sabato 29 dicembre 2012

29 Dicembre 1967
Giuseppe Piani 38 anni, carabiniere

Giuseppe Piani nacque a Santa Teresa di Riva (ME) nella frazione Misserio il 6 aprile del 1929. A 18 anni partì militare e successivamente si arruolò nel Corpo dell’Arma dei Carabinieri. Per alcuni anni visse e prestò servizio a Gaeta, poi a Bergamo, a Genova, a Milano, a Salerno e successivamente venne a trasferito a Torre del Greco (NA). Nel 1959 sposò la sig.na Cerrato Vittoria residente a Sarno (SA) dove vissero dando alla luce due figlie Carmelinda e Antonietta. E’ il 29 dicembre 1967, che avvenne la tragedia che troncò la giovane vita di Giuseppe Piani. Il Carabiniere scelto Giuseppe PIANI assieme al Brigadiere Antonio PIZZO, entrambi appartenenti squadra di polizia giudiziaria della Tenenza di Torre del Greco, alle ore 16,30 ricevevano una telefonata anonima che segnalava la presenza in una barberia della città di un noto pregiudicato di nome Giuseppe Cosenza, ricercato a seguito di un ordine di carcerazione firmato dall’Autorità Giudiziaria. Poiché erano giorni di festa e non essendo disponibili auto di servizio si recavano sul posto con la macchina di proprietà del carabiniere Piani , una Fiat 500. Rintracciavano ed arrestavano il ricercato, il quale, dapprima non opponeva resistenza ma in seguito durante il tragitto fino alla caserma, per procurarsi la fuga, fulmineamente estraeva ed esplodeva al loro indirizzo diversi colpi di una pistola, che nascondeva nella giacca.
Il Brigadiere PIZZO, raggiunto da cinque colpi, rimaneva gravemente ferito, mentre il Carabiniere scelto PIANI Giuseppe, che era alla guida del mezzo, veniva colpito da 3 colpi alle spalle riportando lesioni gravissime agli organi interni, decedendo subito dopo all’arrivo al nosocomio per emorragia interna.
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giovedì 27 dicembre 2012

27 Dicembre 1972
Giovanni Ventra consigliere comunale del PCI

Giovanni Ventra consigliere comunale del PCI venne assassinato innocentemente il 27 dicembre del 1972 a Cittanova (RC) durante un agguato della terribile faida dei Facchineri contro gli Albanese nella città della Piana di Gioia Tauro.
27 Dicembre 1896
Emanuela Sansone 17 anni

A Palermo viene uccisa Emanuela Sansone, figlia diciassettenne della bettoliera Giuseppa Di Sano. I mafiosi sospettavano che la madre li avesse denunciati per fabbricazione di banconote false.

martedì 25 dicembre 2012

25 Dicembre 1981
Onofrio Valvola 62 anni

Durante la guerra di mafia scoppiata agli inizi degli anni Ottanta il giorno di Natale del 1983 un commando di killer composto dai quattro uomini armati di mitra e pistole calibro 38, trucidò due appartenenti alla cosca rivale: Biagio Pitarresi e Giovanni Di Peri. Con loro venne assassinato anche un innocente, un pensionato di 62 anni, Onofrio Valvola, che era seduto davanti alla porta della sua abitazione.
L’eccidio viene ricordato con il nome di Strage di Natale.

domenica 23 dicembre 2012

23 Dicembre 1995
Giuseppe Montalto 30 anni, agente della polizia penitenziaria

Giuseppe Montalto era un agente scelto della Polizia Penitenziaria. Nacque a Trapani il 14 maggio del 1965 e prestò servizio per vari anni nel carcere “Le Vallette” di Torino, prima di essere trasferito, nel 1993, a Palermo, nella tana dei boss, nella sezione di massima sorveglianza dell'Ucciardone, quella destinata ai criminali che dovevano scontare il regime carcerario del 41 bis.

Chi ha conosciuto Giuseppe, lo ha sempre definito un uomo generoso e buono, che mostrava comprensione nei confronti di chi era costretto a vivere tra le sbarre per ripagare il proprio debito con lo Stato. Dovette forse cambiare idea al momento del suo trasferimento in Sicilia, una terra in cui chi nasce mafioso difficilmente muore martire della Giustizia. I boss dell'Ucciardone non solo continuavano ad ostentare ostilità e avversione nei confronti dello Stato e delle Istituzioni, ma, insofferenti della propria condizione ed incuranti della propria sconfitta, continuavano a recitare la parte dei capi, dei padrini intoccabili, protetti dallo loro stessa fama di ferocia e spregiudicatezza. Infischiandosene dello Stato e delle Leggi persino in carcere, uomini d'onore del calibro di Giuseppe Graviano, scrivevano e spedivano i loro ordini attraverso i pizzini, che riuscivano ad oltrepassare le sbarre di ferro dell'Ucciardone e a dettare ancora legge nel mondo. Giuseppe Montalto trovò per puro caso uno di questi pizzini indirizzati proprio al boss Graviano, a Mariano Agate e Raffaele Ganci.

Lo sequestrò e denunciò subito l'accaduto. Cosa nostra non gli perdonò questa completa aderenza alle Leggi ed al rispetto dello Stato e lo fece uccidere, il 23 dicembre del 2005. Perchè neppure la magia del Natale è capace di mettere un freno alla crudeltà della mafia. All'indomani della strage, così scrisse Giorgio Petta sulle pagine del Corriere della Sera: In una strategia che vede la mafia di nuovo all' attacco delle istituzioni, non ci sarebbero dubbi: si tratta di un delitto intimidatorio, stando alle indagini fin qui svolte da polizia e carabinieri, coordinati dal procuratore aggiunto della Dda di Palermo, Luigi Croce. A partire dal giorno scelto dai killer per entrare in azione, la vigilia di Natale, festa di pace anche per i mafiosi. Se si rompe la tregua e' soltanto per sfregio, per lanciare un segnale inequivocabile, per far trascorrere, si dice in Sicilia, un "malo Natale" a familiari e amici della vittima. Montalto poteva essere infatti ucciso in qualsiasi momento, a Palermo come a Trapani. Al lavoro era tornato da appena due giorni, dopo sei di ferie. Non aveva mai adottato particolari misure di sicurezza per la propria incolumità , ne' recentemente aveva manifestato timori, e a pesca, la sua grande passione, continuava ad andarci da solo.”

Giuseppe, uomo dello Stato e padre di trent'anni, non si aspettava certamente di essere ucciso alla vigilia di Natale, davanti agli occhi esterrefatti della moglie e della figlioletta. Premiato con la medaglia d'oro al valore civile, così ne ha ricordato la vicenda Giancarlo Caselli, nella prefazione al volume "Montalto, fino all'ultimo respiro", libro dedicato alla vittima di mafia. "L'evocazione del martirio di Montalto ripropone poi l'interrogativo che sempre ci si deve porre di fronte ad una vittima della violenza mafiosa. I tanti morti di mafia, sono forse morti anche perché noi non siamo stati abbastanza vivi? Perché tutti noi (noi cittadini, noi Stato) non ci siamo abbastanza indignati? Non abbiamo vigilato a dovere? Coloro che sono morti hanno visto la sopraffazione, l'illegalità, lo scialo della violenza, la ricchezza facile e ingiusta, la debolezza delle istituzioni. Questo hanno visto e per questo sono morti. Noi invece, - continua Caselli - pur vedendo le stesse cose, quante volte ci siamo accontentati dell'ipocrisia? Quante volte abbiamo sentito e praticato, invece di spezzarlo, il giogo delle mediazioni e degli accomodamenti, magari solo per quieto vivere? La storia del servizio di Montalto nel carcere dell' Ucciardone è anche storia di isolamento e di solitudine e quindi di sovraesposizione alla rappresaglia criminale. Storia di una morte che deve costituire - per tutti noi - una condanna".
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23 Dicembre 1984, Strage di Natale
Giovanbattista Altobelli 51 anni
Anna Maria Brandi 26 anni
Angela Calvanese in De Simone 33 anni
Anna De Simone 9 anni
Giovanni De Simone 4 anni
Nicola De Simone 40 anni
Susanna Cavalli 22 anni
Lucia Cerrato 66 anni
Pier Francesco Leoni 23 anni
Luisella Matarazzo 25 anni
Carmine Moccia 30 anni
Valeria Moratello 22 anni
Maria Luigia Morini 45 anni
Federica Taglialatela 12 anni
Abramo Vastarella 29 anni
Gioacchino Taglialatela 50 anni
Giovanni Calabrò 67 anni

La Strage del Rapido 904, o Strage di Natale, è il nome attribuito ad un attentato dinamitardo avvenuto il 23 dicembre 1984 presso la Grande Galleria dell’Appennino, ai danni del treno rapido n.904 proveniente da Napoli e diretto a Milano.
L’attentato è avvenuto nei pressi del punto in cui poco più di dieci anni prima era avvenuta la Strage dell’Italicus; per le modalità organizzative ed esecutive, e per i personaggi coinvolti, è stato indicato dalla Commissione Stragi come l’inizio dell’epoca della guerra di Mafia dei primi anni novanta del XX secolo.

L’attentato venne compiuto domenica 23 dicembre 1984, nel fine settimana precedente le feste natalizie. Il treno era pieno di viaggiatori che ritornavano a casa o andavano in visita a parenti per le festività.
Il treno intorno alle 19.08 fu colpito da un’esplosione violentissima mentre percorreva la direttissima in direzione nord, a circa 8 chilometri all’interno del tunnel della Grande Galleria dell’Appennino (18 km), in località Vernio, dove la ferrovia procede diritta e la velocità supera i 150 km/h. La detonazione fu causata da una carica di esplosivo radiocomandata, posta su una griglia portabagagli del corridoio della 9ª carrozza di II classe, a centro convoglio: l’ordigno era stato collocato sul treno durante la sosta alla Stazione di Firenze Santa Maria Novella.
Al contrario del caso dell’Italicus, questa volta gli attentatori attesero che il veicolo penetrasse nel tunnel, per massimizzare l’effetto della detonazione: lo scoppio, avvenuto a quasi metà della galleria, provocò un violento spostamento d’aria che frantumò tutti i finestrini e le porte. L’esplosione causò 15 morti e 267 feriti. In seguito, i morti sarebbero saliti a 17 per le conseguenze dei traumi.
Venne attivato il freno di emergenza, e il treno si fermò a circa 8 chilometri dall’ingresso sud e 10 da quello nord. I passeggeri erano spaventati, e a questo si affiancava il freddo dell’inverno appenninico. Il controllore Gian Claudio Bianconcini, al suo ultimo viaggio in servizio, chiamò i soccorsi da un telefono di servizio presente in galleria e, sebbene ferito, sopravvisse all’esplosione.

Bianconcini, sebbene anch’egli ferito da alcune schegge nella nuca, organizzò anche i primi soccorsi con l’aiuto di altri passeggeri, nonostante il freddo e il buio, dato che i neon di emergenza della galleria, isolata elettricamente, avevano poca autonomia.
I soccorsi ebbero difficoltà ad arrivare, dato che l’esplosione aveva danneggiato la linea elettrica e parte della tratta era isolata, inoltre il fumo dell’esplosione bloccava l’accesso dall’ingresso sud dove si erano concentrati inizialmente i soccorsi, per cui ci impiegarono oltre un’ora e mezza. I primi veicoli di servizio arrivarono tra le venti e trenta e le ventuno: non sapevano cosa fosse successo, non avevano un contatto radio con il veicolo fermo e non disponevano di un ponte radio con le centrali operative periferiche o quella di Bologna. I soccorsi una volta sul posto parlarono di un “fortissimo odore di polvere da sparo”.
Venne impiegata una locomotiva diesel-elettrica, guidata a vista nel tunnel, che fu per prima cosa usata per agganciare le carrozze di testa rimaste intatte, su cui furono caricati i feriti. Un solo dottore era stato assegnato alla spedizione.
Con l’aiuto della macchina di soccorso i feriti vennero portati alla stazione di San Benedetto Val di Sambro, seguiti subito dopo dagli altri passeggeri. L’uso della motrice Diesel però rese l’aria del tunnel irrespirabile, per cui servirono bombole di ossigeno per i passeggeri in attesa di soccorsi.
Uno dei feriti, una donna, venne trovata in stato di choc in una nicchia della galleria, e fu portata a braccia fino alla stazione di Ca’ di Landino.
Arrivati alla stazione di San Benedetto, ai feriti vennero offerte le prime cure, e quelli più gravi furono portati a Bologna da una quindicina di ambulanze predisposte per il compito, che viaggiavano scortate da polizia e carabinieri. Le cure ai feriti leggeri durarono fino alle cinque di mattina.
Venne allestito rapidamente un ponte radio, e la Società Autostrade fece in modo di mettere a disposizione un casello riservato al servizio di emergenza. I feriti vennero portati all’Ospedale Maggiore di Bologna, facendosi largo nel traffico cittadino grazie ad una razionalizzazione delle vie di accesso studiata proprio per i casi di emergenza. Per ultimi furono trasportati i morti: fortunatamente la neve cominciò a cadere solo durante questa ultima fase.
Il piano di emergenza era frutto delle misure predisposte dopo la Strage del 2 agosto 1980, e questa operazione fu la prima sperimentazione del sistema centralizzato di gestione emergenze costituito a Bologna.
Nonostante le condizioni ambientali estremamente avverse, l’opera di soccorso e l’operato dei soccorritori furono ammirevoli per l’efficienza dimostrata, tanto che poco dopo il servizio centralizzato di Bologna Soccorso sarebbe diventato il primo nucleo attivo del servizio di emergenza 118.
Alla grande abilità ed organizzazione delle forze dell’ordine e dei soccorritori si aggiunse anche una certa fortuna: cominciò a nevicare solo dopo la conclusione delle operazioni di trasporto, e il vento soffiò i fumi dell’esplosione verso sud, rendendo possibile l’accesso dal lato bolognese da cui arrivavano i soccorsi. Le attrezzature dei vigili del fuoco prevedevano solo bombole con mezz’ora di autonomia, che altrimenti sarebbero state insufficienti.
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23 Dicembre 1946
Nicolò Azoti 37 anni, segretario della camera del lavoro

Nicolò Azoti fu uno dei primi sindacalisti della Cgil a cadere sotto il piombo della mafia nel secondo dopoguerra. Era nato a Ciminna il 13 settembre 1909, da Melchiorre e da Orsola Lo Dolce. Ad otto anni, però, si trasferì con tutta la famiglia nella vicina Baucina, dove mise radici. Fin da piccolo mostrò spiccate doti musicali, tanto che il maestro Francesco Genovese lo inserì nel corpo bandistico di Baucina. Mostrò interesse anche per il canto, lo sport e la caccia, ma il mestiere che gli dava da vivere fu quello di ebanista. Partecipò alla seconda guerra mondiale e alla colonizzazione dell’Africa. Nel 1939 sposò Domenica "Mimì" Mauro, da cui ebbe due figli. Nei difficili anni del dopoguerra, la sua attenzione fu attratta dalle misere condizioni dei contadini, che cominciò ad organizzare nella Cgil, battendosi per la riforma agraria. Divenne, quindi, segretario della Camera del lavoro, fondò l’ufficio di collocamento e progettò la costituzione di una cooperativa agricola. Fu inevitabile, quindi, lo scontro con gli agrari e i gabelloti mafiosi, specie dopo che si mise in testa di far applicare la nuova legge sulla divisione dei prodotti agricoli a 60 e 40 (60% al contadino, 40% al padrone). Prima le lusinghe: "Lascia perdere tutto - gli disse un giorno un gabelloto - e ti daremo la terra e il frumento che vuoi!". Poi le minacce: "Tu ci stai rovinando, ma te la faremo pagare cara!". E gliela fecero pagare carissima la sera del 21 dicembre 1946, con 5 colpi di pistola sparategli alle spalle. Azoti fece i nomi dei suoi assassini sia alla moglie, che ai carabinieri che lo interrogarono, ma la giustizia "ingiusta" del tempo non riuscì nemmeno celebrare un normale processo.
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mercoledì 19 dicembre 2012

19 Dicembre 1919
Alfonso Cànzio 47 anni, sindacalista

Alfonso Cànzio è stato un sindacalista italiano. Nacque il 30 luglio 1872 a Barrafranca (EN). Nel secondo decennio del ‘900, fu il fondatore della locale Lega di Miglioramento dei Contadini e l’anima del movimento socialista barrese. Fu anche consigliere comunale.
Nel 1911 lo troviamo alla guida della lotta contro l’Amministrazione comunale guidata da Luigi Bonfirraro che aveva imposto, tra l’altro, l’obbligo di servirsi delle carrozze comunali per il trasporto dei defunti e ne aveva aumentato i costi di servizio. Nel primo dopoguerra guidò le lotte contadine riuscendo ad imporre contratti favorevoli ai lavoratori della terra. Ma la reazione agraria, a Barrafranca come in tutta la Sicilia, non si fece attendere. Esecutrice di efferati delitti fu la mafia agraria che si vedeva gravemente minacciata dall’impegno radicale dei dirigenti del movimento contadino. Gli agrari e la mafia locale non avevano perdonato a Cànzio il suo coraggioso ruolo dirigente svolto nel movimento e così gli tesero un vile agguato, ferendolo gravemente con pallettoni unti d’aglio davanti alla sua abitazione. Una settimana dopo l’attentato, la sopraggiunta cancrena lo condusse alla morte il 13 dicembre 1919.
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mercoledì 12 dicembre 2012

12 Dicembre 1985
Giuseppe Borsellino 54 anni, imprenditore

Giuseppe Borsellino (Lucca Sicula, 15 febbraio 1938 – Lucca Sicula, 17 dicembre 1992) è stato un imprenditore italiano, vittima della mafia.
Nacque da una famiglia di origine riberesi, poi trasferitasi stabilmente Lucca Sicula. Cominciò a lavorare presto. Si sposò a 18 anni con Calogera Pagano, sua coetanea; con cui ebbe tre figli, Antonella, Paolo e Pasquale. Dopo vari lavori si dedicò alla sua definitiva attività di piccolo imprenditore-operaio di una piccola impresa di calcestruzzo che diresse assieme al figlio Paolo. Rifiutò qualsiasi tipo di compromesso o sottomissione al potere ed agli interessi mafiosi e perciò venne ucciso il 17 dicembre 1992 dopo aver rivelato alla magistratura i nomi dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio del figlio Paolo (ucciso il 21 aprile 1992, omonimo del giudice Paolo Borsellino pure ucciso nel 1992). Le sue dichiarazioni permisero agli inquirenti di ricostruire gli intrecci tra mafia, affari e politica dell’hinterland lucchese di quel periodo.
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Io ricordo poco della mafia che ho conosciuto. Per fortuna forse. Ero molto piccolo quando mio zio e mio nonno vennero uccisi. Dell’omicidio di mio zio Paolo, infatti, non ricordo praticamente nulla. Però, dopo solo otto mesi, uccisero mio nonno, e allora fu come svegliarsi di colpo, fu come perdere un’innocenza e una verginità intellettuale incapaci di comprendere tanta spietatezza. Da lì cominciai a ricordare ed ad accumulare immagini, sguardi e silenzi che mi diedero una chiara consapevolezza di cosa fosse realmente la mafia. Un episodio in particolare mi è rimasto bene impresso e che, in una sorta di lucida schizofrenia, ho di fronte quotidianamente; fu la prima volta che ebbi a che fare con quella “cosa nostra” che a sette anni vedevo rappresentata nei disegni come una piovra, con tentacoli ovunque, ma che vedevo saldamente relegata nella carta, nei libri, lontano da me: ero nella sala d’aspetto di un pediatra, ed ero seduto sulla sedia, accanto mia madre, e ricordo che muovevo i piedi, che ancora non toccavano terra, avanti e indietro, come fanno splendidamente i bambini spensierati. Aspettavamo il nostro turno per una visita di routine. Poi sentii il rumore della jeep di mio padre, e vidi lui scendere lo scivolo che portava alla sala d’aspetto con gli occhi gonfi. Mia madre non ebbe bisogno di una parola. Fu lei ad urlare solo “mio padre”. Quella fu la conclusione di un conto rimasto aperto dopo l’omicidio di mio zio Paolo, fratello di mia madre, avvenuto otto mesi prima. In quel momento capii anche che cosa nostra non lasciava mai capitoli aperti. Non ricordavo però quando quel conto era stato aperto, quando Paolo e Giuseppe Borsellino osarono dire no a quella organizzazione criminale che riduce i siciliani in tanti piccoli schiavi di un padre-padrone eternamente senza nome. Ma andiamo con ordine. Negli anni, dei due omicidi in casa quando c’ero io se ne parlò raramente. Il discorso da mia madre non fu mai affrontato direttamente. Ma vedevo quotidianamente i segni che quei lutti provocarono su di lei e su tutta la famiglia. Neanche mio zio me ne parlò mai. In seguito venni a sapere che in quegli anni, mentre io ancora giocavo e disegnavo, loro avevano portato avanti la battaglia che aveva iniziato mio nonno Giuseppe la notte stessa dell’omicidio di mio zio Paolo. Nei loro silenzi protettivi, loro lottavano, andavano alle manifestazioni in giro per la Sicilia, a Rosso e Nero di Michele Santoro, da Tano Grasso, mio zio scriveva all’ On. Violante (che non gli rispose mai). Leggendo requisitorie, fascicoli dell’inchiesta e articoli di giornale ho potuto avere chiara una storia che per tanto tempo è stata giustamente vissuta come tabù in famiglia nei miei confronti, e sulla quale, senza dubbio, le inchieste giudiziarie non hanno fatto abbastanza luce, luce che avrebbe potuto dare una minima speranza di fiducia nella giustizia ma che di fatto ci lascia ancora oggi con l’amaro sapore della doppia beffa in bocca. Credo fermamente che questa sia prima di tutto una storia di martiri di mafia, e come tale vada raccontata, perchè emergano alla fine, sì la speranza e la voglia di giustizia come risarcimento morale per me e per la mia famiglia, ma anche le responsabilità di chi non ha protetto la scelta coraggiosa dei miei parenti di affidarsi alla giustizia quando avrebbero potuto cercare altre vie “non ufficiali”. Mi avvarrò nella mia ricostruzione di una lucidissima analisi fatta da mio zio Pasquale, fratello di Paolo e di mia madre Antonella, oggi sposato, con una splendida famiglia e una affermata carriera da psicologo in Veneto.

Per iniziare mi viene in mente il titolo di un articolo apparso tempo fa su Diario “Borsellino? Erano in tre”. Non erano giudici, non avevano deciso di sacrificare la vita per la lotta alla mafia, come aveva fatto il più illustre Paolo. Erano persone normalissime, che lottavano per mantenere una famiglia. Nient’altro. Ma sono diventati eroi quando nella loro normalità e nel loro rifiuto del compromesso hanno saputo dire no ad una logica mafiosa che oggi più che mai si scopre attuale, e che spero possa essere sconfitta dalle nuove generazioni, compresa la mia, che hanno e avranno la fortuna di poter guardare indietro e avere esempi di vita, come Falcone, Borsellino, Impastato, e tanti altri. Tra questi altri, a parer mio, ci sono anche mio nonno e mio zio.

Mio nonno, Giuseppe Borsellino, nasce a Lucca Sicula nel 1936 , in una di quelle famiglie siciliane nelle quali appena nato devi subito fare del tuo per portare il pane a casa perchè la fame è tanta. Si sposa giovanissimo con mia nonna Lilla e comincia una lunga sequela di lavori andati più o meno bene che lo portano condurre camion e a fare il trasportatore. Qui la sua vita si intreccia a doppio filo con quella di suo figlio, mio zio Paolo, nato nel 1961 e orientato da sempre verso quel tipo di lavoro “duro”, tutto polvere, camion e cemento che ora era diventato anche quello di suo padre. I due cominciano a dedicarsi completamente a ciò che riguarda il movimento terra e il trasporto di inerti, e con un budget poco al di sopra dello zero iniziano questa attività di cui avrebbero condiviso l’inizio e purtroppo anche la fine. Comprano un piccolo impianto usato per la produzione di calcestruzzo per 39 milioni di lire, rigorosamente rateizzato. Non ci sono soldi neanche per installarlo. I miei parenti non avevano boss che finanziassero per loro, se li avessero avuti probabilmente avrebbero aperto una bella clinica privata a Bagheria, avrebbero amici “importanti” in Regione e soprattutto sarebbero vivi. Ma mio zio e mio nonno erano un altro genere di persone, un altra “razza”. Erano fondamentalmente persone oneste. Umili, in difficoltà finanziarie, a tratti disperate, ma oneste. Siamo alla metà degli anni ottanta, e piano piano l’impresa avvia la sua produzione, fornendo materiali prevalentemente ai privati, visto che, stranamente, a contendersi i lavori pubblici della zona di Lucca sono sempre le stesse tre imprese, due di Agrigento e una di Giuliana, come se esistesse un “patto” tra amministrazione e imprese per la spartizione dei lavori. Ma questo non interessa me e non interessava mio zio e mio nonno che lentamente stavano avviando la loro impresa con grandissimi sacrifici. Ma come le regole implicite della sicilianità più ortodossa insegnano, prima di fare qualcosa sul territorio devi chiedere il permesso, devi essere autorizzato da un ente parastatale a cui ogni tanto devi cedere parte del ricavo se vuoi continuare ad essere “protetto”: il “Ministero dei lavori pubblici di Cosa Nostra”. Non chiedere il permesso ed essere un’alternativa alle imprese “protette” evidentemente non piacque ai vertici e forse fu il primo passo falso. La neonata impresa di calcestruzzi: contava quattro operai, disponeva di un capitale minimo e di certo non ambiva a conquistare nessuna posizione dominante nel panorama imprenditoriale della zona; anzi, furono proprio la situazione economica critica, la scarsità di lavoro filtrata dalle tre imprese preminenti ad essere un segnale per coloro i quali avevano capito da tempo che quella azienda momentaneamente in difficoltà, in quella posizione strategica doveva essere rilevata, e doveva esserlo a qualunque costo. Infatti le offerte non tardarono ad arrivare, e questo, si può dire, fu realmente l’inizio della fine. La prima offerta, 150 milioni, ricevette come risposta da parte di mio zio Paolo una frase beffarda e tagliente: “Con quei soldi non vi vendo nemmeno i pneumatici delle betoniere”. Dopo qualche mese, e dopo evidentemente un’attenta valutazione da parte della cosca di Lucca, giunge ai miei parenti una nuova offerta apparentemente più appetibile: 150 milioni di lire per il 50% dell’impresa da parte di Calogero Sala, imprenditore di Burgio. Non si poteva più rifiutare perchè ormai la situazione economica era al collasso, e padre e figlio, di comune accordo decidono di vendere. I nuovi soci dell’impresa si chiamano Sala Calogero, Davilla Mario, Galifi Pietro, Polizzi Paolo. Concretizzato l’acquisto, il gruppo comincia ad investire subito in mezzi e beni per l’impresa, in modo tale da aumentare il capitale sociale e costringere i miei parenti a cedere ulteriori quote, fino a metterli fuori gioco: questo sembrava il tentativo fin dall’inizio, quello di liberarsi dei Borsellino il prima possibile e in qualunque modo. I rapporti, come prevedibile, si deteriorano da subito.

Gli alberi dei nostri terreni cominciarono ad essere tagliati, i camion ad essere incendiati, e le minacce si moltiplicavano ogni giorno. Le pressioni per abbandonare l’impresa non erano più tanto implicite, e più volte, anche davanti ad altre persone, mio zio e mio nonno furono minacciati dagli altri soci. Ma la morte è lontana dai pensieri della nostra famiglia. Non potevano arrivare ad uccidere un uomo per un’impresa, al massimo avrebbero provato a spaventarlo. E’ stata questa forse la nostra più grande ingenuità, pensare che se eri onesto non dovevi temere, anche perchè avevi la giustizia accanto. E fu questo punto che ebbe inizio un breve piano inclinato, sul quale il primo a rotolare fu mio zio Paolo, che trovò la morte ad aspettarlo alla fine della sua discesa il 21 Aprile del 1992. Viene ritrovato con i piedi fuori dal finestrino, nella sua Panda parcheggiata in uno dei depositi dell’impresa, come se fosse stato ucciso lì. E’ un bluff. Nonostante il pressapochismo delle indagini si può intuire che mio zio sia stato ucciso in un altro luogo, poi portato in quel posto e nuovamente colpito per completare la messa in scena. Mio zio è morto molto lontano da lì, ma questo evidentemente non era importante per il proseguo delle indagini. Quel giorno tornava da Alcamo, con un suo amico e compagno di lavoro da sempre: Giuseppe Maurello. Erano andati a ritirare un pezzo di ricambio per il camion, ma la strada del ritorno si è interrotta prima di arrivare a Lucca. Forse quell’amico che era con lui sapeva fin dall’inizio che mio zio non sarebbe più tornato, forse lungo il tragitto era prevista una tappa che mio zio non conosceva, e che forse conosceva Maurello. Ciò che è certo è che quella fu la sua ultima tappa. Dopo pochi giorni riconsegnarono alla mia famiglia l’auto nella quale fu ritrovato mio zio: c’erano ancora i pallettoni del fucile sotto il sedile, sembrava quasi che non fosse stata neanche esaminata, era come se i rilievi sul posto del ritrovamento e sull’auto fossero stati volutamente fatti superficialmente. Ciò mi porta alla mente le indagini preliminari svolte dopo l’omicidio di Peppino Impastato, ma questa è un’atra storia. Sembra, a nostro parere, che non ci sia mai stata la voglia e la forza di trovare i colpevoli, che non ci siano state indagini svolte seriamente e in maniera ponderata fin dall’inizio, e che non ci sia stata infine una minima apparenza di interesse da parte degli inquirenti ad andare avanti. Mio zio Paolo fu ucciso perchè rappresentava l’ultimo baluardo alla conquista dell’impresa e di tutto ciò che ne sarebbe conseguito: nella zona dovevano realizzarsi le canalizzazioni di tre fiumi. Era la prima vera occasione per i neo-soci di entrare nei giri importanti dei lavori pubblici che contavano. E mio zio era l’ultimo problema. Tolto di mezzo Paolo, mio nonno si sarebbe zittito e avrebbe ceduto la propria quota e allora gli affari sarebbero potuti decollare. Mio nonno Giuseppe non era un eroe, e non sarebbe mai voluto diventarlo, proprio come tutti i veri eroi. La sera stessa dell’omicidio, quando i miei genitori ancora dovevano raggiungere Lucca, lui era già in caserma per iniziare a collaborare con la giustizia, con la dott.sa Plazzi, perchè sapeva tante cose che se fossero davvero state ascoltate e prese in considerazione, almeno mio nonno sarebbe stato salvato, e qualcun altro sarebbe in galera. Ma, come scrive mio zio Pasquale, “quando in Sicilia uccidono qualcuno si pensa che abbia fatto comunque qualcosa di cattivo, che se la sia cercata la morte”, e questo pensiero sembra aver dato una direzione quantomeno superficiale per non dire criminale alle indagini. Mio nonno si reca in caserma e parla, parla e parla fin quando non ha più nulla da dire, descrive minuziosamente tutte le circostanze, dalle offerte per la cessione dell’impresa, fino alle minacce e ai pedinamenti. Ma mentre lui parla forse non tutto viene ascoltato e scritto. Parla di cosche, delle implicazioni politiche nei malaffari, delle infiltrazioni mafiose della zona nelle istituzioni, e quello che girava intorno agli appalti e soprattutto quello che riguardava il settore del calcestruzzo.. Dice, forse, troppe cose anche per un giudice. Certe cose, si sa, è meglio lasciarle sotto il tappeto, pulire si, ma solo fino ad un certo punto. Lasciamo nell’ombra ciò che nell’ombra deve restare. Chiaramente dopo poco tempo, per un’accidentale fuga di notizie la sua collaborazione è già di dominio pubblico. Anche per lui il piano comincia ad inclinarsi, ma nessuno ci crede, non possono uccidere anche lui. Negli otto mesi trascorsi fino al giorno del suo omicidio mio nonno quasi quotidianamente si trova a parlare con gli inquirenti, non lascia nulla di intentato, chiama la commissione antimafia, si mette in contatto con il Centro Studi Impastato, cerca magistrati, capitani dei carabinieri, associazioni, non si ferma un solo minuto fino a quando il pomeriggio del 17 dicembre del 92 lo fermano altri. Parla anche con Umberto Santino. Egli mi racconta in questi giorni di quella chiamata, mi dice che la ricorda con emozione, e che avevano fissato un appuntamento a Lucca: “purtroppo gli assassini arrivarono prima”. Giorno dopo giorno sente sempre di più la solitudine, non solo da parte di un paese che lo ha completamente lasciato da solo, per paura o per vigliaccheria, ma anche da parte di una magistratura che non lo protegge, che lo lascia circondare dagli sciacalli che di li a poco lo raggiungeranno. “Prendeteli o quelli mi ammazzano” implora gli inquirenti. Fa nomi e cognomi, ricostruisce circostanze, ma nessuno viene arrestato. “Sono un morto che cammina” ebbe modo di sentire mia madre dalla sua bocca. Ormai si era rassegnato: barba lunga, vestiti neri, sprofondato in una vecchia poltrona aspettava quella fine che forse solo lui aveva intuito e alla quale forse andava incontro per porre fine ad un dolore che dall’interno, forse lo avrebbe portato via comunque. La morte di mio nonno fu come nel romanzo di Gabriel Garcia Màrquez la “Storia di una morte annunciata”: le istituzioni quando non sono nutrite dalla vigoria, dalla forza e dai valori di certi uomini diventano scatole vuote non in grado di aiutare più nessuno. La Prefettura rilasciò a mio nonno l’autorizzazione al porto d’armi per una pistola per difesa personale. Uno stato che concede come unico aiuto l’autorizzazione a difendersi con le armi.
Tutte le sue dichiarazioni rese alla giustizia, dopo pochi giorni arrivavano alle orecchie di coloro i quali lo avrebbero ucciso; infatti nel 93 nel corso dell’ operazione antimafia “Avana 2” vengono arrestati un impiegato della Cancelleria di Sciacca e gli agenti di scorta del magistrato cui mio nonno si rivolgeva. Purtroppo mio nonno era già stato ucciso. Il 17 dicembre 92 esce di casa per comprare le sigarette, chiede a mio cugino, piccolo figlio di Paolo, di accompagnarlo, ma quel giorno per pura fortuna mio cugino non ha voglia di uscire. Parcheggia la sua macchina di fronte al tabacchino, compra le sigarette e risale in auto. Mentre sta per fare retromarcia vede dallo specchietto una moto di grossa cilindrata, una enduro, allora si ferma e la lascia passare. La piazza è piena di gente. Gente al bar, gente che passeggia, gente che guarda, gente che ride. I due in moto lo affiancano e scaricano su di lui un caricatore di mitraglietta. La pallina aveva terminato la sua corsa su di un piano che ormai era diventato verticale. Mio nonno sapeva tutto, sapeva chi aveva ucciso mio zio, conosceva mandanti ed esecutori. Poteva prendere una pistola e farsi giustizia da solo. Poteva fregarsene di quella giustizia che lo aveva abbandonato e fare una pazzia. Non lo fece, e la fine è nota a tutti. Mia madre ebbe a dire: “ si potevano toccare i proiettili sotto la pelle, sulla spalla” e lì forse mi feci un’idea reale, materiale di ciò che era successo. Faccio mie a questo punto le tre domande che mio zio affidò ad un foglio che non aveva un destinatario preciso e che spero lo trovi adesso:
1) Mio zio Paolo è stato ucciso. Mio nonno ha fatto nomi e cognomi, ha descritto fedelmente fatti e circostanze fornendo indizi ben precisi; perchè non è successo niente? Perchè la magistratura non è intervenuta tempestivamente?
2) Se quello che ha detto era tutto falso, perchè allora lo hanno ucciso? Alla luce della morte di mio nonno, le sue dichiarazioni non sono mandati di cattura?
3) Di chi è la responsabilità della sua morte?
Queste sono domande alle quali si deve dare una risposta, perchè non si può accettare che un uomo si fidi della giustizia, e che quest’ultima, di fatto, lo consegni, pur senza intenzionalità, nelle mani dei suoi killer. La mia famiglia a quell’epoca chiese giustizia, “giustizia subito, non quando questa sembrerà vuota e inutile”. Da quei mesi terribili sono passati quattordici anni, che a me sembrano tantissimi. Poi guardo mia madre, mia nonna e mio zio e capisco che per loro è passato poco più di un attimo. Mentre li guardo penso a quanto poco si sia fatto per evitare che la vita di un’intera famiglia venisse resa un inferno, quasi un’attesa faticosa e quotidiana della pace eterna. E guardo a quel paese, Lucca, che dalle finestre delle case vide prima mio zio già morto depositato su una macchina e teatralmente colpito, e poi mio nonno giustiziato in perfetto stile mafioso in piazza, in pieno giorno. Guardo a quelle persone che con il loro silenzio hanno forse salvato la loro vita, ma che hanno condannato noi ad odiare quel paese, ad odiare quella gente e quell’omertà che uccide più dei pallettoni che noi, e non gli inquirenti, trovammo nell’auto. Se vieni ucciso per mafia in Sicilia rischi di essere ucciso due volte: la prima dai proiettili, la seconda dall’indifferenza.
Poi guardo a quella giustizia così appannata, così provinciale, così pressapochista a cui mio nonno si affidò in quell’epoca per dare un senso a quella vita che gli rimaneva, per potere continuare a vivere sapendo di aver fatto di tutto perchè coloro che gli avevano ucciso suo figlio pagassero. Forse fu un terribile sbaglio affidarsi ad un sistema giudiziario frammentario, che di li a poco, nelle tristi occasioni delle stragi di Capaci e Via d’Amelio mostrò tutte le spaccature e le contraddizioni che vi erano al suo interno. O forse era la cosa giusta da fare, dare tutto e subito prima che i killer tornassero a finire il lavoro, e lasciare nelle mani dei giudici quanto più materiale possibile per fare giustizia e per dare una svolta a quella Sicilia sonnecchiante sotto quel sole che ti spinge a socchiudere gli occhi quando è “giusto” che tu non veda. Quattordici anni sono passati, e la mia famiglia ancora aspetta. Per Paolo ancora non ci sono colpevoli, non ci sono processi e non ci sono imputati. Per mio nonno un killer è in carcere. Può questo bastare a placare il dolore e la rabbia per tutto quello che è successo? Ci si aspetterebbe da noi forse una condanna della giustizia e dei suoi uomini, senza distinzioni, forse sarebbe comprensibile, forse legittima. Ma nonostante tutto, noi come famiglia, da “buoni stupidi idealisti”, non riusciamo ancora a rinnegare quella giustizia che ci ha abbandonati. Non riusciamo a dire che la giustizia non esiste, non siamo mai riusciti anche solamente a pensare di affidarci ad un altro tipo di giustizia. Anzi, paradossalmente questa storia è un appello, un urlo a fare della giustizia e della legalità i pilastri portanti da cui ricostruire una Sicilia in ginocchio. Voglio dire e sottolineare, e a questo tengo più di tutto, che non ci sentiamo affatto sconfitti dalla mafia, che ci sentiamo orgogliosi di aver avuto dei parenti che hanno avuto il coraggio di dire no ad un sistema condiviso e quotidiano che schiaccia i siciliani e li fa sentire paradossalmente protetti, senza spazio e senza aria, ma protetti. Mio zio e mio nonno non sono più accanto a noi, è vero, ma quello che hanno fatto è per noi un percorso di fiume ben segnato, dal quale non si può straripare, dal quale non si può anche solo casualmente deviare: è la via della legalità e dell’antimafia, della lotta a quel cancro che sta corrodendo la Sicilia da anni e che non accenna a mollare la presa, è il rifiuto del puzzo del compromesso mafioso, è la voglia di respirare il profumo di quella primavera nuova che verrà. La mafia non è stata sconfitta, come qualcuno allegramente proclamava. E stando alle indagini è presente ai vertici delle istituzioni regionali. E’ questo che fa più male a chi come noi ha vissuto già una volta sulla propria pelle il significato di “mafia”. Ci fa male vedere un presidente della regione indagato per favoreggiamento alla mafia, fa male vedere i suoi assessori indagati per concorso esterno in associazione mafiosa, e fa male quando lo stesso presidente dice che “la mafia fa schifo”. Noi, come familiari di vittime innocenti di mafia, chiediamo che queste cose si lascino dire a chi può permetterselo, a chi ha l’onore e la reputazione per farlo; chi se ne è appropriato, francamente, stando alle indagini, è sempre più inadatto a farsi padre di questi proclami.
La strada è ancora lunga, e forse ci siamo mossi poco dal 92. Ma i nuovi che ci sono e quelli che verranno libereranno la Sicilia nel segno di quegli eroi antimafia che formano il più grande patrimonio che la nostra regione può offrire al mondo. Cominciamo a fare tutti qualcosa.
dal blog di Benny Calasanzio Borsellino



12 Dicembre 1985
Graziella Campagna 17 anni, stiratrice

Cresciuta in una famiglia numerosa (erano sette tra fratelli e sorelle) a Saponara Superiore, abbandonò gli studi e trovò lavoro come aiuto lavandaia nella vicina Villafranca Tirrena, un impiego in nero che le fruttava solo 150 mila lire al mese. Svolgendo quest’attività, Graziella un giorno trovò un documento nella tasca di una camicia di proprietà di un certo “Ingegner Cannata”. Il documento rivelava che il vero nome dell’uomo era Gerlando Alberti junior, nipote latitante del boss Gerlando Alberti senior (assicurato alla giustizia anni prima dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa). Quest’informazione le costerà la vita.
Il 12 dicembre 1985, dopo aver finito di lavorare, Graziella andò come di consueto ad aspettare l’autobus che l’avrebbe condotta a casa. Ma nell’attesa successe qualcosa e quella sera la corriera arrivò a Saponara senza di lei. La madre, che la aspettava, si preoccupò; Graziella non era ragazza da fare ritardi.
Nessuno riuscì a trovarla, inizialmente si pensò ad una “fuitina”, ma l’ipotesi non resse, in quanto l’unica persona che poteva aver progetti con lei era in quel momento a casa con la famiglia e lei lì non c’era.
Testimoni affermarono che lei quella sera salì su un’auto sconosciuta piuttosto tranquillamente, quindi con qualcuno alla guida di sua conoscenza e di cui si fidava, cosa che parve ugualmente molto strana ai familiari, visto che si trattava di una cerchia ristretta di persone.
Due giorni dopo il corpo fu ritrovato a Forte Campone – vicino a Villafranca Tirrena – e riconosciuto dal fratello, Pietro Campagna. Aveva cinque ferite d’arma da fuoco, rivelatasi una lupara calibro 12 che sparò da non più di due metri di distanza dalla vittima. Le ferite erano sulla mano e sul braccio con cui probabilmente tentò di proteggersi, all’addome, alla spalla, alla testa, al petto.
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lunedì 10 dicembre 2012

10 Dicembre 1969
Giovanni Domé custode dello stabile in viale Lazio

Giovanni Domé, custode degli uffici del costruttore Moncada in viale Lazio è tra le vittime della strage.

La strage di viale Lazio, avvenuta a Palermo il 10 dicembre 1969, fu uno degli episodi più cruenti della cosiddetta prima guerra di mafia, che si scatenò durante gli anni sessanta.
Un commando composto dei corleonesi Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella (ucciso nello scontro a fuoco), e dei due soldati Damiano Caruso ed Emanuele D’Agostino, irruppe con addosso uniformi da agenti della Guardia di Finanza, negli uffici del costruttore Girolamo Moncada in Viale Lazio, a Palermo, covo del boss Michele Cavataio detto il Cobra, capo-famiglia dell’Acquasanta legato alle famiglie mafiose degli Stati Uniti. Cavataio, che si finse morto durante il fuoco corleonese, reagì cercando di colpire al viso Bernardo Provenzano, la pistola si inceppò e quest’ultimo gli fracassò il cranio con il calcio del fucile avendo terminato le cartucce prima di finirlo definitivamente con un colpo di pistola. Tale fu la ferocia tanto che Provenzano si meritò il soprannome di Binnu u’ tratturi.
Morirono il boss Cavataio e altri quattro uomini, fra i quali il custode del cantiere, completamente estraneo ai fatti. Rimasero feriti Angelo e Filippo Moncada, figli del costruttore Girolamo detto Mommo. Degli assalitori morì Calogero Bagarella.
La strage ebbe dunque sei morti e due feriti.
La morte di Cavataio aprì all’interno di Cosa Nostra una ridefinizione delle sfere di competenza delle varie famiglie mafiose, favorendo così la progressiva scalata dei corleonesi di Luciano Liggio verso la Cupola, ai danni delle famiglie palermitane (a distanza di dodici anni verranno eliminati dai corleonesi anche i boss Bontade e Inzerillo).
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sabato 8 dicembre 2012

8 Dicembre 1984
Pietro Busetta 62 anni, “inerme ed onesto cittadino reo soltanto di aver sposato la sorella di Tommaso Buscetta” (dall’ordinanza sentenza del maxiprocesso)

La vendetta della mafia torna a colpire Tommaso Buscetta, l' ex-boss dei due mondi che con le sue confessioni ha aperto un varco sugli affari e i misteri delle "famiglie" palermitane. Ieri sera poco prima delle venti un commando ha ucciso a Bagheria, a pochi chilometri dal capoluogo siciliano, Pietro Busetta, 62 anni, marito di Serafina Buscetta sorella di don Masino. I killer sono entrati in azione in via Roccaforte, accanto allo stadio comunale. Pietro Busetta, incensurato, era appena uscito insieme alla moglie dal grande negozio di articoli da regalo di sua proprietà, quando tre sicari lo hanno circondato. Un' esecuzione spietata e poi la fuga. Sembra che i killer abbiano ucciso con pistole di grosso calibro. PER gli inquirenti, corsi immediatamente sul luogo del delitto, non c' è altra spiegazione: "E' una vendetta trasversale". Colpendo il cognato di Buscetta si è voluto lanciare un messaggio preciso a Don Masino. Come dire: Chiudi la bocca, ritratta tutto, altrimenti completeremo lo sterminio della tua famiglia". L' ex-boss dei due mondi, rinchiuso in un luogo segreto del Lazio, ha già subito un autentico massacro dei suoi congiunti. In piena guerra di mafia (era il settembre 1982) furono inghiottiti dalla lupara bianca i suoi due figli. Nel dicembre successivo un commando di killer fece irruzione nella pizzeria New York Place uccidendo Giuseppe Genova, genero del super boss siculo-brasiliano, e due suoi cugini Onofrio e Antonio D' Amico. Tre giorni dopo l' ultima azione di sangue. I killer della mafia vincente sorpresero il fratello di don Masino, Vincenzo e il nipote Benni all' interno della fabbrica di vetro nella quale lavoravano. Li uccisero senza pietà. Tommaso Buscetta tentò una reazione, ma rilanciò con lucidità la sua sfida all' inizio dell' estate scorsa quando consegnò ai giudici palermitani Giovanni Falcone e Vincenzo Geraci una lunghissima confessione disegnando la geografia della mafia, definendo il ruolo di boss gregari e uomini d' onore e arrivando al terzo livello (per ultimi sono finiti in carcere i due potentissimi finanzieri Ignazio e Nino Salvo). Il risultato di quella preziosissima collaborazione è stato condensato in 366 mandati di cattura che hanno consentito a inquirenti e magistrati palermitani di far scattare il clamoroso blitz di San Michele del 29 settembre scorso e di chiarire i misteri su quattordici anni di delitti di mafia. La reazione delle cosche però non si è fatta attendere. Prima la strage di piazza Scaffa (otto morti per dimostrare la potenza di fuoco delle famiglie vincenti), poi una lenta e precisa strategia della "terra bruciata" fatta attorno ai pentiti. A cadere quasi contemporaneamente sotto il fuoco dei killer sono stati per primi Mario Coniglio e Salvatore Anselmo, rispettivamente fratello e "maestro" di Stefano Coniglio, uno degli uomini d' onore che aveva deciso di collaborare con la giustizia. Poi domenica scorsa l' agguato a Leoncavallo Vitale (morto ieri mattina) e i segnali minacciosi che si addensavano sempre più attorno a Buscetta. "C' è un importante detenuto in pericolo", aveva detto poche ore prima dell' agguato di Bagheria il presidente della commissione antimafia Abdon Alinovi. "Abbiamo informato subito il ministro dell' Interno per rafforzare le misure di protezione". Il nome di Buscetta non era stato fatto esplicitamente ma il riferimento era chiaro. "Sappiamo che una sorella di don Masino vive a Bagheria" aveva detto Aldo Rizzo dell' ufficio di presidenza dell' antimafia. "Mi domando se sono stati disposti i servizi necessari per garantirne l' incolumità". La risposta della mafia non si è fatta attendere.
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giovedì 6 dicembre 2012

6 Dicembre 2001
Carmelo Benvegna 56 anni, pensionato

Carmelo Benvegna, 56 anni di Taormina è stato ucciso a Calatabiano (CT) il 6 dicembre del 2001, all’ingresso del suo agrumeto. Un unico colpo con un fucile calibro 12. Era un commerciante in pensione che qualche anno fa aveva denunciato e fatto arrestare alcuni estorsori. Due anni prima avevano già tentato di ucciderlo.

martedì 4 dicembre 2012

4 Gennaio 1949
Francesco Gulino
Carlo Gulino 3 anni

Francesco Gulino e suo figlio Carlo Gulino di tre anni vennero uccisi il 4 gennaio del 1949.
4 Gennaio 1947
Accursio Miraglia 51 anni, sindacalista

(Sciacca, 2 gennaio 1896 – Sciacca, 4 gennaio 1947)
«Meglio morire in piedi, che vivere in ginocchio! », soleva dire Accursio Miraglia. Una frase presa in prestito dal romanzo di Ernest Hemingway «Per chi suona la campana», ma che lui ormai sentiva come sua. La ripeteva spesso alla moglie, alle sorelle e ai compagni del partito e del sindacato, ogni volta che gli agrari e i gabelloti mafiosi lo minacciavano o gli facevano arrivare l’invito a farsi i fatti propri. In quei primi anni del secondo dopoguerra, Miraglia era dirigente del Partito comunista e segretario della Camera del lavoro di Sciacca. Si era messo in testa di far applicare anche nel suo paese i decreti Gullo sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte o malcoltivate. E il 5 novembre 1945 aveva costituito la «Madre Terra», una cooperativa di centinaia di braccianti e contadini poveri, alla quale fece assegnare diversi ettari di buona terra. Un gravissimo affronto alla "sacra" proprietà privata, che, giorno dopo giorno, faceva imbestialire i latifondisti e i gabelloti mafiosi, che decisero di fargliela pagare.
Il 4 gennaio 1947, verso le nove e mezza di sera, Accursio Miraglia era appena uscito dai locali della sezione comunista per tornare a casa. A "scortarlo" c’erano quattro compagni: Felice Caracappa, Antonino La Monica, Tommaso Aquilino e Silvestro Interrante. Percorsero un tratto di strada insieme, poi Interrante e Caracappa si staccarono dal gruppo per far rientro nelle loro abitazioni. Gli altri due, invece, accompagnarono il dirigente contadino fino a 30-40 metri da casa sua, lo salutarono e ritornarono indietro. Ma passarono solo pochi secondi e il silenzio fu rotto da numerosi colpi di pistola. Capirono subito che i colpi erano diretti contro Miraglia. La Monica «ritornò indietro e vide un giovane, piuttosto esile, di media statura, con cappotto e berretto, che impugnava un’arma da fuoco lunga, dalla quale fece partire un’altra raffica di colpi. Lo sparatore era in mezzo alla strada, sotto una lampada accesa dell’illuminazione pubblica, e, dopo aver sparato, si allontanò di corsa verso l’uscita del paese. La stessa scena fu vista da Aquilino» […]Probabilmente, insieme a questi due uomini ce n’era un altro, che si allontanò di corsa dopo gli spari. Miraglia morì riverso sulla porta della propria abitazione, tra le braccia della giovane moglie russa, Tatiana Klimenko. Di corsa, erano arrivati La Monica e Aquilino. Poco dopo, arrivarono anche quattro carabinieri, attirati dagli spari. A 51 anni, Accursio Miraglia morì "in piedi", perché non si era voluto piegare alla mafia e agli agrari, perché non volle tradire i suoi contadini. E questo lo capirono bene a Sciacca, dove il dirigente sindacale era benvoluto ed amato dagli onesti. Non era il primo omicidio di mafia. Prima di lui, erano già caduti tanti altri capilega. Il delitto Miraglia, però, fece tanto scalpore in Sicilia e nell’intero Paese. A Sciacca arrivarono tutti i dirigenti sindacali e politici della sinistra, a cominciare dal segretario regionale del Pci Girolamo Li Causi e dal sottosegretario alla giustizia Giuseppe Montalbano. Il funerale non poté tenersi prima di sei giorni, perché erano tanti i cittadini che volevano tributargli l’ultimo saluto. La bara col corpo di Miraglia rimase scoperta tre giorni all’ospedale civico e tre giorni nel salone della Camera del lavoro. Infine, l’11 gennaio si svolsero i funerali, a cui partecipò l’intera popolazione. I preti non vollero che Miraglia fosse portato in chiesa, perché era un morto ammazzato e per giunta comunista. Ma le esequie civili furono lo stesso solenni ed imponenti. In Sicilia, gli operai sospesero il lavoro per dieci minuti. In Italia, per cinque. In tutte le fabbriche suonarono le sirene. Dalla Camera del lavoro al cimitero, la bara fu portata a spalla dai contadini. Era una giornata d’inverno, fredda ed uggiosa, ma non pioveva. Solo quando il corteo funebre arrivò davanti al portone d’ingresso del cimitero, cadde qualche goccia di pioggia, che bagnò la bara. «Un ti visir benidiciri l’omini, ma ti binidiciu Diu», esclamò un anziano contadino.
Fonte
4 Dicembre 1945
Giuseppe Puntarello segretario della sezione del partito comunista

Giuseppe Puntarello venne ucciso, per un errore di persona, il 5 dicembre 1945 a Ventimiglia Siculo (Pa). Era Segretario della sezione del Partito Comunista di Ventimiglia Siculo.

domenica 2 dicembre 2012

2 Dicembre 1984
Leonardo Vitale 43 anni, mafioso pentito

Leonardo Vitale (Palermo, 27 giugno 1941 – Palermo, 2 dicembre 1984) è stato un mafioso legato a Cosa Nostra ed è considerato il primo pentito. Non è strettamente una vittima di mafia, essendo stato lui pure mafioso. Però la sua storia è emblematica di un certo modo di concepire il fenomeno mafioso in quegli anni.
Vitale raccontò la storia della sua affiliazione a Cosa Nostra, gli omicidi e i delitti da lui commessi, nonché una serie di altri episodi che vedono coinvolti Riina, Vito Ciancimino e altri personaggi minori. Molte dichiarazioni di Vitale saranno confermate dai pentiti successivi, Buscetta in primis.
Non fu creduto, e fu condannato a una pena detentiva di cui scontò dieci anni in un manicomio criminale, visto che era stato dichiarato seminfermo di mente.
Riporto un brano dalla sentenza ordinanza del maxiprocesso, che parla di Vitale. Il brano completo elenca dettagliatamente tutte le sue dichiarazioni con i relativi riscontri e può essere trovato nel libro Mafia, l’atto d’accusa dei giudici di Palermo, a cura di Corrado Stajano (il grassetto è mio).

Il primo collaboratore di giustizia era stato, nell’ormai lontano 1973, Leonardo Vitale, un modesto «uomo d’onore» che, travagliato da una crisi di coscienza, si era presentato in questura ed aveva rivelato quanto a sua conoscenza sulla mafia e sui misfatti propri e altrui.
Oltre dieci anni dopo, Buscetta, Contorno ed altri avrebbero offerto una conferma pressoché integrale a quelle rivelazioni; ma nessuno, allora, seppe cogliere appieno l’importanza delle confessioni del Vitale e la mafia continuò ad agire indisturbata, rafforzandosi all’interno e crescendo in violenza ed in ferocia.[…]
Le confessioni del Vitale sortivano un effetto sconfortante: gran parte delle persone da lui accusate venivano prosciolte, mentre il Vitale stesso, dichiarato seminfermo di mente, era pressoché l’unico ad essere condannato. Tornato in libertà veniva ferocemente assassinato dopo pochi mesi, e precisamente il 2.12.1984.[…]
Le rivelazioni di Leonardo Vitale sono state in buona parte sottovalutate e passate nel dimenticatoio, benché sorrette da numerosi riscontri, e lo stesso Vitale è stato etichettato come «pazzo» (seminfermo di mente) da non prendere troppo sul serio.
Ma l’asserita malattia mentale che lo affliggeva, non comportando, come accertato dal perito, né allucinazioni, né deliri di persecuzione né altre gravi alterazioni psichiche, non escludeva la sua capacità di ricordare e di raccontare fatti di sua conoscenza. Si tratta quindi di valutarne l’attendibilità, che alla luce dei riscontri già allora esistenti e di quelli emersi successivamente soprattutto attraverso le dichiarazioni di Buscetta e di Contorno, appare indubbia.
Il Vitale, come si evince da un memoriale scritto di suo pugno, […] si era indotto a collaborare con la giustizia perché aveva subito una vera e propria crisi di coscienza per i delitti compiuti e si era rifugiato nella fede in Dio. […]
Certamente è possibile che questa sua crisi mistica sia effetto delle sue alterate condizioni psichiche: ma ciò non sposta di una virgola il giudizio sulle sue dichiarazioni.
Leonardo Vitale, scarcerato nel giugno 1984, è stato ucciso dopo pochi mesi (2 dicembre 1984), a Palermo a colpi di pistola, mentre tornava dalla Messa domenicale.
Non dovrebbero esservi dubbi circa i mandanti di tale efferato assassinio, specie se si considera che il delitto è stato consumato in un contesto in cui Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno ed altri «pentiti» avevano imboccato la strada della collaborazione con la giustizia.
[…]

A differenza della giustizia statuale, la mafia ha percepito l’importanza delle propalazioni di Leonardo Vitale e, nel momento ritenuto più opportuno, lo ha inesorabilmente punito per avere violato la legge dell’omertà.
È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita.

Mafia, l’atto d’accusa dei giudici di Palermo, a cura di Corrado Stajano