lunedì 20 maggio 2013

20 Maggio 1914
Mariano Barbato 66 anni, socialista
Giorgio Pecoraro 60 anni, socialista

Piana dei Greci (Palermo) viene assassinato il dirigente socialista Mariano Barbato, cugino di Nicola Barbato, uno dei dirigenti più prestigiosi del movimento contadino, assieme al cognato Giorgio Pecoraro.

«Verso le ore 7,30 del 20 andante (20 maggio 1914 – n.d.r.), in contrada Cardona di questo territorio, mentre Barbato Mariano fu Giuseppe, d’anni 66, possidente pregiudicato, Percoraro Giorgio fu Nicolò, d’anni 60 contadino e Ciulla Vito fu Crisostomo d’anni 54, muri fabbro, tutti da qui, erano intenti alla costruzione di un muro a secco in un fondo del primo, furono avvicinati improvvisamente da tre sconosciuti i quali, dopo averli salutati, esplosero contro di loro simultaneamente vari colpi di fucile, due dei quali rendevano all’istante cadavere il Barbato e il Pecoraro, restando miracolosamente incolume il terzo operaio nella persona del Ciulla suddetto…».
Il linguaggio dei Reali Carabinieri della Stazione di Piana dei Greci, che alle 22 del 20 maggio 1914 stesero questo rapporto, è ovviamente burocratico. Ma «comunica» perfettamente il cinismo e il sangue freddo dei killer di mafia, che – di giorno e a viso scoperto – uccisero due contadini, risparmiando il terzo, per poi allontanarsi dal luogo del delitto «a passo regolare», senza fretta. Non uccisero anche il Ciulla perché si trovava lì casualmente e, ovviamente, aveva dato «garanzie» che mai avrebbe fatto i nomi degli assassini. Le due vittime non erano persone sconosciute, ma due militanti del Partito socialista di Piana dei Greci (l’attuale Piana degli Albanesi). In particolare, Mariano Barbato era «braccio destro» e cugino di Nicola Barbato, ormai famoso «apostolo» del socialismo siciliano, conosciuto in tutt’Italia. Il duplice delitto destò grande impressione a Piana, anche perché ormai erano alle porte le elezioni amministrative, che i socialisti si apprestavano a vincere. Sembrò, quindi, un «messaggio» ai futuri vincitori per condizionarli e al loro leader politico, Nicola Barbato.
In effetti, Mariano rappresentava un po’ la tradizione di lotte contadine a Piana, anche perché il suo impegno politico era iniziato prima ancora dell’avvento dei Fasci. Già nel 1882 era stato arrestato con altri lavoratori per «istigazione all’ammutinamento dal lavoro durante uno sciopero contadino», racconta Francesco Petrotta nel volume «Politica e mafia a Piana dei Greci da Giolitti a Mussolini» (La Zisa, Palermo, 2001). E aggiunge: «Subì diversi processi politici: nel 1894 per aver partecipato ai Fasci dei lavoratori e nel 1898 per aver preso parte alla Federazione socialista dei Lavoratori di Piana, che secondo i giudici era diretta ad incitare alla disubbidienza della legge e all’odio fra le varie classi sociali». Per questo i Carabinieri scrissero che era un «pregiudicato», esclusero la matrice locale del delitto ed indirizzarono subito le indagini verso San Giuseppe Jato, dove tre giorni prima, nel corso di un comizio di Nicola Barbato per le elezioni provinciali, Mariano Barbato si era lasciato andare a questa affermazione offensiva: «Chi non è con noi è un vigliacco! Abbasso la mafia! Abbasso la camorra!». Un’impostazione non condivisa dal leader socialista Nicola Barbato, che il 26 maggio si recò a Palermo dal giudice istruttore e dichiarò a verbale: «E’ notorio che io sono a capo al movimento di questo locale partito socialista (…) e quei pochi che hanno fin’ora avuto il potere non vedono di buon occhio la loro prossima probabile caduta». Tra quei «pochi» Barbato mette il sindaco Paolo Sirchia, l’assessore Schiadà Luca e l’assessore Fusco Saverio. «Questi tre – spiegò Barbato al giudice – io non l’indico come esecutori dell’assassinio, ma come capaci per la sete di dominio, di andare a suggestionare i delinquenti contro di noi…». In sostanza, Nicola Barbato volle definire un delitto politico-mafioso quello di suo cugino Mariano e del cognato di questi Giorgio Pecoraro. Questa ipotesi di Barbato venne tassativamente (ed imprudentemente) esclusa dal delegato di P.S. di Piana, Andrea Cotugno, che il 7 giugno 1914 scrisse al giudice istruttore: «Conosco … il Sindaco Paolino Sirchia e gli assessori Fusco e Schiadà e conosco pure il loro animo… e perciò non posso ritenere che essi abbiano potuto, non dico determinare, ma neanche ideare semplicemente, un così tenebroso proponimento… ». Come previsto, il 28 giugno 1914 i socialisti vinsero le elezioni a Piana dei Greci ed elessero sindaco l’avv. Giuseppe Camalò, ma l’inchiesta sul duplice omicidio fu archiviata.
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Si può dire che alla fine dell’Ottocento, agli inizi del Novecento, nel primo e nel secondo dopoguerra la lotta per i diritti e la libertà dei lavoratori siciliani fu anche lotta contro la mafia. "Questa lotta - dice Petrotta - fu combattuta principalmente nelle campagne, dove le grandi masse contadine, affamate e senza terra, si mobilitarono sotto la guida del sindacato e del partito socialista prima e comunista dopo per il superamento del latifondo". A Piana questa lotta durissima fu combattuta eroicamente dai contadini, che pagarono un altissimo prezzo di sangue. Infatti, furono eliminati dirigenti politici e sindacali come Mariano Barbato "Laparduni" e Giorgio Pecoraro (20 maggio 1914), Vito Stassi "Carusci" (28 aprile 1921), i fratelli Vito e Giuseppe Cassarà "Portabandiera" (4 maggio 1921), Antonino Ciolino (aprile 1924). E il 1° maggio 1947, a Portella della Ginestra, fu consumata la prima strage contro famiglie contadine inermi. "L’operazione politica che portò il capomafia Ciccio Cuccia a sindaco di Piana - racconta ancora Petrotta - avvenne con l’appoggio del poeta Giuseppe Schirò, irriducibile avversario di Nicola Barbato (...). Lo stesso Schirò difese più volte pubblicamente l’amministrazione mafiosa di Ciccio Cuccia, considerandola "la più adatta per il pacifico sviluppo delle migliori qualità del suo popolo", in grado di aprire un "nuovo periodo della nostra storia". In un discorso tenuto dal balcone del municipio, arrivò persino ad elogiare il capomafia Ciccio Cuccia per avere avuto il merito storico e il coraggio di "avere fatto sparire quel straccio rosso del socialismo dal nostro Comune". Circostanza questa rivelata dalla vedova di Vito Stassi "Carusci", Maria Talento, alle autorità giudiziarie. Dopo il delitto di Mariano Barbato elementi del partito democratico aprirono una aspra campagna di isolamento e di denigrazione contro Nicola Barbato, fatta di insinuazioni e maldicenze, mentre la mafia tentò la sua eliminazione fisica. La mafia non riuscì nel suo proposito per il fatto che Barbato lasciò il paese per Milano, dopo un periodo in cui fu protetto dai suoi compagni.
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giovedì 16 maggio 2013

16 Maggio 1911
Lorenzo Panepinto 46 anni, sindacalista

Lorenzo Panepinto nacque a S. Stefano Quisquina il 4 gennaio 1865, da Federico ed Angela Susinno. Fu maestro elementare e si dilettò pure di pittura. La sua vera passione era, però, la politica, che cominciò a praticare dal 1889, quando fu eletto consigliere comunale nel gruppo dei democratici mazziniani, che mise in minoranza il gruppo dei liberal-moderati fino ad allora al potere. La vecchia maggioranza reagì rabbiosamente, riuscendo a far sciogliere il consiglio comunale ed insediando il regio commissario Roncourt, la cui condotta partigiana non riuscì ad impedire una seconda sconfitta dei conservatori nelle elezioni dell’agosto 1890. Il governo del marchese Di Rudinì commissariò nuovamente il comune e Panepinto si dimise per protesta, dedicandosi all’insegnamento e alla pittura. Poi si sposò e partì per Napoli, ma al ritorno, nel 1893, la Sicilia era in subbuglio per il movimento dei Fasci. Fondò, quindi, il Fascio di S. Stefano, che pochi mesi dopo venne sciolto dal governo Crispi, come tutti gli altri Fasci dell’isola. Per rappresaglia politica fu licenziato dal comune dal posto di maestro elementare, ma non si scoraggiò e continuò i suoi studi pedagogici e di metodologia didattica, pubblicando due interessanti volumi nel 1897.
Nei primi del ‘900, alla ripresa degli scioperi agricoli, Panepinto fu di nuovo in prima linea, al fianco di dirigenti come il corleonese Bernardino Verro e il prizzese Nicola Alongi, insieme ai quali avrebbe messo a punto un cambiamento di strategia politica, puntando a dare ai contadini gli strumenti delle cooperative agricole e delle Casse Agrarie, per emarginare i gabelloti dei feudi.
Tra il 1907 e il 1908 fu in America, ma poi ritornò nuovamente al suo paese.
Il 16 maggio 1911 venne assassinato a Santo Stefano Quisquina, proprio davanti l'ingresso di casa sua, con due colpi di fucile al petto.
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16 Maggio 1955
Salvatore Carnevale 31 anni, sindacalista
Bracciante e sindacalista socialista di Sciara (PA) a 31 anni venne assassinato il 16 maggio 1955 all’alba mentre si recava a lavorare in una cava di pietra gestita dall’impresa Lambertini. I killer lo uccisero mentre percorreva la mulattiera di contrada Cozze secche.
Carnevale aveva dato molto fastidio ai proprietari terrieri per difendere i diritti dei braccianti agricoli: era infatti molto attivo politicamente nel sindacato e nel movimento contadino. Nel 1951 aveva fondato la sezione del Partito Socialista Italiano di Sciara ed aveva organizzato la Camera del lavoro. Nel 1952 aveva rivendicato per i contadini la ripartizione dei prodotti agricoli ed era riuscito ad accordarsi con la principessa Notabartolo. Nell’ottobre 1951 aveva organizzato i contadini nell’occupazione simbolica delle terre di contrada Giardinaccio della principessa. Carnevale per questo fu arrestato e uscito dal carcere si trasferì per due anni a Montevarchi in Toscana, dove scoprì una cultura dei diritti dei lavoratori più forte e radicata.
Nell’agosto 1954 tornò in Sicilia, dove cercò di trasferire nella lotta contadina le sue esperienze settentrionali. Fu nominato segretario della Lega dei lavoratori edili di Sciara. Tre giorni prima di essere assassinato era riuscito ad ottenere le paghe arretrate dei suoi compagni e il rispetto della giornata lavorativa di otto ore.
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16 Maggio 1946
Gaetano Guarina 44 anni, socialista, sindaco di Favara

Gaetano Guarino (Favara, 16 gennaio 1902 – Favara, 16 maggio 1946) è stato un politico italiano, vittima della Mafia.

Nato in una famiglia povera (la madre era casalinga ed il padre ebanista), studiò a Palermo e dopo aver ottenuto nel capoluogo siciliano la maturità classica si laureò nel 1928 in farmacia presso la locale università. Negli anni universitari cominciò a scrivere articoli per L'Avanti!, quotidiano socialista allora clandestino.

Dal 1928 al 1930 lavorò come tirocinante a Burgio, dove conobbe la sua futura moglie. Nel corso degli anni trenta tornò a Favara, suo paese natale, dove acquistò una farmacia esercitando di conseguenza la professione di farmacista: in questi anni Guarino chiese ed ottenne regolarmente la tessera del Partito Nazionale Fascista, anche se probabilmente lo fece solo per poter proseguire la sua attività.

Nel 1943, dopo lo sbarco in Sicilia degli americani, si iscrisse al Partito Socialista Italiano e divenne segretario comunale del PSI a Favara. Il 2 ottobre del 1944, su proposta del prefetto di Agrigento, Guarino venne nominato sindaco del suo paese ma si dimise dall'incarico il 15 settembre del 1945 dopo che tre assessori della Democrazia Cristiana si dimisero dall'incarico.

Guarino lottò contro i grandi proprietari terrieri che sfruttavano la locale manodopera e divenne la voce dell'umile gente che chiedeva l'attuazione delle leggi Gullo-Segni che destinavano alle cooperative i terreni incolti appartenenti ai latifondi: costituì anche una cooperativa agricola, che probabilmente si ispirava alla "Madre Terra" di Accursio Miraglia, ed i "baroni" del latifondo cominciarono a remargli contro.

Il 10 marzo del 1946 si svolsero le elezioni comunali a Favara e Guarino, sostenuto oltre che dai socialisti anche dal Partito Comunista Italiano e dal Partito d'Azione, vinse le consultazioni con il 59% dei voti e fu eletto sindaco; ma la Mafia delle terre non gli perdonò le sue scelte popolari e dopo appena 65 giorni di sindacatura fu ucciso con un colpo di lupara alla nuca.
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giovedì 9 maggio 2013

9 Maggio 1947
Michelangelo Salvia 34 anni, sindacalista

Nelle campagne di Partinico (Palermo) ritrovato il corpo del contadino Michelangelo Salvia, ucciso con colpi di arma da fuoco, ad opera di mafiosi del luogo.
9 Maggio 1990
Giovanni Bonsignore 59 anni, funzionario

Giovanni Bonsignore (Palermo, 10 gennaio 1931 – Palermo, 9 maggio 1990) è stato un funzionario italiano. Bonsignore fu dirigente superiore dell’assessorato regionale della cooperazione, del commercio e pesca della Regione Siciliana. Il funzionario pagò con la vita la sua intransigenza e il profondo rigore applicato quotidianamente al suo lavoro. Non si era mai voluto piegare a direttive che contrastavano con la legge e per questo era stato trasferito ad un altro ramo dell’amministrazione. Da dirigente dell’assessorato alla Cooperazione aveva ostacolato la creazione del consorzio agroalimentare, un organismo costato miliardi di lire, recuperati da capitoli di bilanci che egli sosteneva fossero destinati ad altre spese. Aveva preparato una relazione molto dettagliata nella quale sosteneva che secondo le leggi regionali e statali in vigore, il finanziamento predisposto dalla Regione Siciliana di circa 38 miliardi era illegittimo. Fu assassinato il 9 maggio 1990 alle 8:30 a Palermo in Via Alessio Di Giovanni, appena uscito di casa dopo aver acquistato un quotidiano.
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9 Maggio 1978
Peppino Impastato 30 anni, attivista politico

Giuseppe Impastato, meglio noto come Peppino (Cinisi, 5 gennaio 1948 – Cinisi, 9 maggio 1978), è stato un politico, attivista e conduttore radiofonico italiano, famoso per le denunce delle attività della mafia in Sicilia, che gli costarono la vita.

Peppino Impastato nacque a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio 1948, da una famiglia mafiosa (il padre Luigi era stato inviato al confino durante il periodo fascista, lo zio e altri parenti erano mafiosi e il cognato del padre era il capomafia Cesare Manzella, ucciso nel 1963 in un agguato nella sua Giulietta imbottita di tritolo). Ancora ragazzo rompe con il padre, che lo caccia di casa, ed avvia un’attività politico-culturale antimafiosa. Nel 1965 fonda il giornalino L’idea socialista e aderisce al PSIUP. Dal 1968 in poi, partecipa, con ruolo dirigente, alle attività dei gruppi di Nuova Sinistra. Conduce le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo, in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.
Nel 1976 costituisce il gruppo Musica e cultura, che svolge attività culturali (cineforum, musica, teatro, dibattiti, ecc.); nel 1977 fonda Radio Aut, radio libera autofinanziata, con cui denuncia i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, in primo luogo del capomafia Gaetano Badalamenti, che avevano un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto. Il programma più seguito era Onda pazza, trasmissione satirica con cui sbeffeggiava mafiosi e politici.
Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali. Viene assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, nel corso della campagna elettorale, con una carica di tritolo posta sotto il corpo adagiato sui binari della ferrovia. Pochi giorni dopo, gli elettori di Cinisi votano il suo nome, riuscendo ad eleggerlo, simbolicamente, al Consiglio comunale. Stampa, forze dell’ordine e magistratura parlano di atto terroristico in cui l’attentatore sarebbe rimasto vittima e di suicidio dopo la scoperta di una lettera scritta in realtà molti mesi prima. L’uccisione, avvenuta in piena notte, riuscì a passare la mattina seguente quasi inosservata poiché proprio in quelle ore veniva “restituito” il corpo senza vita del presidente della DC Aldo Moro in via Caetani a Roma.
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ll più sfacciato [depistaggio per proteggere mafiosi importanti] è stato quello dell'inchiesta sull'omicidio di Peppino Impastato. Lo hanno fatto 'suicidare', lo hanno fatto diventare un terrorista. E invece era stato assassinato. Per ordine dei boss e, forse, anche di qualcun altro.

Peppino Impastato è morto il 9 maggio del 1978 sui binari della ferrovia Trapani-Palermo, dilaniato da una bomba. Nello stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, a Roma. Peppino aveva 30 anni, era figlio di un mafioso di Cinisi, militava nell'estrema sinistra e lavorava a Radio Aut, una radio libera. L'indagine sulla sua morte è stata truccata fin dalle prime ore. Dai carabinieri.


L'esplosivo usato per il presunto attentato era esplosivo da cava, eppure nei giorni successivi alla morte di Peppino i carabinieri non fecero neppure una perquisizione nelle cave intorno a Cinisi, che erano tutte di proprietà dei mafiosi. Inoltre, nella prima informativa non fecero menzione di una pietra ritrovata sul luogo del delitto: quella che probabilmente uccise Peppino Impastato prima che venisse 'sistemato' sui binari per sembrare un terrorista suicida. E ancora: nel primo rapporto che i carabinieri presentarono alla procura di Palermo, scrissero: "Anche se si volesse insistere su un'ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia".

La mafia a Cinisi era Gaetano Badalamenti, il boss che Peppino Impastato attaccava ogni giorno dai microfoni di Radio Aut, irridendolo col nome di Tano Seduto ; lo stesso Badalamenti che aveva stretto rapporti con alcuni alti ufficiali dell'Arma. Era lui il boss da proteggere. E, probabilmente, Gaetano Badalamenti non era l'unico a volere morto Peppino Impastato.

Tutta l'inchiesta, fin dall'inizio, si è concentrata esclusivamente sulla ricerca di accuse contro la vittima. C'è stato un depistaggio sistematico - e forse pianificato ancor prima dell'omicidio - che è sempre apparso "sproporzionato" per coprire soltanto un mafioso, sia pure un grande capo di Cosa Nostra come Gaetano Badalamenti. Anche il delitto Impastato, dopo tanti anni, sembra uno di quegli omicidi dove è probabile che si sia registrata una "convergenza di interessi". Il fascicolo giudiziario su Peppino Impastato è rimasto per almeno dieci anni "a carico di ignoti". Ci sono voluti altri dieci anni per riaprire le indagini. E altri quattro ancora per condannare Gaetano Badalamenti come mandante del delitto. Un po' di giustizia è stata fatta nel 2002: in un altro secolo. Ma ci sono ancora molti misteri. Testimoni che non sono stati mai ascoltati. E protagonisti di quell'inchiesta che, tanto tempo dopo, sono scivolati nelle indagini sulle trattative fra mafia e Stato a cavallo delle stragi del 1992"
FAQ mafia di Attilio Bolzoni

domenica 5 maggio 2013

5 Maggio 1971
Pietro Scaglione 65 anni, magistrato
Antonio Lorusso agente di custodia

Il Procuratore Scaglione, che ha segnato l’inizio del martirologio nella magistratura italiana, fu ucciso, con Antonio Lorusso suo agente di custodia, alle ore 10.55 del 5 maggio del 1971 in via Cipressi a Palermo, nel corso di un agguato mafioso, dopo la consueta visita nel cimitero dei Cappuccini, dove era sepolta la moglie.
Come è stato scritto anche in sentenze emesse da diverse autorità giudiziarie, Pietro Scaglione – fu un <<magistrato integerrimo, dotato di eccezionali capacità professionali e di assoluta onestà morale, persecutore spietato della mafia>> e <<tutta la verità è emersa a positivo conforto della figura del magistrato ucciso>>, sia per quanto concerne la sua attività istituzionale, sia in relazione alla sua vita privata.
Purtroppo – come si ribadisce ancora una volta con profonda amarezza – le indagini dell’Autorità giudiziaria di Genova, svolte per un ventennio, non hanno consentito di condannare gli autori dell’efferato crimine. E’ stato però accertato che i possibili moventi del delitto sono in ogni caso da ricollegare all’attività svolta <<in modo specchiato>> e inflessibile dal magistrato, soprattutto nella repressione della mafia.
Nella sua lunga carriera di giudice e, soprattutto, di pubblico ministero, iniziata nel 1928, Pietro Scaglione si occupò, infatti, di gravi episodi di mafia e dei misteri siciliani, dal banditismo del dopo guerra agli assassini dei sindacalisti (come Salvatore Carnevale), fino ai delitti mafiosi degli anni Sessanta e Settanta.
Dopo la strage mafiosa di Ciaculli del 1963, grazie soprattutto alle inchieste condotte dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo (guidato da Cesare Terranova) e dalla Procura della Repubblica (diretta da Pietro Scaglione) <<le organizzazioni mafiose furono scardinate e disperse>>, come si legge nella Relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia del 1976.
In particolare, il magistrato Scaglione, prima come Sostituto procuratore generale presso la Corte di appello e poi come Procuratore della Repubblica fu un accusatore implacabile di Luciano Leggio e di tutti gli affiliati alla cosca mafiosa di Corleone – come risulta dagli atti giudiziari e dalle dichiarazioni dei principali collaboratori di giustizia – dirigendo, tra l’altro, personalmente nel 1966, per la prima volta, un’operazione di polizia, a livello internazionale, nei confronti degli stessi (Giuseppe Fava, Tutti gli uomini di Liggio e Navarra arrestati, in Il Tempo del 26 aprile 1966, p. 57).

In questo contesto – come affermò Paolo Borsellino (in La Sicilia, 2 febbraio 1987, p.10) – <<la mafia condusse una campagna di eliminazione sistematica degli investigatori che intuirono qualcosa. Le cosche sapevano che erano isolati, che dietro di loro non c’era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte. Isolati, uccisi, quegli uomini furono persino calunniati. Accadde così per Scaglione [...]>>.
L’uccisione del procuratore Scaglione – come scrisse, a sua volta, Giovanni Falcone (in Interventi e proposte, Sansoni, 1994, p. 310) – ebbe sicuramente <<lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino>>.
Il Procuratore Scaglione svolse anche, con impegno e dedizione, la funzione di Presidente del Consiglio di Patronato per l’assistenza alle famiglie dei detenuti ed ai soggetti liberati dal carcere, promuovendo, tra l’altro, la costruzione di un asilo nido; per queste attività sociali, gli fu conferito dal Ministero della giustizia il Diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d’oro. Infine, con Decreto dello stesso Ministero della Giustizia del 1991, previo parere favorevole del Consiglio Superiore della Magistratura, Pietro Scaglione è stato riconosciuto >>.
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5 Maggio 1960
Cosimo Cristina 24 anni, giornalista

L’irrefrenabile desiderio di giustizia, che lo portava ad una spasmodica ricerca della verità, gli è stato fatale ed ha segnato il suo destino che si è concluso tragicamente nei pressi di una galleria, lungo i binari, alle porte di Termini
Imerese, paese in cui era nato. Una morte terribile, che resta avvolta nel mistero: gli atti processuali parlano di suicidio, ma il convincimento generale è che sia stato ucciso dalla mafia, anzi più precisamente “suicidato” da Cosa Nostra. È la storia di Cosimo Cristina, un giovane cronista. Una storia emblematica di come è difficile fare il corrispondente di provincia, tanto ieri quanto oggi. Il suo corpo, il 5 maggio del 1960, venne trovato dilaniato, con il cranio sfondato. Era quasi irriconoscibile. Aveva 24 anni. Quattro anni prima aveva iniziato a collaborare come corrispondente presso il giornale L’Ora, successivamente anche per l’agenzia Ansa, ed a passare articoli al Corriere della Sera, al Gazzettino di Venezia ed a Il Messaggero di Roma. Veniva pagato poche lire e scriveva di mafia, quando ai quei tempi nessuno osava nemmeno nominarla. I politici di allora dicevano che era un’invenzione dei comunisti. Solo dopo qualche anno verrà costituita la prima commissione d’inchiesta contro la criminalità organizzata che, intanto, nella zona del termitano faceva i propri affari. Siamo a cavallo degli anni ’50 e ’60, quando viene deciso che il futuro di Termini Imerese sarà legato allo sviluppo industriale La società si sta trasformando e la mafia si organizza, muta, si trasforma. Non solo nei comuni della provincia ma anche a Palermo. Un’intuizione che Cosimo Cristina coglie, forse prima di altri. Fonda così, insieme a Giovani Cappuzzo, un settimanale, Prospettive siciliane, e scrive, scava nella realtà, conduce inchieste, indaga su omicidi e fatti di mafia, fa nomi e cognomi di noti personaggi. Gli effetti saranno dirompenti e giorno dopo giorno verrà a poco a poco isolato. Iniziano le minacce, poi seguono le querele. In qualche modo si cerca di intimidire il giovane cronista che va avanti e non si ferma. Cosimo Cristina era entusiasta della vita, che gli si apriva davanti. Era nato a Termini Imerese l’11 agosto 1935. Chi lo ha conosciuto lo descrive come un tipo allegro, gioioso, che non si abbatteva, nonostante le difficoltà. Sempre fermo e deciso ad andare avanti. Un tipo anche eccentrico. Andava in giro a piedi o in sella ad una bicicletta, indossando sempre vestiti eleganti ed al collo un papillon. Portava dei baffetti sottili ed un pizzetto. Il primo numero di Prospettive siciliane esce il 25 dicembre del 1959. Nell’editoriale il giovane cronista anticipa quelle che saranno le sue linee guida, puntando su due temi: la questione morale e la lotta alla mafia. “Prospettive siciliane – scriveva Cristina - sorge in un momento particolarmente importante della storia dell’Isola, che intende affermare i suoi diritti, del resto già consacrati dalla Autonomia, istituto e strumento
di progresso della vita economico- sociale della Sicilia. Uno spirito nuovo anima le popolazioni dell’Isola, che noncuranza di uomini politici ed errori di governanti hanno finora trascurato e dimenticato con grande pregiudizio della economia della stessa nazione. Tale spirito nuovo di fiera e oltranzistica difesa dell’Autonomia contro ogni atto o gesto di sabotatori prezzolati ai monopoli del nord, il nostro giornale intende esprimere attraverso le sue colonne facendosi portavoce degli interessi sani e legittimi, delle aspirazioni più giuste delle nostre popolazioni, nel grande sforzo e nell’immane fatica di riequilibrare le condizioni di vita delle nostre genti. Con spirito di assoluta obiettività, in piena indipendenza da partiti e uomini politici, ci proponiamo di trattare e discutere tutti i problemi interessanti dell’Isola, avendo come nostro motto: senza peli sulla lingua. E poiché riteniamo che premessa indispensabile per ogni opera di rinnovamento è la moralizzazione, denunceremo ogni violazione ai principi di onestà amministrativa e politica, sicuri anche in questo di interpretare i sentimenti e le aspettative di un popolo di antica saggezza. Tutto questo perché noi vogliamo che la Sicilia non sia solo quella folcloristica delle cartoline lucide e stereotipate, né quella delle varie figurazioni a rotocalco e di certa stampa deteriore, per intenderci la Sicilia di Don Calò Vizzini e di Giuliano, ma la Sicilia che faticosamente si fa strada come pulsante cantiere di lavoro e di rinnovamento industriale”. Cosimo Cristina era quindi un cronista libero, non asservito a nessuno, onesto. Un cane senza padrone o meglio come diceva lui un giornalista “senza peli sulla lingua”.

Credeva nella libertà di stampa e nel suo ruolo fondamentale per la democrazia e la crescita di un Paese. Uno di quei corrispondenti di provincia sfruttati, privi di garanzie, di contratto, di protezione e sotto il tiro della mafia. Uno di quei giovani cronisti che muovono i primi passi dentro una redazione e credono di avere toccato il cielo con un dito. Il tutto per pochi soldi che a volte non servono a pagare gli spostamenti, i viaggi, le telefonate. La ricompensa è la firma che appare sotto gli articoli, molto spesso tagliati, magari in parte riscritti. Alcuni non usciranno mai. Ma aveva un fiuto per la notizia, una forte passione ed una grande carica ideale. Chi lo ha conosciuto lo descrive come un fiume in piena, una fucina di idee e notizie. Ma spesso la verità è talmente palese e sotto gli occhi di tutti che, proprio per questo, è difficile da raccontare. Certe cose, secondo alcuni, è bene non scriverle, non farle vedere, potrebbero dare fastidio al sindaco o a quell’altro potente di turno o all’imprenditore.
E così Cosimo Cristina, che non aveva di certo di queste remore, incominciò a dare fastidio. Iniziò a scavare su alcuni omicidi di mafia rimasti insoluti, a fare collegamenti e soprattutto ad indicare presunti mandanti ed esecutori. Scrisse della mafia di Termini Imerese e delle Madonie, facendo luce su interessi ed affari. Dapprima iniziarono ad arrivare i messaggi trasversali, miti “consigli” a stare tranquilli. Poi le minacce telefoniche e gli avvertimenti. Mentre intanto incominciarono a fioccare le prime querele. In pratica a poco a poco venne isolato. Attorno a lui venne creato un vero e proprio vuoto. Poi la tragedia. Il corpo di Cosimo Cristina, soprannominato Co.Cri. dalle iniziali scritte sotto gli articoli di cronaca, venne trovato al centro dei binari, disteso a pancia in su e con la testa che sfiorava la rotaia, nei pressi della galleria Fossola di Termini Imerese. Erano le 15.30 di un giovedì, il 5 maggio del 1960. Appena due giorni prima era scomparso da casa. A dare l’allarme fu un guardialinee Bernardo Rizzo, di Roccapalumba. Per terra furono trovati il portafoglio, un mazzo di chiavi e un portasigarette. In tasca aveva una schedina del totocalcio e due biglietti: uno per la fidanzata, l’altro per l’amico Giovanni Cappuzzo, con i quali si scusava per il gesto estremo. Nessun messaggio invece per la madre e per le tre sorelle alle quali era molto legato. Il caso venne subito chiuso come suicidio e così gli vennero negati i sacramenti. Nessun sacerdote fu disposto ad officiare la funzione religiosa. Due mesi dopo l’inchiesta fu archiviata, senza che venisse eseguita un’autopsia sul corpo ed una perizia calligrafica sui biglietti trovati. Soltanto a distanza di sei anni il “caso Cristina” venne riaperto dal vice questore di Palermo, Angelo Mangano. Il funzionario di polizia, famoso per le sue inchieste antimafia che avevano portato all’arresto di Luciano Liggio, stilò un dossier sui misteri delle Madonie: un voluminoso rapporto che sfociò nell’arresto, tra gli altri, di Santo Gaeta, considerato il boss di Termini Imerese, del figlio Giuseppe, di Agostino Rubino, consigliere comunale sempre di Termini, Vincenzo Sorce, Orazio Calà Lesina e di Giuseppe Panzeca, indicato quest’ultimo come capomafia di Caccamo. Mangano era convinto che il giornalista fosse stato ucciso proprio dalle cosche mafiose termitane, con l’assenso della famiglia di Caccamo, al vertice di Cosa Nostra nella zona. Il vice questore ritenne che il movente era da ricercare proprio negli articoli che il giovane cronista aveva pubblicato su Prospettive siciliane ed in particolare uno, in cui si svelavano i retroscena dell’omicidio di un pregiudicato, Agostino Tripi, denunciato per un attentato dinamitardo ad una gioielleria e successivamente ucciso dalla mafia perché parlava troppo. In quell’articolo Cosimo Cristina aveva intervistato la moglie dell’ucciso. La donna fece importanti rivelazioni, suggerendo il nome del presunto assassino. L’inchiesta sulla morte di Cristina così fu riaperta, esattamente dopo sei anni. Venne disposta finalmente l’autopsia. Ma anche questa volta i risultati dell’indagine portarono alla conferma dell’ipotesi del suicidio smentendo il rapporto della polizia e le ipotesi del vice questore. Il caso così venne definitivamente chiuso. Anche se sulla vicenda permangono molti dubbi e interrogativi. Resta il ricordo di un giornalista che ha svolto il proprio mestiere con coraggio e onestà credendo nel ruolo di una libera stampa.
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Nel 1999 il giornalista catanese Luciano Mirone, mediante il libro "Gli Insabbiati. Storie di giornalisti uccisi della mafia e sepolti dall'indifferenza" (Castelvecchi) riesumò il caso e scoprì che nel 1966 il vice questore di Palermo, Angelo Mangano (famoso per una foto che ha fatto il giro del mondo mentre ammanetta il boss di Corleone Luciano Liggio), riaprì l'inchiesta e stilò un rapporto esplosivo che venne neutralizzato dal risultato dell'autopsia: Mangano scoprì che il cronista era stato ucciso in un luogo e deposto sui binari per simulare il suicidio. Il superpoliziotto accusò il consigliere della Democrazia cristiana Agostino Rubino (uno dei capimafia di Termini) e il boss Santo Gaeta di essere stati i mandanti del delitto, che poi vennero scagionati. A distanza di molti anni, Mirone riprese quel carteggio e lo riportò alla luce, mettendo in risalto le contraddizioni del referto autoptico, sottoposto all'attenzione di Vincenzo Milana, professore di Medicina legale dell'Università di Catania. L'autore de "Gli insabbiati" chiese alla Procura di Palermo - attraverso una raccolta di firme - la riapertura dell'inchiesta, ma l'esito fu negativo. Tuttavia nel 2000 l'Amministrazione comunale di Termini Imerese dedicò una via al giornalista scomparso. Nel 2010 - dopo la pubblicazione della seconda edizione de "Gli insabbiati - le associazioni termitane, sollecitate dal periodoco locale "Espero" - hanno deposto una lapide all'esterno della galleria "Fossola", luogo del ritrovamento del cadavere di Cosimo Cristina.
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sabato 4 maggio 2013

4 Maggio 1980
Emanuele Basile 30 anni, carabiniere

Emanuele Basile (Taranto, 2 luglio 1949 – Monreale, 4 maggio 1980) è stato un carabiniere italiano, ucciso da Cosa Nostra mentre ritornava a casa con la moglie e la figlia, dopo aver presenziato nel paese alla festa del Santissimo Crocifisso a Monreale.
La sera del 4 maggio 1980 mentre con la figlia Barbara di quattro anni e alla moglie Silvana Musanti aspetta di assistere allo spettacolo pirotecnico della festa del Santissimo Crocefisso a Monreale, un killer mafioso gli spara alle spalle e poi fugge in auto atteso da due complici. [L’agente aveva in braccio la figlioletta al momento dell’agguato, che fortunatamente rimase illesa]. Basile viene trasportato all’ospedale di Palermo dove i medici tenteranno di salvargli la vita con un delicato intervento chirurgico ma il carabiniere muore durante l’operazione lasciando nel dolore la moglie e lo stesso Paolo Borsellino che era corso in ospedale. Vincenzo Puccio, il suo assassino, verrà catturato dai carabinieri subito dopo l’omicidio ma verrà assolto tre anni dopo, creando sgomento e rabbia sia nei magistrati sia nei suoi colleghi. Tre anni dopo la sua morte, il 13 giugno 1983, morirà ucciso il Capitano Mario D’Aleo sempre per mano di Cosa Nostra, D’Aleo aveva preso il posto di Basile come comandante della Compagnia dei carabinieri di Monreale.
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4 Maggio 1921
Giuseppe Cassarà socialista
Vito Cassarà socialista

A Piana dei Greci (Palermo) uccisione dei militanti socialisti Vito e Giuseppe Cassarà.

mercoledì 1 maggio 2013

la strage di Portella della Ginestra

1 Maggio 1947, La Strage di Portella della Ginestra
Margherita Clesceri
Giorgio Cusenza
Giovanni Megna 18 anni
Francesco Vicari
Vito Allotta 19 anni
Serafino Lascari 15 anni
Filippo Di Salvo 48 anni
Giuseppe Di Maggio 13 anni
Castrense Intravaia 18 anni
Giovanni Grifò 12 nni
Vincenza La Fata 8 anni

Il 1º maggio 1947, nell’immediato dopoguerra, si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile durante il regime fascista. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si riunirono nella vallata di Portella della Ginestra per manifestare contro il latifondismo, a favore dell’occupazione delle terre incolte, e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell’anno e nelle quali la coalizione PSI – PCI aveva conquistato 29 rappresentanti (con il 29% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa).
Sulla gente in festa partirono dalle colline circostanti numerose raffiche di mitra che lasciarono sul terreno, secondo le fonti ufficiali, 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti, di cui alcuni morirono in seguito per le ferite riportate. La CGIL proclamò lo sciopero generale, accusando i latifondisti siciliani di voler “soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”.
Solo quattro mesi dopo si seppe che a sparare materialmente erano stati gli uomini del bandito separatista Salvatore Giuliano, colonnello dell’E.V.I.S. Il rapporto dei carabinieri sulla strage faceva chiaramente riferimento ad “elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali”.
Nel 1949 Giuliano scrisse una lettera ai giornali, in cui affermava lo scopo politico della strage. Questa tesi fu smentita dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba. Nel 1950, il bandito Giuliano fu assassinato dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, il quale morì avvelenato in carcere quattro anni più tardi, dopo aver affermato di voler rivelare i nomi dei mandanti della strage. Attualmente vi sono forti dubbi sul fatto che Pisciotta fosse l’autore dell’omicidio, come è stato fatto osservare nella trasmissione Blu notte ed emerge dal lavoro di Alberto Di Pisa e Salvatore Parlagreco.

11 persone furono uccise e 27 persone rimasero ferite.

Tra i morti del primo maggio c'è anche il campiere Emanuele Busellini, ucciso dai banditi della banda Giuliano che l'avevano incontrato lungo la strada per recarsi sul luogo della strage.
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Il dopoguerra si apre, nel 1947, con la strage politico-mafiosa di Portella della Ginestra: 11 persone (9 contadini e 2 bambini) muoiono ammazzate e 27 rimangono ferite durante la pacifica festa del Primo Maggio, all'indomani delle prime elezioni regionali siciliane che hanno visto il Blocco del Popolo (Pci e Psi) trionfare col 29,13% sulla Dc (20,52%). L'allarme rosso in vista delle elezioni politiche del 1948 produce quella che gli storici chiamano la «strage dissuasiva». Le indagini accerteranno che a sparare è stata la banda di Salvatore Giuliano, ma che i mandanti sono politici, e che con questi ultimi il bandito ha avuto rapporti prima e dopo l'eccidio tramite alcuni capimafia, agenti governativi ed esponenti dei servizi segreti italiani e americani.
Quando Giuliano intuisce che i suoi referenti lo stanno scaricando, anzi mirano a «bruciarlo» dopo averlo usato con la promessa dell'impunità, tenta di ricattarli inviando lettere e documenti ai giornali. Il 24 novembre 1948 lancia un messaggio ai parlamentari siciliani della Dc: «Nelle nostre zone non si è votato che per voi e così noi abbiamo mantenuto le nostre promesse, adesso mantenete le vostre». Girolamo Li Causi, senatore comunista, lo invita a fare i nomi dei suoi mandanti. Il bandito gli risponde con una lettera autografa all'«Unità», pubblicata il 30 aprile 1950: «Scelba vuoi farmi uccidere perché io lo tengo nell'incubo per fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita».
Intanto uno dei suoi uomini, Giovanni Genovese, il 29 gennaio 1949 racconta al giudice istruttore di Palermo un fatto di cui è stato testimone oculare: alcuni giorni prima della strage, Giuliano aveva ricevuto una lettera che gli commissionava l'eccidio. Non è una millanteria, ma un fatto accertato dalla sentenza della Corte d'Assise di Viterbo su Portella della Ginestra, in cui si legge: «Che la lettera abbia una qualche relazione con il delitto che, a distanza di qualche giorno, fu consumato da Giuliano e dalla banda da lui guidata, pare alla Corte non possa essere posto in dubbio». Le indagini appureranno anche una trattativa segreta dopo la strage: Giuliano chiede la scarcerazione di alcuni parenti arrestati e l'impunità per sé, con la garanzia dell'espatrio e di una congrua somma di denaro. Ottenute queste garanzie, il 20 giugno 1950 firma un memoriale in cui si dichiara unico responsabile dell'eccidio di Portella. Un errore fatale, che lo priva dell'ultima arma di ricatto e fa di lui un morto che cammina. In Sicilia sono in molti a prevedere che Giuliano farà presto una brutta fine. Alberto Jacoviello, in un reportage da Montelepre intitolato Giuliano sa tutto e per questo sarà ucciso, scrive sull'«Unità»:
Giuliano conosce esecutori e mandanti. E qui il gioco diventa grosso. Giuliano comincia a sapere troppe cose. Se lo prendono, parla. Messana, l'ispettore di polizia, non lo prenderà. Oppure lo prenderà in certe condizioni. Morto e con i suoi documenti distrutti, se ne ha.

E così puntualmente avviene. Poco tempo dopo, nella notte tra il 4 e il 5 luglio 1950, Giuliano viene assassinato nel sonno dal cugino e luogotenente Gaspare Pisciotta: omicidio su commissione, in cambio dell'impunità. I carabinieri sono sul luogo del delitto prim'ancora che venga perpetrato, assistono alla scena, poi trasportano il cadavere altrove per simulare un tragico conflitto a fuoco fra loro e Giuliano. È questa, infatti, la versione ufficiale dei fatti fornita dall'Arma in un rapporto totalmente menzognero. Ma la messinscena viene presto smascherata da un grande giornalista, Tommaso Besozzi.
Anche Pisciotta, però, viene scaricato e arrestato in barba alle promesse. E, sentendosi ingannato, decide di vuotare il sacco al processo di Viterbo. Il 16 aprile 1951, davanti a una folla di giornalisti, fa i nomi dei mandanti politici della strage e racconta per filo e per segno tutti gli incontri e le trattative fra banditi e uomini delle istituzioni, con tanto di promesse di impunità. Le sue clamorose rivelazioni, però, cadono nel vuoto. Dinanzi a quella mole di notizie di reato, il pubblico ministero viterbese finge di non sentire e non avanza nessuna richiesta al giudice di procedere contro i possibili mandanti politici. Un comportamento talmente scandaloso da indurre la Corte d'Assise a prenderne apertamente le distanze nella motivazione della sentenza:
Non è la Corte investita del potere di esercitare l'azione penale. Essa è un organo giurisdizionale il quale conosce di un reato in base a sentenza di rinvio, ovvero in base a richiesta di citazioni, e non può trasformarsi in organo propulsore di quelle attività che sono proprie di altro organo, il Pubblico Ministero.
Li Causi tenta di rilanciare lo scandalo almeno a livello politico, con un appassionato discorso al Senato in cui punta il dito contro il ministro degli Interni Mario Scelba. È il 26 ottobre 1951:
Perché avete fatto uccidere Giuliano? Perché avete turato questa bocca? La risposta è unica: l'avete turata perché Giuliano avrebbe potuto ripetere le ragioni per le quali Scelba lo ha fatto uccidere. Ora aspettiamo che le raccontino gli uomini politici, e verrà il tempo che le racconteranno.
Ma anche le sue parole cadono nel vuoto. Come pure gli appelli di Pisciotta. che dal carcere chiede una commissione parlamentare d'inchiesta. Il 10 ottobre 1952 scrive al presidente della Corte d'Assise:
Faccio appello fin da ora a tutti i signori sottonotati [segue elenco di nomi di varie persone coinvolte nella strage, tra cui importanti esponenti politici, N.d.A.] che è giunto il momento in cui dovranno assumere le loro responsabilità, perché io non mi rassegnerò mai e continuerò a chiederlo sino all'ultimo respiro [...] desidero sempre una inchiesta parlamentare.
Un'altra lettera morta. Di lì a poco anche Pisciotta, testimone scomodo dei crimini del potere, sarà messo a tacere per sempre: il 9 febbraio 1954, nel carcere dell'Ucciardone, con un caffè corretto alla stricnina. Dopo di lui, l'uno dopo l'altro, muoiono assassinati o suicidati tutti i depositari dei segreti di Portella: i banditi intermediari tra Giuliano e le forze dell'ordine, i testimoni degli incontri più compromettenti, l'ispettore di Polizia che aveva tenuto i contatti. L'uomo sospettato di aver procurato il veleno per Pisciotta viene trovato morto nella sua cella dell'Ucciardone. Il procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione, l'ultimo magistrato che aveva raccolto le rivelazioni di Pisciotta poco prima dell'avvelenamento, senza metterle a verbale, verrà assassinato anni dopo, nel 1971, portandosi nella tomba quegli indicibili segreti.
Scrive Leonardo Sciascia nel libro Nero su nero:
Chi non ricorda la strage di Portella della Ginestra, la morte del bandito Giuliano, l'avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l'Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo ai fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.
Saverio Lodato, Margo Travaglio, Intoccabili

martedì 30 aprile 2013

30 Aprile 1982
Pio La Torre 54 anni, dirigente comunista
Rosario Di Salvo 35 anni, dirigente comunista

Pio La Torre nasce ad Altarello di Baida, una borgata di Palermo, la vigilia di Natale del 1927. Cresciuto insieme a cinque fratelli in una famiglia di poveri contadini, senza acqua e luce elettrica in casa, La Torre matura il suo interesse per la giustizia sociale e si impegna a combattere per i diritti dei più deboli e bisognosi contro lo sfruttamento dei ricchissimi proprietari terrieri. Il suo impegno politico comincia con l’iscrizione al Partito Comunista nell’autunno del 1945 e la costituzione di una sezione del partito nella sua borgata, la prima delle tante che contribuisce ad aprire anche nelle borgate vicine.

Il periodo tra il 1945 e il 1950 è caratterizzato dalla lotta per l’effettiva applicazione dei decreti Gullo, provvedimenti legislativi emanati dall’allora ministro dell’agricoltura del governo Badoglio che garantivano ai contadini maggiori diritti e più terre da coltivare. Lo svuotamento delle norme da parte del successore al ministero, il democristiano Antonio Segni, e l’atteggiamento dei proprietari terrieri che non riconoscevano la legittimità delle norme, scatenò, soprattutto nel Meridione, la richiesta di una effettiva riforma agraria e un’ondata di proteste popolari che ebbero la loro concretizzazione nelle occupazioni delle terre incolte da parte dei braccianti agricoli esasperati.

Pio La Torre, divenuto nel 1947 funzionario della Federterra e successivamente responsabile giovanile della Cgil e quindi responsabile della commissione giovanile del PCI, partecipò attivamente a queste proteste.

Nel luglio del 1949 è membro del Consiglio Federale del PCI che dà l’inizio ufficiale all’occupazione delle terre, lanciando lo slogan: “la terra a tutti”. La protesta prevedeva il censimento delle terre giudicate incolte o mal coltivate e l’assegnazione in parti uguali a tutti i braccianti che ne avessero bisogno. Parallelamente partì anche la campagna per la raccolta del grano, che sarebbe servito per seminare le terre occupate. Il 23 ottobre 1949 fu organizzato il I Festival provinciale dell’Unità a Palermo, al Giardino inglese, per sensibilizzare l’opinione pubblica alla protesta.

Il clima di festa fu però presto interrotto dalle notizie che giunsero pochi giorni dopo, il 29 ottobre, dalla Calabria, da Melissa per la precisione, dove le proteste dei contadini erano sfociate in tragedia con l’uccisione da parte delle forze dell’ordine di tre persone, tra cui un bambino e una donna e il ferimento di altri quindici, oltre a numerosi arresti. Quella strage convinse i dirigenti del PCI palermitano ad anticipare la data dell’occupazione delle terre fissandola al 13 novembre successivo.

Proprio il giorno della strage di Melissa, Pio La Torre celebrava con rito civile al municipio di Palermo il suo matrimonio con Giuseppina Zacco, figlia di un medico palermitano. Informato dal segretario della federazione di Palermo, Pancrazio De Pasquale, interrompe il suo piccolo viaggio di nozze e rientra in città per preparare l’imminente lotta per le terre.

Il progetto prevedeva che i contadini di dodici paesi (Corleone, Campofiorito, Contessa Entellina, Valledolmo, Castellana Sicula, Polizzi, alcune borgate di Petralia Soprana e di Petralia Sottana, Alia, S. Giuseppe Iato, S. Cipirello, Piana degli Albanesi) confluissero a Corleone da dove, la mattina di domenica 13 novembre 1949, sarebbero partiti una serie di cortei che avrebbero occupato e preso possesso di tutte le terre censite come incolte e mal coltivate. Partecipano quasi seimila persone che all’alba della domenica partono da Corleone e si dirigono verso i feudi da occupare, tra questi anche quello in cui Luciano Liggio era gabellotto, il feudo Strasatto. Dopo la strage di Melissa la polizia aveva qualche remora ad intervenire duramente, così l’occupazione continuò per molti giorni, sviluppandosi anche nei comuni fuori Palermo.

Il governo, viste le dimensioni che la rivolta aveva assunto, decise allora di tentare la via della repressione arrestando alcuni dirigenti sindacali e braccianti agricoli e scatenando scontri, il più grave dei quali, a S. Cipirello, portò in carcere diciotto persone. L’occupazione comunque ebbe successo e quasi tremila ettari di terreno vennero coltivati a grano.

La “pausa invernale” dovuta all’attesa dei frutti della semina servì a La Torre e al partito per organizzare le lotte primaverili, quando si sarebbe dovuto lottare per conservare il diritto di raccolta sugli ettari seminati in autunno e rivendicati dai proprietari agrari.
La data fissata per la ripresa della lotta è il 6 marzo 1950.

L’obiettivo era quello di far ottenere alle cooperative dei contadini l’assegnazione dei tremila ettari occupati e non come aveva proposto l’allora prefetto di Palermo, Angelo Vicari, di affidare ai contadini altri tremila ettari di terreno, scelti dai proprietari, mentre quelli occupati, compresi il loro raccolto, sarebbero stati restituiti ai proprietari terrieri.

Il 10 marzo 1950 il movimento dei contadini è a Bisacquino dove si prevedeva di occupare i quasi duemila ettari di terreno del feudo Santa Maria del Bosco. Pio La Torre è alla testa del corteo, lungo quasi cinque chilometri e formato da circa seimila persone. Arrivati sul feudo si procedette all’assegnazione di un ettaro di terreno a testa fissando i limiti di divisione. Sul calar della sera, quando i contadini stanno percorrendo la strada che li riporterà alle loro case, vengono circondati dalle forze di polizie inviate dal prefetto Vicari.

La Torre cerca di convincere il commissario Panico, a capo degli agenti di desistere dalla repressione, ma questi ordina di strappare ogni bandiera e vessillo dalle mani dei contadini, ne nasce una sassaiola e a quel punto il commissario Panico ordina di sparare: molti braccianti sono colpiti. La Torre, che in un primo momento era rimasto tra i poliziotti, si sposta in mezzo ai contadini cercando di dissuaderli dal reagire con lanci di sassi agli spari dei poliziotti.

La battaglia continua fino a sera quando, insieme ad altre centinaia di contadini, anche La Torre viene arrestato. È Accusato, ingiustamente, dal tenente Caserta di averlo colpito con un bastone. La Torre viene ammanettato e condotto al carcere dell’Ucciardone di Palermo dove, all’alba dell’11 marzo, viene incarcerato.

Pio La Torre rimane in carcere per circa un anno e mezzo: dall’11 marzo 1950 al 23 agosto 1951. Fu un periodo molto duro, al normale disagio di una persona incarcerata e consapevole della propria innocenza, si aggiungevano le difficili condizioni di detenzione, in cella d’isolamento per alcune settimane in attesa dell’interrogatorio. Il primo colloquio con la moglie, in attesa del primo figlio della coppia, Filippo, che sarebbe nato il 9 novembre, fu concesso dopo qualche mese e solo grazie alle pressioni della famiglia Zacco sul sostituto procuratore generale Pietro Scaglione.

Non che le condizioni nelle quali si svolgevano i colloqui fossero migliori della detenzione, i parenti e i detenuti sporgevano la testa da una porta di ferro con dei buchi, l’una di fronte all’altra e divise da un corridoio nel quale sostava un agente di custodia. La possibilità di un contatto fisico era dunque negata a causa del “carattere politico” del reato per cui La Torre era imprigionato. Durante la detenzione lesse le opere di Gramsci, alcuni scritti di Lenin e Labriola.

Era comunque molto difficile riuscire a procurarsi questi libri, fondamentale fu dunque l’aiuto di alcune guardie carcerarie. Il processo, che si svolse nel vecchio salone del tribunale di Piazza Marina a Palazzo Steri, si protrasse per dieci udienze, mettendo in luce le ingiuste accuse formulate dal tenente Caserta contro La Torre che fu così, il 23 agosto 1951 scarcerato.

Durante la detenzione gli giunse la notizia della morte della madre, colpita da un tumore all’utero. Da tempo, dal 1948, aveva ormai lasciato la famiglia, da quando il padre, preoccupato dalle minacce dei mafiosi, arrivati a minacciarlo bruciando le porte della stalla, aveva invitato Pio La Torre a scegliere tra il proseguire la sua battaglia lasciando Altarello o il restare con la famiglia. Erano passati pochi giorni da quando, tra il marzo e l’aprile del 1948, alla vigilia delle elezioni politiche, erano stati uccisi vari segretari di Camere del Lavoro, Placido Rizzotto a Corleone, Calogero Cangelosi a Camporeale, Epifanio Leonardo Li Puma a Petralia.

La Torre sceglie la via dell’impegno politico e si trasferisce a Palermo, ospitato dal segretario della federazione comunista di Palermo Pancrazio De Pasquale che insieme al segretario della Fgci, Emilio Arata, aveva un piccolo appartamento nei pressi della stazione.

Anche la nascita del primo figlio fu vissuta dal carcere, e il primo contatto con il primogenito fu nel cortile dell’Ucciardone, dove una guardia carceraria portò il bambino, di pochi giorni, avvolto in un sacchetto, mentre la moglie Giuseppina, era rimasta ad aspettare negli uffici del carcere. Dalla coppia sarebbe nato nel giugno del 1956 un altro figlio, Franco.

Uscito dal carcere trova un Movimento che era riuscito ad ottenere una legge di riforma agraria con la legge Sila a maggio e la legge regionale siciliana del dicembre del 1950, ma che complessivamente sentiva di aver fallito la propria missione, con solo pochi contadini che erano riusciti a raccogliere il grano seminato. La dura repressione aveva messo a dura prova tanto loro quanto il partito.

Nel 1952 assume la carica di dirigente alla Camera confederale del lavoro e fu organizzatore di una massiccia raccolta di firme per la campagna universale a favore dell’appello di Stoccolma, lanciato dal movimento internazionale per la pace, che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche.

Nello stesso anno fu eletto per la prima volta al Consiglio comunale di Palermo dove resterà fino al 1966. In questo periodo diventa segretario regionale della Cgil, nel 1959 e del PCI siciliano (1962-1967). Viene eletto nel 1963 per la prima delle due legislature in cui resterà in carica, all’Assemblea regionale siciliana. Nel 1969 viene chiamato a Roma dal partito alla Direzione centrale del PCI dove ricopre l’incarico di vice responsabile della Sezione agraria e della Sezione Meridionale.

Nel 1972 viene eletto al Parlamento dove resterà per tre legislature, facendo parte delle Commissioni Bilancio e programmazione Agricoltura e Foreste, della commissione parlamentare per l'esercizio dei poteri di controllo sulla programmazione e sull'attuazione degli interventi ordinari e straordinari nel Mezzogiorno ma soprattutto della commissione Antimafia.

Appena eletto in parlamento, nel maggio del 1972, entra a far parte della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. La commissione era stata istituita nel 1962, durante la prima guerra di mafia e pubblicò il suo rapporto finale nel 1976. La Torre, insieme al giudice Cesare Terranova, redasse, e sottoscrisse come primo firmatario, la relazione di minoranza che metteva in luce i legami tra la mafia e importanti uomini politici, in particolare della Democrazia Cristiana. Alla relazione aggiunge la proposta di legge “Disposizioni contro la mafia” tesa a integrare la legge 575/1965 e a introdurre un nuovo articolo nel codice penale: il 416 bis.
Una proposta che segna una svolta radicale nella lotta contro la criminalità mafiosa. Fino ad allora infatti il fenomeno mafioso non era riconosciuto come passibile di condanna penale. La proposta di legge La Torre prevedeva l’introduzione nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, che introduce il reato di associazione mafiosa punibile con una pena da tre a sei anni per i membri, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza per gli arrestati della possibilità di ricoprire incarichi civili e soprattutto l’obbligatoria confisca dei beni direttamente riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.

Pio La Torre ha una grande conoscenza del fenomeno mafioso e del suo sistema di potere. È conscio delle sue trasformazioni, dalla mafia agricola e del latifondo, combattuta negli anni dell’adolescenza, alla mafia urbana e dell’edilizia che, grazie ad appalti pilotati, perpetrò, grazie alle connivenze con le dirigenze politiche locali, il cosiddetto “Sacco di Palermo”, fino alla mafia imprenditrice dedita al traffico internazionale di droga con agganci nell’alta finanza.

Non ha paura di fare chiaramente i nomi e i cognomi dei conniventi politici, famosi i suoi giudizi su Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici del comune di Palermo dal 1959 al 1964 e poi sindaco del capoluogo siciliano fino al 1975. Dalla sua analisi del rapporto tra il sistema di potere mafioso e pezzi dello Stato emerge la sua convinzione che “[la] compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)…La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti”.

Nel 1981 Pio La Torre decide di tornare in Sicilia, in un momento storico in cui la strategia mafiosa di intimidazione dei rappresentanti più impegnati nell’azione di contrasto da parte dello Stato contro la mafia, era al massimo fulgore. Negli anni precedenti erano stati uccisi illustri rappresentanti dello stato come il giudice Cesare Terranova (il 25 settembre 1979), il procuratore della repubblica Gaetano Costa (6 agosto 1980) e il presidente della regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980). Proprio lui decide di assumere l’incarico di segretario regionale del PCI, carica che assume nell’autunno del 1981 sostituendo Gianni Parisi.
Immediatamente, al ritorno in Sicilia, intraprende la sua ultima battaglia, quella contro l’istallazione dei missili nato nella base militare di Comiso.

Il governo italiano aveva annunciato il 7 agosto del 1981 l’accordo con la Nato per l’installazione degli euromissili nucleari Cruise nella base militare di Comiso in provincia di Ragusa. Siamo in piena guerra fredda. La Torre da forza e organizzazione ad un movimento crescente di protesta contro l’istallazione vista come minaccia alla sicurezza, non solo siciliana, e non come possibile fonte di ritorno economico. Il clima di tensione tra gli Stati Uniti e la Russia comportava l’adozione di un atteggiamento prudente e di trattativa che, non per questo, rendeva meno convinte le richieste da parte dei protestanti.

La Torre lanciò dal Circolo della Stampa di Palermo una petizione nell’ambito di un convegno a cui parteciparono esponenti di ogni orientamento politico, culturale e religioso. L’obiettivo era raccogliere un milione di firme. La prima grande manifestazione fu fissata per l’11 ottobre 1981, a Comiso, con un gran numero di partecipanti provenienti, in marcia, da Palermo.

Il successo della protesta fu enorme e la raccolta di firme straordinaria. Lo stesso La Torre spiegò in un articolo postumo pubblicato su “Rinascita” del 14 maggio 1982 che le ragioni della contrarietà ai missili era basata sulla assoluta contrarietà alla “trasformazione della Sicilia in un avamposto di guerra in un mare Mediterraneo già profondamente segnato da pericolose tensioni e conflitti. Noi dobbiamo rifiutare questo destino e contrapporvi l’obiettivo di fare del Mediterraneo un mare di pace”.
I suoi propositi furono bruscamente interrotti una mattina di aprile del 1982.

Il 30 aprile del 1982, alle nove del mattino Pio La Torre, insieme a Rosario Di Salvo, sta raggiungendo in auto, una Fiat 132, la sede del partito. In via Turba, di fronte la caserma Sole, si affiancano alla macchina due moto di grossa cilindrata: alcuni uomini mascherati con il casco e armati di pistole e mitragliette sparano decine di colpi contro i due. La Torre muore all’istante mentre Di Salvo ha il tempo di estrarre la pistola e sparare alcuni colpi in un estremo tentativo di difesa.

Il 12 gennaio 2007 la Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha emesso l’ultima di una serie di sentenze che ha portato a individuare in Giuseppe Lucchese, Nino Madonna, Salvatore Cucuzza, e Pino Greco, gli autori materiali dell’omicidio. Dalle rivelazioni di Cucuzza, diventato collaboratore di giustizia, è stato possibile ricostruire il quadro dei mandanti dell’eccidio, identificati nei boss Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Antonino Geraci.

Il quadro delle sentenze ha permesso di individuare nell’impegno antimafia di Pio La Torre la causa determinante della condanna a morte inflitta dalla mafia del politico siciliano.
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Rosario Di Salvo nasce a Bari il 16 agosto del 1946, trasferitosi a Palermo sposa nel 1970 Rosa Casanova. Subito dopo le nozze emigra con la moglie in Germania, ma le difficoltà costringono i due a tornare in Sicilia dopo neppure un anno. Al rientro Rosario, insieme a Rosa, si iscrive al Partito Comunista, nella sezione Noce di Palermo, dopo un lento processo di maturazione politica che l’aveva portato a vivere pienamente la lunga stagione delle battaglie politiche e sindacali.

Entra a far parte dell’apparato tecnico del partito. Viaggia moltissimo, si sottopone a un ritmo di vita molto faticoso, vive lunghe giornate con impegno e passione al fianco dei leader del partito. Con Achille Occhetto in particolare, divenuto segretario regionale, sviluppa un legame molto solido, costruito nei numerosi viaggi per partecipare ai dibattiti che si svolgevano in molte città della Sicilia. Alterna il lavoro per il partito con l’occupazione come contabile in una cooperativa di agrumi. Ma il lavoro d’ufficio non fa per lui. Così lascia la cooperativa e si impegna a tempo pieno nei frequenti viaggi con i compagni del Comitato regionale.

Contemporaneamente Pio La Torre, lascia la segreteria nazionale del partito e torna in prima fila alla guida delle lotte nella sua Sicilia. Basta il primo viaggio insieme per stabilire tra Pio e Rosario un’intesa molto forte e coinvolgente. Questo dirigente che viene dalla gavetta così schietto e sincero, entusiasma Rosario che non perde occasione per additarlo ad esempio.

Con Pio La Torre, la lotta alla mafia, per la pace, per una Sicilia produttiva, vivono una nuova e feconda stagione. Comiso diventa il punto di riferimento di migliaia di pacifisti che non si rassegnano all’istallazione dei missili nucleari americani. Si avvia la raccolta di un milione di firme. Rosario è attento, partecipe, entusiasta. Il quattro aprile del 1982 è nuovamente a Comiso per la sua ultima marcia che vede insieme cattolici e comunisti, socialisti e pacifisti di ogni credo. Cresce un grande movimento ma contemporaneamente aumentano i rischi.

Rosario e Pio ne sono consapevoli. Il 30 aprile 1982 un vero e proprio commando mafioso è in via Turba, un “budello” dove ci si passa appena, vicino la federazione del partito. Rosario è al suo posto come sempre, al fianco di Pio. Tira fuori la sua arma e spara. Per difendere un’ultima volta il suo segretario regionale.
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domenica 28 aprile 2013

28 Aprile 1921
Vito Stassi 45 anni, dirigente socialista e presidente della Lega dei contadini del paese

La sera del 28 aprile 1921, tre uomini armati di fucile stavano appostati in via Brutto, a Piana dei Greci, come se aspettassero qualcuno. In effetti, qualcuno aspettavano davvero. Spuntò dall’angolo della strada intorno alle 21.30. Era Vito Stassi "Carusci", dirigente socialista e presidente della Lega dei contadini del paese. Aveva partecipato ad una riunione del vicino circolo socialista e adesso stava tornando a casa sua, dove l’aspettavano la moglie Rosaria Talento e i figli Giovanni di 11 anni, Antonina di 9 anni, Serafina di 7 e Rosa Lussemburgo (in onore di Rosa Luxemburg, mitica dirigente socialista trucidata a Berlino dai militari tedeschi nel 1919) di appena 2 anni. Ma Vito Stassi non sarebbe mai più tornato a casa. I tre killer fecero fuoco e lo colpirono con numerosi colpi, uccidendolo all’istante. Aveva appena 45 anni. Un classico omicidio di mafia, perpetrato contro un dirigente contadino, in un comune dove la sinistra aveva da tempo radici solide. E neanche questo sembrò una novità. In quel primo dopoguerra, infatti, durante il famoso «biennio rosso», che fu operaio al Nord e contadino al Sud, e negli anni immediatamente successivi, tanti altri dirigenti sindacali e politici di orientamento socialista erano stati trucidati dalla mafia e dal padronato agrario ed industriale. Per tutta la notte il corpo di Vito Stassi fu lasciato riverso sul selciato, dove venne vegliato dalla famiglia e da un nutrito gruppo di contadini, in attesa della perizia dell’autorità giudiziaria, che si fece solo nella mattinata del giorno successivo. Solo a quel punto, la salma del dirigente socialista fu ricomposta nel salone della sede del Partito socialista, in via Kastriota. I solenni funerali si svolsero nel pomeriggio: la bara del dirigente contadino, coperta da un drappo rosso, fu accompagnata da migliaia di contadini, che formarono un imponente corteo funebre. Alla testa c’era la fanfara dei circolo socialista. Al funerale parteciparono tante persone comuni e folte delegazioni dei circoli socialisti e contadini dei comuni del circondario. L’orazione funebre fu svolta dal falegname Michelangelo Jenna, segretario del Partito socialista di Piana. «Con la scomparsa di Vito Stassi - ha scritto lo studioso Francesco Petrotta nel volume "Politica e mafia a Piana dei Greci da Giolitti a Mussolini" (La Zisa, Palermo 2001) - veniva a mancare al partito socialista l’uomo in grado di organizzare una risposta alla mafia. Stimato dirigente per la sua bontà d’animo, egli rappresentava, assieme al vecchio Giorgio Carnesi e a Michelangelo Jenna, l’ala intransigente del partito che non accettava compromessi con la mafia». Aggiungendo: «A soli 24 anni, nel 1900, l’on. Barbato gli aveva affidato, assieme ad altri, la cassa della disciolta federazione socialista. Fu un atto di fiducia ma anche di riconoscimento politico. Autodidatta, la sera dopo i lavori nei campi, nel Circolo socialista leggeva e commentava ai contadini analfabeti i testi e la stampa socialista». Fu eletto diverse volte consigliere comunale e, nel 1912, su indicazione di Nicola barbato, fu chiamato a dirigere la «Cooperativa Agricola Anonima » in un momento molto difficile per il Partito socialista. Ammiratore della rivoluzione sovietica del 1917, in occasione dello sciopero contadino del 1919 fu soprannominato dagli avversari politici «Lenin». «Anche se si formò politicamente in un Partito di classe fortemente anticlericale, dove gli aderenti non battezzavano i nascituri né si sposavano in chiesa - ha scritto Petrotta nella biografia dedicata al dirigente contadino ("Vito Stassi Carusci e il biennio rosso a Piana dei Greci", La Zisa, Palermo 2003) non assunse mai posizioni antireligiosi. Anzi il 5 ottobre 1902 si sposò nella Chiesa di San Demetrio, la Matrice, con con Rosaria Talento, di 19 anni, dalla quale ebbe quattro figli: Giovanni, Antonina, Serafina, e Rosa Lussemburgo" (in onore di Rosa Luxemburg, dirigente socialista, assassinata dai tedeschi nel 1919 - ndr). Secondo il tenente colonnello Paolo Sanna, comandante la divisione dei Carabinieri reali di Palermo interna, «il delitto si suppone consumato a scopo politico. Gli affiliati al partito socialista mantengosi calmi, ma si riservano di deliberare circa il contegno da tenere riguardo all’uccisione del compagno di fede».
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sabato 27 aprile 2013

27 Aprile 1996
Calogero Tramùta 27 anni

Calogero Tramùta è stato ucciso il 27 aprile del 1996 a Lucca Sicula (Ag) da una decina di colpi di mitraglietta. Era un agente della Guardia di Finanza in pensione, che commerciava arance. A causa di questa sua attività, fu ucciso mentre si trovava davanti a una pizzeria del paese a parlare con degli amici: dava fastidio a Emanuele Radosta, boss titolare di un’azienda di agrumi.
27 Aprile 1969
Orazio Costantino Carabiniere

Il 27 Aprile del 1969, il Carabiniere Scelto Orazio COSTANTINO, in servizio presso la squadra investigativa, partecipava volontariamente a rischiosa azione di attesa, su terreno impervio, per arrestare gli autori di una tentata estorsione, mediante lettera minatoria.
Dopo dodici ore di snervante attesa, venutosi a trovare a diretto contatto con individuo che, armato di fucile da caccia, si accingeva a raccogliere il sacco simulante la somma richiesta.
Con estrema decisione e cosciente sprezzo del pericolo, il militare affrontava il delinquente con l’arma in dotazione spianata al fine di impedirgli ogni possibilità di fuga.
Raggiunto in pieno petto da scarica di pallettoni repentinamente esplosa dal malvivente, trovava la forza di reagire seppur invano con il fuoco del proprio moschetto finché colpito a morte, si abbatteva al suolo.
Prima di morire forniva ai commilitoni informazioni determinanti per l’identificazione del malfattore.
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lunedì 22 aprile 2013

22 Aprile 1999
Stefano Pompeo 11 anni

Bimbo ucciso per errore dalla mafia a 11 anni il 22 aprile del 1999 a Favara. Stefano si trovava con il padre nella casa di Carmelo Cusumano, ritenuto il boss di una cosca del paese. Decide di salire sul fuoristrada di Cusumano guidata da Vincenzo Quaranta, per andare a comperare il pane. Poco dopo, però, l’auto viene colpita da tre colpi di fucile e Stefano viene raggiunto alla testa. Ucciso per errore, i killer credono che sull’auto ci sia Carmelo Cusumano.

domenica 21 aprile 2013

21 Aprile 1992
Paolo Borsellino imprenditore

Lucca Sicula (Agrigento) ucciso l'imprenditore Paolo Borsellino. Gestiva un'impresa di movimento terra e con il padre Giuseppe aveva fondato una piccola impresa di calcestruzzi. Si era opposto alla richiesta di mafiosi della zona di cessione di quote aziendali.

Qui la sua storia, insieme a quella di suo padre

sabato 20 aprile 2013

20 Aprile 1996
Giovanni Carbone 28 anni, muratore

Aveva 28 anni il giovane Giovanni Carbone, ucciso il 20 aprile del 1996 perché aveva visto in faccia i killer del camionista Emanuele Sedita, 68 anni. Si trovava ad Alessandria della Rocca, nell’agrigentino, per trascorre la Pasqua con la sua famiglia, lavorava come muratore a Parma.

venerdì 5 aprile 2013

5 Aprile 1994
Cosimo Fabio Mazzola 27 anni

Cosimo Fabio Mazzola è una vittima innocente di mafia ucciso il 5 aprile del 1994. Fabio Mazzola aveva 27 anni e venne barbaramente ucciso per una banale questione di «gelosia». Fu Giuseppe Monticciolo, prima mafioso e ora collaboratore di giustizia, a chiedere ai Brusca il permesso di eliminare l’ex rivale in amore per difendere l’«onorabilità della moglie». Mazzola era l’ex fidanzato di Laura Agrigento, figlia del boss, andata poi in sposa a Monticciolo. Fabio e Laura erano stati costretti a interrompere la loro relazione per volontà del boss Giuseppe Agrigento. Mazzola non faceva parte degli ambienti di mafia, comprende il rischio e si fa da parte. Una decisione sofferta anche per Laura che, nonostante il fidanzamento con Monticciolo, per un po’ manifesta simpatie e rimpianti per il suo ex ragazzo. I carnefici, invece, sosterranno in tribunale un’altra tesi: “Mazzola telefonava alla donna di Monticciolo”, per questo venne eliminato. Fabio aveva invece intrapreso una nuova relazione con un’altra ragazza.
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giovedì 4 aprile 2013

4 Aprile 1992
Giuliano Guazzelli 58 anni, militare

Giuliano Guazzelli (Gallicano, 6 aprile 1933 – Agrigento, 4 aprile 1992) è stato un militare italiano, vittima della mafia.
Era soprannominato il mastino. Originario della Garfagnana, nel 1954 è già Carabiniere e si trasferisce a Menfi, in Sicilia, dove si sposa ed ha tre figli. Assegnato al nucleo investigativo di Palermo, lavora al fianco del colonnello Giuseppe Russo, indagando sul clan dei Corleonesi. Di quella squadra perdono la vita sia Russo che il maresciallo Vito Jevolella, così Guazzelli si trasferisce a Trapani, dove gli viene bruciata l’automobile. Successivamente è chiamato a guidare la polizia giudiziaria, al tribunale di Agrigento, dove cura rapporti alla Procura su presunte irregolarità nella gestione della banca di Girgenti e sull’omicidio di Salvatore Curto, politico del Partito Socialista Italiano alla Provincia di Agrigento. Soprannominato il “mastino” per la sua abilità di investigatore, il maresciallo Guazzelli in venti anni di indagini tra Palermo e Agrigento era diventato un esperto del fenomeno mafioso e dei rapporti mafia, politica e affari. In particolare si era occupato della cosiddetta “Stidda”, organizzazione mafiosa parallela e talvolta in competizione con Cosa Nostra nell’agrigentino. Nell’agrigentino aveva indagato anche sulla strage di Porto Empedocle. Tra i suoi meriti quello di aver convinto Benedetta Bono, amante del boss Carmelo Colletti, a collaborare con la giustizia. Guazzelli era stato incaricato dal procuratore di Agrigento di indagare sulla partecipazione dell’onorevole Calogero Mannino al matrimonio del figlio del boss di Siculiana, Gerlando Caruana. Il primo rapporto che Guazzelli sottopose al procuratore Vajola venne cassato e il maresciallo fu sollecitato a rifarlo. L’originale fu però ritrovato, dopo la sua morte, negli armadi della caserma di Agrigento. La posizione di Mannino fu quindi archiviata dai giudici di Sciacca. Il figlio del maresciallo riferì ai magistrati che il padre gli aveva confidato che “le carte di Mannino erano state messe a posto dal Messana”; inoltre riferisce che Mannino aveva manifestato al Guazzelli timori per la sua incolumità, esclamando: “o ammazzano me o ammazzano Lima” Fu proprio nel marzo del 1992 che Cosa Nostra decise di eliminare Salvo Lima.
Giuliano Guazzelli fu assassinato il 4 aprile 1992 sulla strada Agrigento-Menfi sulla sua auto Fiat Ritmo, gli assassini a bordo di un Fiat Fiorino, lo sorpassarono su un viadotto, spalancarono il portellone posteriore e lo uccisero a colpi di mitra e fucili a pompa.
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martedì 2 aprile 2013

2 Aprile 1985, La strage di Pizzolungo
Barbara Izzo Asta 30 anni
Giuseppe Asta 6 anni
Salvatore Asta 6 anni

La mattina del 2 aprile del 1985, poco dopo le 8:35, sulla strada statale che attraversa Pizzolungo, posizionata sul ciglio della strada statale, un’autobomba è pronta per l’attentato al sostituto procuratore Carlo Palermo che dalla casa dove alloggia a Bonagia si sta recando al palazzo di Giustizia di Trapani a bordo di una 132 blindata, seguito da una Fiat Ritmo di scorta non blindata. In prossimità dell’auto carica di tritolo l’auto di Carlo Palermo, supera una Volkswagen Scirocco guidata da Barbara Rizzo, 30 anni, che accompagna a scuola i figli Salvatore e Giuseppe Asta, gemelli di 6 anni. L’utilitaria si viene a trovare tra l’autobomba e la 132. L’autobomba viene fatta esplodere comunque, nella convinzione che sarebbe saltata in aria anche l’auto di Carlo Palermo. L’utilitaria invece fa da scudo all’auto del sostituto procuratore che rimane solo ferito. Nella Scirocco esplosa muoiono la donna e i due bambini. Tra i soccorritori, giungono dalla vicina via Ariston, il marito della donna, Nunzio Asta, con suo cognato, ma la Scirocco è così ridotta in frammenti che sul luogo dell’attentato trovano solo la 132 e la Ritmo e i due non sospettano che i loro congiunti possano essere stati coinvolti nell’esplosione. Dopo l’arrivo della polizia e delle autoambulanze Nunzio Asta torna a casa e si reca in auto al lavoro nella sua officina. Poco dopo la polizia gli telefona per chiedergli il numero di targa dell’auto, senza aggiungere altro e Nunzio Asta scopre che una sua impiegata ha già verificato che i suoi figli non sono mai giunti a scuola. Dei quattro agenti della scorta quelli sulla 132, l’autista Rosario di Maggio e Raffaele Mercurio, rimangono leggermente feriti mentre gli altri due vengono gravemente colpiti dalle schegge, Antonio Ruggirello a un occhio, Salvatore La Porta alla testa e in diverse parti del corpo. Dopo l’arrivo dei soccorsi e delle autopattuglie il giudice Palermo raggiunge il palazzo di Giustizia con una auto della polizia e qui i colleghi lo convincono a recarsi all’ospedale Sant’Antonio Abate dove viene sottoposto ad un esame audiometrico e ricoverato.
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2 Aprile 1948
Calogero Cangelosi 41 anni, segretario CGIL

Era la sera del 1° aprile 1948. Non faceva più freddo e la piazza di Camporeale pullulava di contadini, che discutevano animatamente tra loro. In quei giorni, l’argomento era sempre lo stesso: le elezioni politiche del 18 aprile e la «lezione» che la povera gente avrebbe potuto dare a "lorsignori", i padroni del feudo. Anche alla Camera del lavoro quella sera si era tanto parlato di questo, insieme alle lotte da organizzare per l’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano a 60 e 40 e sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte e malcoltivate degli agrari.Poi, Calogero Cangelosi, quarantunenne segretario della Cgil, guardò l’orologio, si accorse che si era fatto tardi e salutò i presenti per tornare a casa. «Calogero, aspetta che ti accompagniamo noi», gli dissero Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli. Il loro non fu un gesto di cortesia, ma un modo per proteggere il dirigente sindacale, che era nel mirino della mafia. L’offerta di una «scorta», insomma. Tutti e cinque uscirono dalla sede della Camera del lavoro, che si trovava in piazza, e si avviarono verso via Perosi, dove Cangelosi abitava con la moglie, Francesca Serafino di 35 anni, e i suoi quattro figli: Francesca di 11 anni, Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appena 2 mesi. Erano quasi arrivati, quando dalla parte alta di via Minghetti, che faceva angolo con via Perosi, si udì un crepitare di mitra. Decine di colpi, sparati in rapida successione e ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Cangelosi cadde per terra, spirando all’istante. Anche Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente illesi rimasero, invece, Calandra e Natoli. Erano le 22.30. Il rumore degli spari attirò tanta gente. Qualcuno capì quello che era accaduto ed andò di corsa a chiamare i cognati del sindacalista ucciso e i parenti dei due feriti. Questi ultimi furono trasportati all’ospedale, mentre Cangelosi fu portato nella casa del suocero. La moglie Francesca stava allattando la piccola Vita, seduta su una seggiola, quando arrivò un fratello a chiamarla. Immediatamente lasciò la neonata ad una vicina di casa e corse a casa del padre. Calogero era stato sdraiato sul letto, col corpo crivellato dai proiettili. Urla, scene di disperazione. Poi arrivarono i carabinieri, fecero le domande di rito e raccomandarono di non toccare il cadavere fino all’arrivo del magistrato per la perizia. Allora Camporeale faceva ancora parte della provincia di Trapani e passarono ben quattro giorni prima che un giudice del capoluogo si degnasse di mettere piede in paese. «Nel mentre mio marito era gonfiato tutto, fino a diventare irriconoscibile », avrebbe poi raccontato la moglie.
Finalmente si poterono svolgere i funerali, a cui parteciparono tutti i contadini del paese e dei comuni del circondario. In mezzo a loro e accanto ai familiari di Cangelosi c’era anche il segretario nazionale del Partito Socialista, Pietro Nenni, venuto ad onorare il suo compagno di partito, 36esimo sindacalista assassinato dalla mafia in quegli anni del secondo dopoguerra. Il 35esimo era stato Placido Rizzotto a Corleone (10 marzo) e il 34° Epifanio Li Puma a Petralia Sottana (2 marzo). Disperazione e rabbia si toccavano con mano. Erano palpabili. «La sera del 16 aprile ’48 - racconta Nicola Cipolla, uno dei capi contadini siciliani di quel periodo - al comizio di chiusura della campagna elettorale, i mafiosi scomparvero tutti dalla piazza per paura dei contadini». Ed accadde un «miracolo»: il 18 aprile il «Fronte Democratico Popolare», composto dal Psi e dal Pci, fu sconfitto in tutta la Sicilia, ma non a Camporeale, dove ottenne ancora più voti delle regionali del ’47.
Fu l’ultimo regalo di Calogero Cangelosi ai suoi contadini. Per quell’omicidio, la giustizia «ingiusta» di allora non riuscì nemmeno ad imbastire un processo. Nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero "don" Serafino Sciortino, mentre a sparare ci avevano pensato il capomafia Vanni Sacco e i suoi «picciotti», si procedette contro «ignoti», che tali rimasero per sempre. Poi sulla vicenda cadde il silenzio.
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lunedì 1 aprile 2013

1 Aprile 1975
Domenico Facchineri 11 anni
Michele Facchineri 8 anni

Era lunedì di Pasqua del 1975. Due bambini Domenico e Michele Facchineri, 11 anni il primo e otto il secondo, guardiani di porci, vennero uccisi a colpi di lupara sul greto di un torrente da un quintetto di sicari senza volto, che avevano già ucciso poco prima un loro zio, ferito il cuginetto Michele di appena sei anni, colpita pure la zia Carmela Guerrisi, moglie di Giuseppe Facchineri, incinta di sette mesi Di Domenico. L’omicidio è legato alla faida di Cittanova che vedeva da un lato la cosca dei Facchineri e dall’altro quella dei Raso-Albanese in una guerra per la supremazia criminale.
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sabato 30 marzo 2013

30 Marzo 1960
Antonio Damanti 17 anni, studente

Il commissario di polizia Cataldo Tandoj, 47 anni, era stato appena trasferito da Agrigento a Roma ed era tornato nella città dei templi per organizzare il trasloco. Un killer solitario lo uccise sparandogli in testa mentre il poliziotto passeggiava in compagnia della moglie Leila Motta nel centralissimo viale della Vittoria di Agrigento. Era il 30 marzo 1960, e una pallottola colpì a morte anche uno studente che passava per caso, Antonio Damanti, 17 anni. Per la Commissione parlamentare antimafia, l'omicidio di Tandoj va inserito "nel contesto delle relazioni tra il commissario e l'organizzazione mafiosa di Raffadali (Agrigento)". I mafiosi temevano che il commissario, in procinto di trasferirsi a Roma, potesse rivelare segreti riguardanti delitti e attività della mafia.

giovedì 28 marzo 2013

28 Marzo 1945
Calogero Comaianni 45 anni, guardia giurata

Non era un eroe Calogero Comaianni, ma un uomo normale che cercava di sfamare la moglie e i suoi cinque figli, facendo la guardia giurata. Certo, la Corleone degli anni 40 non era il posto migliore per esercitare un mestiere che in qualche modo avesse a che fare col rispetto della legalità. Ma lui ci provava. Con equilibrio e buon senso, girava le campagne insieme alle guardie campestri comunali, vigilava, dava consigli a qualche giovane scapestrato, tentato da qualche “scorciatoia” per uscire dalla miseria. Il 2 agosto 1944, Comaianni stava facendo il suo solito giro di perlustrazione. Con lui c’erano le guardie campestri Pietro Splendido e Pietro Cortimiglia. Ormai era piena estate e il grano delle campagne corleonesi era stato quasi tutto mietuto da migliaia di braccianti agricoli, molti dei quali provenienti dai comuni della fascia costiera. La sola manodopera locale, infatti, non era sufficiente e si doveva ricorrere a quella proveniente da Bagheria, Misilmeri, Villabate e Ficarazzi.
All’improvviso, si accorsero che due giovani stavano arraffando covoni di grano, caricandoli sui muli. «Fermi! Cosa fate?», gridarono le guardie. Poi si avvicinarono e li videro in faccia. Erano Luciano Liggio e Vito Di Frisco. «Alla vista degli agenti Liggio non fece una piega. Si lasciò arrestare con quell’aria mansueta e vittimistica ostentata ogni volta che la giustizia arriverà a mettergli le mani addosso. Ma quando lo scatto delle manette gli imprigionò i polsi gettò un’occhiata di fuoco in faccia agli agenti, come per stamparseli bene nella mente», scrive Marco Nese («Nel segno della mafia. Storia di Luciano Liggio», 1975). Per quel furto Liggio rimase in galera tre mesi. Ad ottobre uscì dal carcere in libertà provvisoria, ma i volti delle guardie che l’avevano arrestato non era riuscito a dimenticarli. Aveva un amico “Lucianeddu”, un coetaneo di nome Giovanni Pasqua. «Cumpà – gli disse – gli sbirri che mi hanno arrestato non la devono passare liscia. A cominciare da quel Calogero Comaianni, tuo vicino di casa». E insieme studiarono un piano. L’occasione propizia sembrò presentarsi la sera del 27 marzo 1945, sei mesi dopo che la futura “primula rossa” era uscita dal carcere. Calogero Comaianni stava rientrando nella sua casa di via Sferlazzo, in pieno centro storico, quando si vide seguito da due uomini incappucciati. Accelerò il passo, ma pure quelli accelerarono il loro. Con uno scatto felino, la guardia giurata fu svelta a guadagnare la porta di casa, cogliendo di sorpresa i due killer. «Ho avuto l’impressione che due uomini mi seguissero», confidò alla moglie Maddalena Ribaudo. «Li hai conosciuti?», gli chiese lei. «Uno mi è sembrato Giovanni Pasqua. Ma chi può avercela con me? Io non ho mai fatto nulla di male, solo il mio dovere», fu la sua risposta. Il giorno dopo, di prima mattina, Calogero Comaianni pulì la stalla e poi uscì di casa per andare a buttare gli escrementi di animali nella vicina discarica. Fatti pochi passi, si accorse di avere dietro gli uomini della sera precedente. Si guardò intorno. Vide il portone aperto della stalla di un vicino di casa, provò a cercarvi riparo, ma quello glielo chiuse in faccia. Allora Comaianni capì e provò a tornare precipitosamente a casa. Ebbe appena il tempo di bussare, che uno dei due inseguitori gli sparò addosso due colpi di pistola. La porta si aprì e, nonostante già fosse ferito, l’uomo provò a salire i primi gradini. Fu raggiunto dai killer, che gli puntarono ancora addosso le loro armi. Ebbe il tempo di girarsi e di guardare in faccia quello più vicino. Lo riconobbe: era Giovanni Pasqua. «Giovanni, che stai facendo?», gli gridò. Ma quello gli scaricò addosso altri colpi di pistola, ammazzandolo sul colpo. Comaianni aveva 45 anni. Dietro di lui, Luciano Liggio rideva, beffardo, guardandosi la scena. Ma la scena e i suoi protagonisti erano stati visti anche da Maddalena Ribaudo, la moglie di Comaianni, che si era affacciata sulla scala. E da Carmelo, il figlio più grande, che era corso a prendere il fucile per sparare agli assassini del padre. Ma fu fermato dalla madre, mentre i due killer si allontanavano a passo svelto.
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lunedì 25 marzo 2013

25 Marzo 1957
Pasquale Almerico 43 anni, politico DC
Antonino Pollari

Pasquale Almerico nacque a Camporeale il 12 luglio 1914. Divenne maestro elementare conseguendo a Monreale l’abilitazione magistrale. Si iscrisse all’università alla facoltà di legge con ottimi risultati, ma abbandonò gli studi preso dall’impegno politico.
Per un po’ di tempo scrisse per il Giornale di Sicilia. Svolse il servizio militare e venne congedato nel 1936 con il grado di sottotenente di fanteria. Insegnò nella scuola elementare di Camporeale e fu nominato responsabile della mensa scolastica.
Grazie al giovane parroco don Vincenzo Ferranti e ad alcuni cattolici impegnati politicamente, tra i quali il giovane Pasquale Almerico, fu creata la sezione del partito della Democrazia Cristiana di Camporeale. Un nemico pericoloso si rivelò immediatamente il capo mafia di Camporeale Vanni Sacco che nella notte del 26 maggio 1946 ordinò ai suoi sgherri di intimidire con alcune scariche di mitra Don Vincenzo. Quest’ultimo si rifugiò presso il Palazzo Arcivescovile di Monreale, ma dopo alcuni giorni mons. Filippi (che era intimo di Vanni Sacco) gli consigliò di ritornare a Camporeale.
Almerico venne eletto sindaco il 25 maggio 1952. Durante il suo mandato viene istituita a Camporeale una sezione staccata della scuola media di Alcamo; fu inoltre resa agibile la strada provinciale Alcamo-Camporeale, unica strada per la quale si poteva raggiungere Trapani, che a quei tempi era il capoluogo di provincia; nel 1954 si ebbe il trasferimento del paese di Camporeale dalla provincia di Trapani a quella di Palermo.
Nel marzo 1955 Almerico fu costretto a dimettersi dalla carica di sindaco, ma la sua attività politica continuò come segretario della sezione della Democrazia Cristiana di Camporeale.
Pasquale Almerico fu assassinato il 25 marzo 1957 a Camporeale, in via Minghetti, da cinque uomini a cavallo armati di mitra. Anche un giovane passante, Antonio Pollari, rimase ucciso.
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domenica 24 marzo 2013

24 Marzo 1994
Luigi Bodenza assistente di polizia penitenziaria

Luigi Bodenza è stato un agente di polizia penitenziaria ucciso a Gravina di Catania il 24 marzo 1994. Mentre stava rientrando in casa venne affiancato da un’auto al cui interno si trovavano due sicari della mafia che lo uccisero sparandogli numerosi colpi d’arma da fuoco.
24 Marzo 1966
Carmelo Battaglia 43 anni, dirigente sindacale e assessore socialista

Il 24 marzo 1966, a Tusa (Messina) fu ucciso Carmelo Battaglia, assessore al patrimonio - in una giunta di sinistra - al comune di Tusa, e dirigente sindacale.

Questo omicidio, avvenuto a tre anni dall'insediamento della Commissione parlamentare antimafia (avvenuto in seguito alla strage di Ciaculli (58)), <<svelò>> l'esistenza di organizzazioni mafiose anche in una zona ritenuta, fino ad allora, immune: la provincia, <<babba>>, di Messina.

In realtà, nel lembo occidentale della provincia, confinante con le province di Palermo ed Enna, e comprendente buona parte della catena dei Nebrodi, già da tempo si erano verificati gravi fenomeni delittuosi tipici delle <<zone di mafia>> (estorsioni, abigeati, danneggiamenti, attentati) (59).

Negli ultimi dieci anni (1956-66), si erano registrati ben 12 omicidi, tutti consumati in un territorio compreso tra i comuni di Mistretta, Tusa, Pettineo e Castel di Lucio, che fu soprannominato il <<triangolo della morte>> (v. G. Messina, 1995). Dietro questi delitti vi era la <<mafia dei pascoli>>, e le lotte scatenate al suo interno per il controllo dell'economia allevatoria dei Nebrodi. L'assassinio di Carmelo Battaglia, rappresentò, quindi, il 13° anello di una lunga catena di sangue. Ma, a differenza delle altre vittime, il sindacalista era stato assassinato perché si era apertamente, e legalmente, ribellato all'ordine costituito, promuovendo, nel suo paese, un movimento organizzato di contadini e pastori.

Brevemente, i fatti. Carmelo Battaglia era stato uno dei soci fondatori della cooperativa <<Risveglio Alesino>> di Tusa, nata nel 1945 per la concessione delle terre incolte. Nel 1965,i contadini e coltivatori soci di questa cooperativa, insieme a quelli soci della cooperativa <<S. Placido>> di Castel di Lucio, erano riusciti ad acquistare, dalla baronessa Lipari, il feudo Foieri, di 270 ettari. Subito dopo l'immissione nel possesso del fondo, sorsero forti contrasti con il gabelloto comm. Giuseppe Russo - ex vice-sindaco DC di Sant'Agata di Militello - e con il sovrastante Biagio Amata, che avevano avuto in gestione il feudo fino ad allora. Costoro pretesero dai nuovi proprietari la cessione di una parte dell'ex-feudo, per farvi svernare i propri armenti. Fu proprio nei forti contrasti che sorsero tra la cooperativa <<Risveglio Alesino>> e questi due personaggi che maturò, quasi sicuramente, il delitto Battaglia.

L'assessore socialista - che aveva difeso con fermezza i diritti dei contadini - fu ucciso all'alba del 24 marzo, proprio mentre si recava sul feudo Foieri. Gli assassini non si limitarono a sparargli addosso. Vollero che il messaggio mafioso di quella esecuzione fosse chiaro a tutti. Così, sistemarono il cadavere in posizione accovacciata, con le mani dietro la schiena e la faccia appoggiata su di una grossa pietra. Il giornalista Felice Chilanti scrisse:

"uno ha sparato, altri hanno compiuto la bieca operazione mafiosa di chinare, in atto di sottomissione, un uomo che in vita non si era arreso (in M. Ovazza, 1993, p. 19).

Dunque,

"(...) chiunque sia stato a sparare, ha siglato il delitto con lo stile inconfondibile, solito degli assassini dei Carnevale, dei Li Puma, dei Cangelosi, dei Rizzotto, dei Miraglia, dei capilega e degli organizzatori del movimento operaio e contadino in Sicilia; (...) il delitto ha chiaro il segno dell'odio secolare contro chi è fermo nel perseguimento di pertinaci obiettivi di giustizia e di rigenerazione sociale; la sanguinaria imprecazione contro colui che partecipa più attivamente alla rivolta organizzata dalle masse contro lo sfruttamento e il privilegio, contro chi osa opporsi ad una condizione passiva della miseria siciliana e contribuisce a trasformarla in una carica di lotta sistematica e irrefrenabile; c'è ancora più chiara la volontà primitiva di ammonire, di costringere a desistere chi, continuando a lottare, è protagonista temibile, <<pericoloso>>,e preferisce non sottrarsi alla vendetta della lupara, sempre possibile, sempre eventuale, come fragorosa ed anonima difesa di un'ordine di vergogne sociali da rispettare" (M. Ovazza, 1993, p. 20).

L'omicidio di Carmelo Battaglia e i 12 omicidi consumati precedentemente nel <<triangolo della morte>> rimasero impuniti.
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