giovedì 31 gennaio 2013

1 Febbraio 1893
Emanuele Notarbartolo 59 anni, politico siciliano della destra storica

Il caso Notarbartolo è importante per comprendere sia la continuità delle dinamiche con cui lo Stato italiano ha affrontato il fenomeno mafioso nei suoi 150 anni di storia, sia il contesto in cui questo fenomeno si muove e prospera.
Un contesto fatto di corruzione, collusione, complicità e coperture reciproche tra mafia e una parte della politica.
Nel leggere la storia di questo primo delitto eccellente per mano mafiosa non possono non farsi paralleli con centinaia di situazioni attuali che abbiamo vissuto negli anni e che ho cercato in parte di ricordare in queste pagine.
La continuità dei reati commessi e dei sistemi utilizzati per coprirli è a un tempo impressionante e deprimente.
Impressionante perché appare come un continuum dalla matrice ben nota e sempre applicata da una parte del potere politico; deprimente proprio a causa di questa continuità, che rende evidente quando il fenomeno mafioso sia in qualche modo organico a un certo modo di intendere l’esercizio del potere in Italia.

Mi dilungherò un po’ su questo caso, spero abbiate la pazienza di leggere.

Nel link da cui ho preso quasi tutto il testo che segue è presente anche un’ampia premessa che inserisce l’omicidio Notarbartolo nel più ampio contesto degli scandali finanziari che colpirono il giovane Stato italiano, a partire da quello della Banca di Roma. Vi consiglio di leggerlo.
Le premesse
Il primo febbraio 1893, su un treno proveniente da Messina, in una galleria nel tratto fra Termini Imerese e Trabia, veniva brutalmente ucciso con ventisette coltellate Emanuele Notarbartolo.

Per cercare di capire questo fatto di sangue che, per la prima volta, aveva visto come protagonisti un uomo politico e la mafia, è necessario chiedersi chi fosse Notarbartolo e quale fosse il suo ruolo nel contesto storico politico siciliano e italiano.

Notarbartolo era un politico siciliano, della destra storica, uomo ritenuto eccellente per onestà e abilità amministrativa. Marchese di San Giovanni, discendente dei duchi di Villarosa, Emanuele Notarbartolo fu sindaco di Palermo dal 1873 al 1876 e durante il suo mandato trasformò la città in un grande cantiere completando il mercato degli Aragonesi, la copertura del Politeama, iniziando l’ammodernamento della rete viaria, collegando la stazione centrale con il porto, e posando la prima pietra per la realizzazione del teatro Massimo. Ma soprattutto durante il suo mandato e nonostante il fermento edilizio, combatté il fenomeno della corruzione e risanò le finanze comunali, attirandosi per questo molti nemici i quali cercarono in ogni modo di isolarlo. Alla fine del suo mandato, nel 1876, Notarbartolo viene nominato direttore del Banco di Sicilia, incarico che manterrà sino al 1890, dimostrando anche in questo ruolo onestà ed integrità morale e grandi competenze amministrative .

La situazione del Banco di Sicilia all’arrivo di Notarbartolo era disastrosa e l’istituto si trovava sull’orlo del fallimento per via di speculazioni azzardate e un’amministrazione spericolata, che aveva permesso l’utilizzo agli speculatori di un capitale di otto milioni e ottocento mila lire e di una riserva aurea di tredici milioni. Per risanare l’istituto, Notarbartolo introdusse un regime di austerità, invitando i direttori delle sedi a far rientrare i clienti scoperti e a consentire crediti solo ai titoli protetti da solide garanzie. Non solo, ma permise di denunciare i nomi degli speculatori all’allora Ministro dell’Agricoltura Miceli. Allo stesso tempo apportò modifiche allo statuto dell’istituto, in modo da allontanare le componenti politiche in favore di quelle essenzialmente commerciali. Questo inasprì ancora di più gli animi dei suoi nemici e soprattutto di don Raffaele Palizzolo. Chi era costui? Era un pezzo da novanta e un membro del Consiglio d'amministrazione del Banco di Sicilia, con cui il marchese Notarbartolo si era più volte scontrato in passato, per aver cercato di ostacolarne le spregiudicate operazioni finanziarie. Palizzolo, soprannominato “U cignu” (il cigno) era un politico ed uomo di spicco: consigliere comunale e provinciale, amministratore fiduciario di enti di beneficenza e di banche, direttore del fondo di assicurazione contro le malattie per la Marina Mercantile, capo della Sovrintendenza dell'amministrazione di un manicomio, nonché deputato da sempre fedele sostenitore di governi di qualsiasi raggruppamento. Passando indifferentemente da destra a sinistra come ben si conviene a chi ambisce al potere personale. Così facendo, da ricco proprietario ed affittuario di terre, si era ancor più arricchito ed aveva messo le mani in pasta in qualsiasi affare. Palizzolo era al tempo stesso amico di mafiosi e banditi, di poliziotti, magistrati e personaggi politici di grosso calibro. Come un antico senatore romano, era solito ricevere ogni mattina nella sua camera da letto tutti coloro che avessero richieste da fargli.
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L’omicidio
Nella tarda mattinata del 1° Febbraio 1893, dopo due giorni di viaggio a cavallo da Mendolilla [la tenuta di famiglia], Emanuele Notarbartolo salì alla stazione di Sciara in uno scompartimento di prima classe per Palermo. Lo scompartimento era vuoto. A quel punto poté finalmente rilassarsi. Durante i dieci anni successivi al sequestro [era stato sequestrato da dei banditi nel 1882, ndr] era sempre stato prudentissimo (in campagna non si spostava mai senza un’arma), ma non s’era mai sentito di banditi che avessero organizzato un assalto a un treno; scaricò quindi il fucile e lo sistemò con cura nella reticella portabagagli. E sopra il fucile gettò l’impermeabile, il cappello e la cartucciera. Infine si sedette in modo da guardare fuori dal finestrino, in attesa del sonno, o di veder comparire il mar Tirreno, che l’oscurità andava gradatamente avviluppando, dopo la svolta del treno verso ovest. Il viaggio sarebbe poi proseguito lungo la costa.
Notarbartolo rimase solo fino alla stazione successiva, Termini Imerese. Qui fu visto rannicchiato in un angolo dello scompartimento in uno stato di dormiveglia, come se la fermata l’avesse scosso dal sonno. Il treno lasciò Termini Imerese alle diciotto e ventitré, con un ritardo di tredici minuti. Poco prima che si rimettesse in movimento, erano saliti due uomini in soprabito scuro e bombetta.
Il vicecapostazione diede il segnale di partenza. Mentre le carrozze cominciarono a muoversi, frugò con lo sguardo gli scompartimenti di prima classe: sapeva che in uno di essi viaggiava un amico, un ingegnere ferroviario. Ma la sua attenzione fu attratta da un’altra persona, in piedi nello scompartimento che precedeva quello dell’amico. Era un uomo ben vestito, tarchiato e vigoroso. Sotto il cappello si scorgeva una faccia larga e pallida, sopracciglia folte, occhi scuri e baffi neri. L’aspetto e il portamento dell’uomo aveva qualcosa di sinistro che colpì il vicecapostazione, in quale avrebbe detto in seguito che il passeggero sembrava immerso in pensieri cupi.
L’autopsia e le condizioni dello scompartimento all’arrivo del treno a Palermo, permisero di ricostruire gli ultimi terribili momenti di Emanuele Notarbartolo. Quando il treno entrò nella galleria tra Termini Imerese e Trabia, fu aggredito da due uomini, uno dei quali brandiva un pugnale triangolare e l’altro un coltello a lama larga a doppio taglio, col manico d’osso. Bruscamente risvegliato dal suo assopimento, Notarbartolo si dibatté nel tentativo di sottrarsi a balzi alla gragnola dei colpi. In qualche caso le lame lo mancarono, producendo tagli profondi nel sedile e nel poggiatesta. Prossimo a compiere cinquantanove anni, il marchese era tuttavia un uomo grande e grosso, un ex militare. Mentre il frastuono prodotto dal treno nella galleria copriva le sue grida, riuscì ad afferrare uno dei coltelli. Quindi si lanciò disperatamente verso il fucile nella reticella sopra la sua testa. Una lama gli penetrò nell’inguine. La mano e la reticella furono entrambe squarciate dai colpi. Una palma insanguinata lasciò la sua impronta sul vetro del finestrino. A questo punto uno dei killer tenne fermo Notarbartolo da dietro, mentre l’altro gli piantava quattro profonde coltellate nel petto. Le pugnalate furono in tutto ventisette.
John Dickie, Cosa Nostra, storia della mafia siciliana

Le prime indagini
Le prime indagini si concentrarono subito sul conduttore del treno, Giuseppe Carollo e su un certo Giuseppe Fontana, killer professionista e capo della cosca di Villabate. In seguito alla testimonianza di un carabiniere, che dichiarò di essere venuto a conoscenza di un brindisi tenuto da un gruppo di mafiosi in una tenuta di proprietà dell’on. Palizzolo per festeggiare la morte di Notarbartolo, si sospettò subito che il mandante dell'omicidio fosse il deputato Raffaele Palizzolo che, come membro del consiglio di amministrazione del Banco di Sicilia, si era ripetutamente scontrato con Notarbartolo. Lo stesso Notarbartolo, inoltre, sospettava fondatamente che fosse stato lui il mandante del suo sequestro, avvenuto nel 1882.

I numerosi indizi raccolti sugli esecutori materiali dell'omicidio, tutti collegati a Palizzolo, non furono però ritenuti sufficienti dal Tribunale di Palermo, che emise una sentenza di assoluzione nei confronti di tutti gli imputati, senza sentire neppure come teste il Palizzolo e, grazie alle molteplici protezioni di cui godeva il sospetto, il caso fu insabbiato.

Qualche tempo dopo un detenuto, Augusto Bartolani, dichiarò sotto giuramento che responsabili del delitto Notarbartolo erano i ferrovieri Carollo e Fontana. Tali dichiarazioni obbligarono la magistratura di Palermo a riaprire il caso, ma anche stavolta il Fontana fu assolto per insufficienza di prove, mentre Carollo e un certo Baruffi, anch’egli ferroviere, furono rinviati a giudizio. Il figlio della vittima, Leopoldo, che si era sempre battuto per ottenere giustizia, riuscì a mobilitare l’opinione pubblica, coadiuvato dai deputati Colajanni e De Felice Giuffrida, e, costituendosi parte civile, ottenne il rinvio del processo a Milano per legittima suspicione.
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Appare la parola “mafia”
Leopoldo Notarbartolo denunciò in tribunale la corruzione del Banco di Sicilia e i suoi sospetti su Raffaele Palizzolo, con cui il padre si era più volte scontrato. Le carte processuali dimostrano senza ombra di dubbio che la mano omicida fu mafiosa e che il Palizzolo aveva stretti legami con la malavita palermitana e trapanese, a favore della quale egli si era impegnato più volte per ottenere scarcerazioni e riduzioni delle pene, in cambio di voti. Il processo di Milano, inoltre, evidenziò un sistema di corruzione generale che coinvolgeva le istituzioni dello Stato. Divennero in tal senso imputati la mafia e le istituzioni statali presenti in Sicilia. Fu questa la prima volta che l’opinione pubblica sentì parlare di “mafia” come organizzazione malavitosa associata al territorio siciliano.

Il processo di Milano si concluse con la condanna degli autori materiali del delitto. Gli eventuali mandanti non furono neanche presi in considerazione.

Il vero processo a carico di Palizzolo si poté svolgere dinnanzi alla Corte d’Assise di Bologna nell’autunno 1901, dopo che l’anno precedente era giunta l’autorizzazione a procedere da parte del Parlamento nazionale. Palizzolo era diventato “l’onorevole padrino”, il simbolo dei connubi fra mafia e politica. Dalla Corte bolognese Palizzolo fu condannato, insieme a Fontana, a trenta anni di carcere.
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Il comitato pro Sicilia
Intanto il clima di generale indignazione e di superficiale classificazione nei confronti della Sicilia, che si era instaurato nel nord Italia durante i processi portò all’esplosione di reazioni di protesta da parte dei siciliani, tra i quali anche intellettuali come Pitrè e De Roberto. Essi, infatti, costituirono un Comitato pro-Sicilia per riscattare l’isola da tali infamie. Renda (Storia della mafia, pag. 163) scrive: Il “Comitato pro Sicilia” non ebbe però gli sviluppi che i suoi promotori certamente si aspettavano. Sul piano organizzativo si estese in tutta l’isola, costituendo nelle varie province ben 60 sezioni e raccogliendo 200 mila adesioni. Sul piano politico il suo principale successo fu, invece, solo l’annullamento della condanna del Palizzolo".

Il [membri del] comitato Pro-Sicilia non aveva[no] in realtà lo scopo dell’annullamento della condanna del Palizzolo ma,[…] volevano riscattare la Sicilia da quel marchio di mafiosità che già fin dal processo di Milano era stato attribuito al nostro territorio, volevano evitare che il termine “mafia” potesse connotare tutti i siciliani, anche i siciliani onesti. Tali proteste, unite all’interessamento da parte di Cosa Nostra della vicenda Palizzolo, portarono alla inattivazione della sentenza bolognese. Sei mesi dopo infatti la Corte di Cassazione annullò la sentenza bolognese per un vizio di forma, fissando un nuovo processo presso la Corte di assise di Firenze. Qui il nuovo processo cominciò il 5 Settembre 1903, oltre dieci anni dopo l’assassinio Notarbartolo e sentenziò l’assoluzione di Don Raffaele e del coimputato Fontana per insufficienza di prove. Raffaele Palizzolo ritornò a Palermo su una nave, accolto trionfalmente, riprese le sue vecchie abitudini con le consuete udienze nella camera da letto e fu nuovamente candidato al parlamento nazionale alle elezioni del Novembre 1905. Ma fu il canto del cigno. Palizzolo non venne rieletto ed uscì per sempre di scena. Giuseppe Fontana, l’altro imputato, emigrò in America dove si arruolò nelle fila della nascente Cosa Nostra.[…]

Gli sviluppi e la conclusione del caso Notarbartolo sono ancora oggi esemplari di cosa siano gli equilibri politici che bisogna mantenere per curare gli interessi economici ed il potere in senso lato. Ne “Il ritorno del Principe”, Saverio Lodato e Roberto Scarpinato scrivono “un eventuale condanna definitiva di Palizzolo era, dunque, incompatibile con gli equilibri politici esistenti? Direi proprio di sì.” E ancora: “L’assoluzione del Palizzolo non era un’eccezione, ma un caso paradigmatico di quella che era la normalità” invece “La consegna di mafiosi dell’ala militare, (il Fontana, esecutore materiale del delitto) mediante patteggiamento all’interno della classe dirigente con gli esponenti dell’alta mafia è sempre rientrata, nelle tradizioni del sistema mafioso” (pag 207).

Depretis, alcuni anni prima, nell’ottica di questi equilibri politici, per mantenere un assetto di potere “che ripartisce le potestà sovrane dello Stato tra borghesia industriale del Nord e classe dirigente meridionale” (Il ritorno del Principe pag. 202), aveva rifiutato di emanare il decreto ministeriale necessario a dare esecuzione all’articolo 7 della legge di Pubblica Sicurezza, con il quale si disponeva che per esercitare la funzione di guardia campestre occorreva avere la fedina penale pulita. Una norma necessaria per contrastare la mafia. A questo proposito scrive Renda (Storia della mafia, pag 125): “Esisteva la legge , ma si faceva in modo che per legge non fosse impedito che il mafioso fosse campiere, curatolo o guardiano”. Caso emblematico del prevalere della logica degli equilibri politici era stato anche quello del procuratore generale Tajani, del mandato di cattura da lui fatto spiccare contro il questore Albanese e degli ostacoli e mancato sostegno che gli furono opposti dalle autorità governative locali e dallo stesso Ministero, delle sue dimissioni dalla magistratura in senso di protesta. (vedi ai nostri giorni De Magistris, Forleo, etc!) Giuseppina Ficarra
Appena ieri, nel 2008, viene respinta a larghissima maggioranza la proposta di impedire che facciano parte della Commissione Parlamentare Antimafia soggetti inquisiti per mafia e di detta Commissione entrarono a fare parte soggetti condannati per fatti di corruzione con sentenza definitiva. (Il ritorno del Principe pag. 48)
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