento i suoi esponenti hanno, in politica, un atteggiamento privo di compromessi. Non esiste per loro il se e il quando, ma solo il sì o il no.

Noi domandiamo:

  1. Dignità per l'Italia. Una nazione che ha svenduto la sua dignità all'estero ha svenduto le sue fonti di sostentamento. La dignità è alla base di ogni comunità di persone. La perdita di questa dignità ci sta rendendo poveri e schiavi.
  2. Al posto di uno stato di servi, vogliamo un nuovo stato italiano. Lo stato non è un fine in se stesso ma piuttosto un mezzo per un fine. Il fine ultimo è il popolo. L'istituzione che oggi si fa chiamare repubblica italiana non è più adatta a difendere gli interessi della popolazione italiana.
  3. Lavoro per tutti i cittadini, con stipendi commisurati al merito. Questo significa più soldi in busta paga per chi lavora.
  4. Prima pensiamo ai bisogni della popolazione, dalla casa al lavoro, e poi eventualmente si paga il debito!
  5. Una spietata battaglia contro la corruzione! Una guerra contro lo sfruttamento e per la libertà di chi lavora! L'eliminazione dell'influenza finanziaria e capitalista dalle scelte politiche del paese!
  6. Un programma senza compromessi attuato da uomini che lo applicheranno con passione. Nessuno slogan, solo energia e passione.
Lo metto così, per aiutarci a scegliere. Così se prendiamo una strada magari sappiamo anche dove porta, cosa che spesso può rivelarsi utile.

giovedì 14 giugno 2012

14 giugno 1985

14 Giugno 1985
Giuseppe Spada imprenditore

Giuseppe Spada sembra morto senza lasciare tracce della sua vita, se non quella di una morte per mano di mafia.

Per quanto abbia cercato in tutte le fonti a mia disposizione non ho trovato nulla di lui, a parte il suo nome inserito in tutte le lunghe liste di vittime di mafia.

Mi dispiace veramente non poter scrivere altro che questo, ma resta pur sempre un piccolo ricordo.
Se qualcuno ha qualche notizia da fornire gliene sarei veramente grata.

mercoledì 13 giugno 2012

13 giugno 1983

13 Giugno 1983
Mario D’Aleo 29 anni, capitano dei carabinieri
Pietro Morici 27 anni, carabiniere
Giuseppe Bommarito 39 anni, carabiniere

Mario D’Aleo, capitano dei Carabinieri, Pietro Morici, Carabiniere e Giuseppe Bommarito, appuntato dei Carabinieri vennero uccisi la sera del 13 giugno a Monreale (Palermo). L’obiettivo dell’agguato è il capitano D’Aleo, che ha preso il posto di Basile nella stazione di Monreale e ha approfondito le sue indagini fino a individuare l’organigramma del nuovo vertice corleonese. Ma la scoperta conduce D’Aleo alla tomba e sparisce con lui. La commissione si riunisce di corsa per votare la sua condanna, ogni “famiglia” interessata fornisce il killer più abile.
Lo squadrone della morte che apre il fuoco in via Cristoforo Scobar è composto da Raffaele Ganci, da suo figlio Domenico, da suo nipote Francesco Paolo Anzelmo, da Salvatore Biondino, da Michelangelo La Barbera.

Da Repubblica
La giornata stava volgendo al termine e gli ultimi raggi di sole illuminavano Palermo, quando nella via Cristoforo Scobar due uomini d' onore, giunti dinanzi al civico 22, camminando tranquillamente, estrassero le pistole e cominciarono a sparare. Un altro killer munito di fucile - improvvisamente sceso da una Fiat 131 di colore arancione scuro, rubata, che si era avvicinata - supportò la loro azione. Una pioggia di colpi investì tre carabinieri in divisa, appena giunti a bordo di un' auto di servizio Fiat Ritmo, per consentire a uno di loro di recarsi dalla fidanzata. Non ebbero nemmeno il tempo di rendersi conto di quanto stava accadendo e di impugnare le armi, trovate poi riposte nelle fondine. Due di loro avevano fatto in tempo a scendere dall' autovettura. Morivano così il capitano Mario D' Aleo, l' appuntato Giuseppe Bommarito e il carabiniere Pietro Morici. Era il 13 giugno 1983.

Quel delitto non è rimasto impunito. Il movente mafioso è stato accertato, la decisione fu deliberata dalla commisione provinciale di Cosa nostra e molti responsabili sono stati arrestati e condannati. L' ultimo processo alla Corte d' assise d' appello di Palermo in sede di rinvio, a seguito dell' annullamento della Corte di Cassazione, si è concluso il 23 maggio 2007. Si dovettero però attendere le confessioni di Calogero Gangi e, soprattutto, di Francesco Paolo Anzelmo per conoscere da chi era stato costituito lo squadrone della morte.


Dalla sentenza della Corte d’Assise di Palermo del 16 Novembre 2001
Fin dal momento del suo insediamento, il Capitano D’Aleo aveva proseguito, con lo stesso zelo, l’attività di polizia giudiziaria del suo predecessore, volta a contrastare gli interessi mafiosi nel territorio ove imperversava la potente cosca di San Giuseppe Jato, comandata da Brusca Bernardo ed avente come referente, a Monreale, Damiani Salvatore.
L’ufficiale aveva, pertanto, avviato una serie di indagini indirizzate a colpire le iniziative economiche riferibili ai suddetti esponenti mafiosi ed alla cattura dei latitanti che si nascondevano nella zona, fra i quali lo stesso Brusca Bernardo, avvalendosi a tal fine anche della collaborazione dell’Appuntato Bommarito, il quale aveva già operato a fianco del Capitano Basile. L’Appuntato Bommarito, con il Capitano Basile, si era occupato di penetranti indagini nei confronti di Damiani Salvatore, nel corso delle quali i militari avevano sorpreso il boss mentre teneva una riunione con altri soggetti ritenuti appartenenti ad associazione mafiosa e ne era scaturito un conflitto a fuoco. E tali precedenti avevano indotto il Capitano D’Aleo a ritenere che il Damiani fosse coinvolto, quale mandante, nell’omicidio del suo predecessore; sicché l’ufficiale non aveva mai distolto la sua attenzione su quel boss, sottoponendolo fra l’altro ad un fermo in quanto indiziato di essere coinvolto in alcuni episodi di “lupara bianca” verificatisi nell’82 e proponendolo per l’applicazione della misura di prevenzione, sia personale che patrimoniale. Contemporaneamente, il Capitano D’Aleo si era attivato, anche mediante una serie di perquisizioni, al fine rintracciare il latitante Bernardo Brusca. L’ufficiale, infatti, aveva ben compreso quale fosse il peso mafioso nella zona dei diversi componenti della famiglia del Brusca e, per questo, quando incrociava qualcuno di loro, non mancava di fermarlo e sottoporlo a controlli. […]
Il racconto del collaboratore [Anzelmo] conferma la matrice mafiosa del delitto, del resto già desumibile da quanto si è appreso in ordine all’attività di contrasto a Cosa Nostra svolta dal Capitano D’Aleo, nel territorio della Compagnia dei CC. di Monreale coincidente con quello del mandamento di San Giuseppe Jato, divenuto una delle principali roccaforti dei “corleonesi”.
Come è stato riferito da diversi collaboratori e fra gli altri da Brusca Giovanni, in quel periodo nella zona trascorreva la latitanza il capo mandamento Brusca Bernardo; ma anche Riina Salvatore era solito risiedervi, nella proprietà in contrada Dammusi ove il 30.11.1982 era stato ucciso Riccobono Rosario e, peraltro, nella stessa contrada, nel 1985, verrà arrestato Brusca Bernardo.
Il Capitano D’Aleo, al pari del suo predecessore, non si era limitato a ricercare quei pericolosi latitanti mediante un’azione pressante anche nei confronti dei loro familiari (come il giovane Brusca Giovanni), ma aveva sviluppato indagini dirette a colpire i ramificati interessi mafiosi nella zona.
Nel portare avanti quest’attività, anche tramite fermi ed arresti, l’Ufficiale aveva dimostrato pubblicamente di volere compiere il suo dovere, senza farsi condizionare dal potere mafioso acquisito dai boss e dal pericolo delle loro ritorsioni.
Pertanto, è lecito ritenere che la motivazione dell’uccisione del Capitano D’Aleo, risieda nella necessità di fermare un’azione di polizia giudiziaria che prima o poi avrebbe dato i suoi frutti con danni incalcolabili, essendosi peraltro acquisita la consapevolezza che ci si trovava di fronte ad un altro servitore dello Stato assai determinato e in grado di mettere a repentaglio lo stesso prestigio da sempre goduto dai mafiosi in quel territorio.
Al riguardo, è esemplificativo l’episodio relativo all’arresto di Brusca Giovanni avvenuto nel Gennaio 1982, a seguito del quale l’anziano Brusca Emanuele era stato costretto ad uscire allo scoperto e recarsi personalmente presso la caserma dei Carabinieri per lamentarsi del trattamento riservato alla sua famiglia e lanciare sinistri avvertimenti al Capitano D’Aleo.
Ve ne è, dunque, abbastanza per individuare il movente mafioso del delitto e per rendersi conto di come esso avrebbe dovuto essere eseguito al più presto, anche a costo di inasprire - ancora una volta - lo scontro con lo Stato.
Cosa Nostra era l’unica organizzazione criminale operante sul territorio in grado di mettere a segno un’azione militare di quel tipo e l’impronta del suo coinvolgimento è vieppiù percepibile, ove si consideri che le indagini sulle armi e sull’auto utilizzate per eseguire l’agguato di via Scobar, hanno evidenziato collegamenti con altri tre altri omicidi riferibili a detto sodalizio.

lunedì 11 giugno 2012

11 giugno 1948

11 Giugno 1948
Antonio Giacalone contadino
Marcantonio Giacalone contadino

A Partinico i banditi della banda Giuliano uccidono il possidente Marcantonio Giacalone e il figlio Antonio: si erano rifiutati di sborsare una somma di denaro.

domenica 10 giugno 2012

10 giugno 1922

10 Giugno 1922
Sebastiano Bonfiglio 43 anni, politico, socialista

Nasce a San Marco Valderice il 23 settembre del 1879 da Nicolò e Francesca Tosto.
Il padre avviò subito il figliolo al lavoro artigiano. Spirito rivoluzionario il Bonfiglio sin da giovanissimo partecipò alla formazione dei fasci dei lavoratori alimentando la sua costante opposizione alla politica e al potere che veniva esercitato dal clero, dalla borghesia del Comune capoluogo Monte San Giuliano, che lasciava le borgate e le frazioni di tutto il territorio abbandonate a se stesse, senza un intervento che potesse risolvere gli svariati ed annosi problemi della disoccupazione e del lavoro.
Partecipò attivamente alla politica e si distinse per la sua solérte attività per le rivendicazioni dei contadini e degli artigiani.

Impegnatosi da solo negli studi, ottenne prima il diploma d’insegnante elementare e poi quello di perito agrario, che gli consentirono di assumere nel movimento socialista posizioni rappresentative di prestigio.

Dopo essere stato per qualche tempo in America, dove fonda una sezione socialista, ritorna in Patria e viene chiamato al servizio militare in seguito all’inizio della prima guerra mondiale.
Finita la guerra riprende nel trapanese la sua fervente attività politica, in contrasto con le prepotenze della amministrazione ericina e soprattutto sostenitore accanito dello spostamento del capoluogo dalla vetta ericina a S. Marco-Paparella. Nell’ottobre del 1920 le elezioni amministrative vengono vinte dal partito socialista.
Bonfiglio viene eletto Sindaco di Monte San Giuliano. Tra i provvedimenti urgenti e di grande importanza vi è la deliberazione consiliare del 23 gennaio 1921 per lo spostamento del Capoluogo dal Comune della vetta ericina alla frazione di San Marco-Paparella.

Ma il 10 giugno del 1922 mentre rientra da una riunione di giunta tenuta a Monte S. Giuliano, in località Gianguzzo viene ucciso in un agguato con due colpi di fucile.

Fonte

sabato 9 giugno 2012

9 Giugno 1989
Salvatore Incardona dirigente della cooperativa Agriduemila

Salvatore Incardona era dirigente della cooperativa Agriduemila, ucciso dalla mafia il 9 giugno 1989 a Vittoria perché si era rifiutato di pagare il pizzo e aveva sollecitato i colleghi della struttura pubblica a reagire alla mafia.

Salvatore Incardona è un grossista al mercato ortofrutticolo di Vittoria.

Senza dare nell’occhio cerca di convincere i colleghi a non pagare più il pizzo, a firmare tutti insieme una denuncia collettiva contro la banda degli estorsori.

Incardona non si sente un eroe, vuole soltanto difendere il proprio lavoro, non accetta più di sottostare a una soperchieria che lo priva di una parte del suo onesto guadagno.

Il 9 giugno lo aspettano con i fucili a pompa all’uscita da casa: venne crivellato di colpi mentre era al volante della sua auto.

Il figlio, Carmelo Incardona, aveva 25 anni quando suo padre morì. Oggi fa l'avvocato e si è dato alla politica, in Alleanza Nazionale. Ricorda: "Il papà lo diceva apertamente, 'io non pago'. Lo diceva a me, ma anche al bar, in piazza. Ai colleghi che come lui avevano un box al mercato diceva: 'Se ci opponiamo tutti non potranno farci niente'". Ma i suoi colleghi avevano accettato tutti l'estorsione dei Carbonaro-Dominante. L'avevano addirittura istituzionalizzata, come fosse una tassa, un'addizionale da calcolare sulle cassette di legno impiegate: tante cassette usate, tanto pizzo da pagare.

Aveva approvato anche il presidente del consorzio dei commissionari, che si era addirittura recato da Incardona per cercare di convincerlo a non inceppare il sistema. Il commerciante aveva rifiutato. Allora erano entrati in funzione i kalashnikov.

Incardona fu ucciso e tradito due volte. Prima fu lasciato solo a opporsi al racket e consegnato dai colleghi ai suoi killer, poi, da morto, fu abbandonato da chi sapeva e anzi la sua memoria fu inquinata dal sospetto: "Io non sono andato al suo funerale", confessa un politico di Vittoria, "perché se era stato ammazzato poteva essere in qualche modo coinvolto in affari loschi".

Invece era un uomo coraggioso, che fu ucciso due anni prima di Libero Grassi, l'imprenditore palermitano che si oppose al pizzo e fu eliminato da Cosa Nostra nel 1991.

Fonte

le agende rosse

Il movimento delle agende rosse è stato fondato da Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, e ha come obiettivi la difesa della legalità, la funzione della Società Civile, la difesa della Magistratura, l'approfondimento delle tematiche relative alla criminalità mafiosa e alle infiltrazioni di questa nella politica e nella pubblica Amministrazione, la ricerca della Verità e la richiesta di Giustizia sulle stragi del '92 e del '93.
Se volete saperne di più potete visitare il loro sito http://www.19luglio1992.com/, che contiene documentazione e interventi molto interessanti.
Tra le altre iniziative, in collaborazione con il Fatto quotidiano hanno realizzato un dvd sulla strage di via d'Amelio che vi consiglio caldamente se volete saperne di più dei misteri che ancora si nascondono dietro quella stagione.

Ora il popolo delle agende rosse ha avviato una campagna in difesa della magistratura che si occupa delle stragi del '92-'03 e chiede aiuto alla rete così:

Vuoi fare una piccola cosa per aiutare il Movimento delle Agende Rosse e soprattutto i Magistrati impegnati nelle inchieste sulle stragi del 92-93?
Ti chiediamo di stampare qualcuno dei cartelli che trovi più in basso in a4 o a3, a colori o in B/N e di appenderli nel luogo che riterrai più opportuno (bacheca della tua azienda, vetrina del tuo negozio, vetrina del Bar vicino casa, lunotto posteriore dell'auto). E magari di mandarli via mail ai tuoi amici che non fanno parte del movimento e, se hai facebook, di farli girare anche lì.

Dopo i recenti attacchi alla magistratura e ad Ingroia e Di Matteo in particolare, abbiamo deciso di rispondere in maniera abbastanza eclatante.
Qualche settimana fa, per esempio, fa abbiamo appeso i cartelli di cui sopra, di notte, nelle principali città d'Italia
Ora dobbiamo continuare nell'opera di sensibilizzazione dell'opinione pubblica. L'idea è di diffondere il più possibile le immagini e le frasi contenute nei cartelli qui sotto
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Se puoi fai una foto del cartello esposto e mandalo via mail a questo indirizzo 19luglio1992@gmail.com
Delle foto faremo un collage che pubblicheremo sul sito 19luglio1992.com. Le foto più curiose e belle le porteremo ed esporremo in Via D'Amelio il 19 Luglio.
Sarebbe utile rinominare il file della foto come: nomecitta-luogoaffissione.jpg (esempio roma-bartrombetta.jpg).

Le immagini più grandi le trovate a questi link
http://dl.dropbox.com/u/30466944/1b.jpg
http://dl.dropbox.com/u/30466944/2b.jpg
http://dl.dropbox.com/u/30466944/3b.jpg
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Ci aiuti?

Il movimento agende rosse

giovedì 7 giugno 2012

7 giugno 1945

7 Giugno 1945
Nunzio Passafiume sindacalista

Nunzio Passafiume fu un sindacalista siciliano. Venne ucciso da Cosa Nostra il 7 giugno 1945 a Trabia (PA) nell’ambito della lotta per l’occupazione delle terre contro la mafia. La mafia della zona Trabia-Casteldaccia non tollera la crescita del movimento contadino e popolare ed è tra le prime a percorrere la strada della violenza omicida.


Contro i ritardi l'occupazione delle terre
I braccianti rivendicavano l’emanazione dei decreti prefettizi di concessione dei latifondi. Fu per protestare contro questi ritardi che decisero di occupare simbolicamente le terre, rivendicando l’emanazione dei decreti prefettizi di concessione. Rapidamente, il movimento di occupazione delle terre incolte fu presente in tutte le province, ma si sviluppò più intensamente nella Sicilia centro-occidentale, a prevalente coltura latifondistica. Vi parteciparono anche tanti coltivatori, ma l’anima del movimento erano i braccianti senza terra e i contadini poveri, più combattivi e numerosi. Organizzatori di queste lotte furono i partiti democratici e i sindacati, che avevano ripreso le loro attività, dopo il ventennio fascista. In primo luogo, il Pci e il Psi, le Camere del lavoro della Cgil, la Federterra, ma in alcuni casi anche la Dc. E diedero vita alle famose «cavalcate». Il 10 ottobre 1945, per esempio, a Santa Caterina Villarmosa, circa 1.500 contadini organizzarono la «marcia su Caltanissetta», per attirare «l’attenzione delle autorità sull’opportunità e l’urgenza di concedere le terre incolte […], prima che passasse l’epoca della semina», scrisse Michele Pantaleone (Mafia e politica 1943-1962, Torino 1962). Un’iniziativa analoga fu organizzata, nell’autunno ’46, dai contadini di Piana degli Albanesi, che si recarono a cavallo e a piedi fino a Palermo, percorrendo un tragitto di circa venti chilometri. Si mobilitarono anche i contadini di Corleone, di San Giuseppe Jato e di San Cipirello. Dopo queste prime manifestazioni di lotta, le prefetture cominciarono ad emanare alcuni decreti di concessione di terre incolte, ma i latifondisti continuarono ad ostacolare in tutti i modi (legali ed extra-legali) le procedure di assegnazione. Nelle campagne siciliane, quindi, si respirava un clima tutt’altro che tranquillo. Di fronte all’ostruzionismo degli agrari, i contadini esasperati promuovevano manifestazioni di protesta intensificando le occupazioni delle terre incolte. Ma gli agrari, spalleggiati dai campieri e dai gabelloti mafiosi, intrecciarono l’ostruzionismo legale col terrorismo extra-legale. E ritornarono a sparare. Il 7 giugno 1945, infatti, a Trabia, venne assassinato un sindacalista della Cgil, Nunzio Passafiume, perché - secondo il giornalista Marcello Cimino - «aveva diffuso in paese idee di uguaglianza e giustizia e in molti [avevano cominciato] a dargli ascolto». «Come dimostrano le successive cronache sindacali e i risultati elettorali - aggiunse il cronista - i mafiosi di Trabia, dopo quel delitto, vissero abbastanza tranquilli per diversi anni».