domenica 27 maggio 2012

La mafia e la stagione delle stragi

La mafia e la stagione delle stragi
di Antonio Ingroia
L’Unità, 27 Settembre 2007

È un dato ormai assodato che lo stragismo è una strategia ricorrente nella storia della mafia siciliana, che se ne è servita soprattutto nei momenti di crisi, a volte interni all'organizzazione, ma più spesso di crisi del sistema di potere tutelato dalla violenza mafiosa. Ne fu espressione, nel secondo dopoguerra, la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947, reazione alla crisi del sistema latifondista sotto la pressione delle lotte contadine per le terre e della battaglia per la riforma agraria, istanze di giustizia sociale che andavano respinte e represse nel sangue con un atto brutale di riaffermazione del potere mafioso e della sua violenza intimidatrice: una strage indiscriminata come fu quella di Portella. Ma la strategia stragista del biennio terribilis '92-'93 ha caratteristiche originali rispetto al passato, quasi uniche.

Innanzitutto, per la successione cronologica, così ravvicinata fra attentati di così ampia portata. E perciò va ricordata quella tremenda successione. La stagione ha il suo prologo nell'omicidio dell'on. Salvo Lima, chiacchierato uomo politico, eurodeputato democristiano e capo della corrente andreottiana in Sicilia, che il 12 marzo 1992, alla vigilia delle elezioni politiche, viene assassinato a Palermo. Il 23 maggio viene portata ad esecuzione la strage di Capaci nella quale perdono la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Il 19 luglio viene eseguita la strage di via D'Amelio nella quale vengono uccisi il Procuratore Aggiunto presso la Procura di Palermo, Paolo Borsellino, e gli agenti della sua scorta. Il 17 settembre viene assassinato da un commando di killer Ignazio Salvo, tradizionale interfaccia di Cosa Nostra con il mondo della politica, in particolare con l'on. Salvo Lima, già ucciso sei mesi prima. A questo punto, la strategia si estende nel resto del continente, con una nuova stagione di attentati che si apre il 14 maggio 1993 con l'esplosione a Roma, in via Fauro, di un'autobomba destinata a colpire il conduttore televisivo Maurizio Costanzo. Il 27 dello stesso mese, a Firenze, un furgoncino imbottito di esplosivo salta in aria in via dei Georgofili: cinque morti, 29 feriti e danni alla celebre Galleria degli Uffizi. A due mesi esatti di distanza, a Milano, un'altra autobomba, in via Palestro, miete cinque vittime e pochi minuti dopo, in una giornata di fuoco, a mezzanotte, altre due autobombe esplodono a Roma, in Piazza San Giovanni in Laterano, sede del Vicariato cattolico, e davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro: dieci feriti.

Peraltro, per avere un quadro globale della gravità della situazione che si era venuta a determinare per l'ordine pubblico e democratico, va considerato che la strategia prevedeva l'attuazione di altri progetti delittuosi, scoperti solo successivamente, e che non furono portati ad esecuzione solo per circostanze fortuite. In particolare, nel settembre 1992, dopo la strage di via D'Amelio, Cosa Nostra aveva progettato di uccidere il magistrato Pietro Grasso, già giudice a latere della Corte d'Assise che emise la sentenza di condanna di primo grado del maxiprocesso. Nel medesimo periodo, Cosa Nostra aveva deciso di uccidere anche Claudio Martelli, allora Ministro di Grazia e Giustizia, così come altri uomini politici (fra cui l'on. Calogero Mannino, l'on. Carlo Vizzini, l'on. Claudio Fava) e funzionari di polizia come Arnaldo La Barbera e Calogero Germanà. Soltanto l'attentato di quest'ultimo venne posto in esecuzione, ma il dirigente del commissariato di Mazara del Vallo grazie alla sua pronta reazione sfuggì all'agguato mafioso effettivamente tesogli il 14 settembre 1992. Al culmine della strategia stragista del '93, sul finire del 1993, e quindi in epoca immediatamente successiva agli altri attentati posti in essere nel continente (Roma, Firenze e Milano), era stata organizzata una strage di proporzioni immani per fare saltare in aria alcuni pullman dei carabinieri in servizio a Roma allo stadio Olimpico in una delle tante domeniche di calcio particolarmente affollate, attentato fallito soltanto per un guasto tecnico al telecomando che avrebbe dovuto innescare l'ordigno.

Questa è l'impressionante sequela di attentati in rapida successione ed espansione, fino all'improvvisa battuta d'arresto della fallita strage dell'Olimpico, poi mai più eseguita per ragioni non del tutto chiarite. Una serie impressionante e senza precedenti, così come senza precedenti nella storia della mafia è anche la scelta degli obiettivi degli attentati: specie nella seconda fase della strategia, quella estesa al continente, nel momento in cui si passa dagli attentati alle persone, nemici ed ex-alleati, agli attentati alle cose, ai beni artistici e monumentali, scelta del tutto inusuale ed avulsa dalla tradizione di Cosa Nostra.(...)

Quello che poi è accaduto è cronaca e attualità più che storia. Il delirio di onnipotenza dei Corleonesi viene definitivamente accantonato e la mafia torna nei ranghi e nei confini della tradizione. Provenzano comprende bene lo «spirito dei tempi» e adegua le strategie mafiose, attuando il «traghettamento» dalla mafia delle stragi alla mafia degli affari. Il che consente all'organizzazione di recuperare consenso sul territorio, rapporti con la politica locale e convivenza con il quadro politico ed economico nazionale.

Il traghettamento alla mafia finanziaria comporta la stabilizzazione dei rapporti con la politica ed i potentati locali per il più efficiente drenaggio delle risorse pubbliche, e il consolidamento dei rapporti instauratisi negli anni della trattativa con spezzoni significativi del quadro politico nazionale per la realizzazione di una politica di convivenza, copertura e agevolazione, che ha il suo definitivo completamento nel processo di inserimento della mafia finanziaria nel fenomeno più ampio della globalizzazione economica, ove diventa più facile la reciproca integrazione fra economia legale ed economia illegale. (...)

Nel frattempo, però, i mafiosi, evidentemente comprendendo che il ricorso alla violenza rivolta verso l'alto aveva avuto effetti boomerang, sono passati dallo stragismo all'inabissamento e si è così aperta l'accennata stagione della tregua.
Sicché, una volta cessati i grandi delitti e le stragi, si è subito registrato un nuovo calo di tensione nel mondo politico-istituzionale, che ha avuto per effetto la profonda revisione della legislazione d'emergenza sia in materia processuale sia nella disciplina del fenomeno dei collaboratori, che ha decisamente indebolito l'efficienza dello strumentario antimafia a disposizione della magistratura. Con l'effetto che anche la verità su quella stagione stragista si è allontanata, perché quei passi indietro, quella profonda revisione degli strumenti a disposizione dei magistrati intervennero proprio mentre la magistratura sembrava alle soglie della verità su quella torbida ed oscura stagione, così come - peraltro - era già avvenuto a Falcone e Borsellino, rendendo tutto più difficile. Su quella stagione sembra gravare una congiura del silenzio, sintomo di una palese remora a fare i conti con la parte più oscura ed imbarazzante della storia della Repubblica.

La c.d. Seconda Repubblica ha i propri pilastri affondati nel sangue di quella stagione stragista, è lì che ha edificato le proprie fondamenta, sul sangue versato da tanti uomini dello Stato e cittadini comuni. Dimenticarne il sacrificio sarebbe condannarci ad un futuro meno libero e consapevole. Purtroppo è proprio ciò che è già accaduto alle origini della Prima Repubblica, alle origini di questa democrazia, nell'immediato dopoguerra, contrassegnato dal sangue di altri innocenti uccisi in un'altra strage di mafia, quella di Portella della Ginestra, rimasta anch'essa con zone d'ombra mai chiarite. Anche in quel caso la parte oscura è quella dei patti inconfessabili, della dialettica fra Stato e mafia.

Fin quando ciascuno, per la propria parte di responsabilità, non farà di tutto perché la verità, tutta la verità venga a galla, la democrazia italiana non potrà mai diventare una democrazia matura perché resterà ostaggio di quei poteri criminali che ne hanno condizionato le origini e la storia.

la strage di via dei Gergofili

27 Maggio 1993 ore 1:04 Strage di via dei Georgofili
Caterina Nencioni 50 giorni
Nadia Nencioni 9 anni
Fabrizio Nencioni 39 anni
Angela Fiume 36 anni, custode dell’Accademia dei Georgofili
Dario Capolicchio 22 anni, studente di architettura

Nadia Nencioni non aveva ancora nove anni. Sua sorella Caterina cinquanta giorni. La bomba di via dei Georgofili le seppellì sotto montagne di macerie con il padre Fabrizio e la mamma Angela, mentre il giovane studente di architettura Dario Capolicchio morì carbonizzato nel rogo del suo appartamento.
Alle ore 1,04 del 27 Maggio 1993, in via dei Georgofili, nel centro di Firenze, esplode un Fiat Fiorino. Crolla la Torre delle Pulci – dove ha sede l’Accademia dei Georgofili – e muoiono sul colpo i quattro componenti di una famiglia che vi abitava, fra i quali due bambine. I vicini palazzi storici vengono sventrati e nell’incendio di un palazzo antistante la Torre delle Pulci perde la vita lo studente Dario Capolicchio.
Il bilancio finale parla di 48 persone più o mano gravemente ferite. Ma gravi perdite riporta anche il patrimonio artistico: risultano danneggiati anche la Galleria degli Uffizi, Palazzo Vecchio, la Chiesa dei Santi Stefano e Cecilia al Ponte Vecchio e l’Istituto e Museo di Storia della Scienza.
Numerose opere d’arte conservate in quegli edifici vengono distrutte o danneggiate: fra di esse opere di Giotto, Van Der Weyden, Sebastiano del Piombo, Rubens, Bernini, Reni, Gaddi, Vasari, Tiziano, oltre a sculture e reperti di significativo valore storico.

[La] strage di Firenze, […]ha un antefatto inquietante il 5 novembre 1992, con la collocazione nel giardino dei Boboli (all'interno di Palazzo Pitti) di un proiettile di artiglieria risalente alla seconda guerra mondiale. Un ordigno inoffensivo, ma dal chiaro valore simbolico, fatto ritrovare ai piedi della statua del magistrato Marcus Cautius. Fu il catanese Santo Mazzei a portare il proiettile nel giardino, rivendicando l'azione (un chiaro avvertimento) con una telefonata all'ANSA. Passano pochi mesi e un Fiat Fiorino trasformato in autobomba (circa 250 kg di miscela esplosiva) deflagra all'1,04 del 27 maggio 1993 in Via dei Georgofili. Un impatto devastante, che provoca 5 morti, una cinquantina di feriti, molti sfollati dalle abitazioni circostanti (intaccate e rese pericolanti dall'esplosione) e gravi danni ad edifici storico/artistici, fra cui la celebre Galleria degli Uffizi. Le prime indagini sono efficienti: si scopre la provenienza della vettura (rubata a Firenze pochi giorni prima e trasformata in autobomba a Prato), e si individua in Cosa Nostra regia ed esecuzione della strage. La mafia ordinò e realizzò la strage, nell'ambito di una strategia che voleva realizzare una pressione sulle Istituzioni, in risposta ad un'offensiva che lo Stato aveva lanciato sul piano giudiziario contro la mafia stessa.
Chiudono la storia processuale, sanciti in via definitiva dalla Cassazione il 6 maggio 2002, numerosi ergastoli e pesanti condanne. Fra i condannati figurano i nomi maggiormente noti della mafia: Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano, Totò Riina e altri ancora. Le dure condanne verso i vertici di Cosa Nostra sono un risultato sicuramente notevole, ma purtroppo incompleto. I magistrati titolari dell'inchiesta (Gabriele Chelazzi e Giuseppe Nicolosi) palesarono fin dall'inizio delle indagini dubbi su una gestione in totale autonomia da parte di Cosa Nostra. Entità esterne ordinarono (o perlomeno collaborarono, coprirono, o finsero di non vedere) la strage di Firenze. Ma su queste entità esterne, su queste connivenze politiche con Cosa Nostra, non si è mai fatta chiarezza.

Fonte

 
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i fasci siciliani

Per capire meglio il quadro in cui si inserisce l'omicidio di Milisenna, vi racconto un po’ di storia dell’organizzazione della Sicilia.

Oltre cento anni fa (nel 1893) nelle campagne e nelle città di Sicilia, contadini, artigiani, intellettuali, ma soprattutto donne e uomini di ogni età, cominciarono ad unirsi nei Fasci dei Lavoratori, nel tentativo di sconfiggere la rassegnazione, di sfidare la mafia dei gabelloti ed il potere dello Stato che affamava la povera gente lavoratrice. […]
I Fasci siciliani furono tragicamente repressi dai mafiosi locali e dal governo nazionale. Si contarono più di cento morti, diverse centinaia i feriti e oltre tremila cinquecento rinchiusi nelle patrie galere. Per comprendere perché i fasci ebbero una tale diffusione nei centri rurali basta considerare le condizioni in cui versava, a trent'anni di distanza dalla forzata Unità, la classe contadina. In Sicilia giunse in ritardo, anche rispetto al Mezzogiorno continentale, la promulgazione delle leggi eversive della feudalità e, quando giunsero, queste leggi non vennero applicate per molto tempo. Benché i feudi fossero stati trasformati in allodi, cioè in proprietà private, non ci fu la formazione di una classe di piccoli e medi proprietari. Le terre vendute dai baroni in dissesto finanziario finirono per ingrandire ulteriormente i latifondi di altri ex-feudatari e di gabelloti arricchiti. Il latifondo, quindi, continuava a caratterizzare l'agricoltura e la struttura sociale siciliane. Inoltre, le condizioni dei contadini erano peggiorate per la perdita, in seguito all’eversione della feudalità, dei diritti comuni e degli usi civici.
La situazione non mutò, anzi s'è possibile, peggiorò dopo la forzata unità d'Italia: Infatti, "la censuazione dei demani pubblici e dei beni ex-ecclesiastici non intaccò minimamente il latifondo" (M. Ganci, 1977), al contrario, contribuì a rafforzarlo poiché i terreni, concessi in enfiteusi o venduti, furono in massima parte accaparrati dai grandi proprietari terrieri e dai gabelloti.
La figura del gabelloto era nata alla fine del XIX secolo in seguito alla tendenza dell'aristocrazia siciliana di trasferirsi nella città di Palermo, cedendo le terre dell'interno, dietro pagamento di una gabella, a degli affittuari che vennero, per questo, chiamati gabelloti. Il mercato delle gabelle, nella Sicilia centro-occidentale, era in gran parte controllato e gestito, da organizzazioni mafiose e molti gabelloti, erano affiliati a queste organizzazioni, così come lo erano i "soprastanti", uomini di fiducia dei gabelloti, ed i "campieri", i quali costituivano una sorta di polizia privata del feudo. I gabelloti, a loro volta, subaffittavano le terre ai contadini, ad un canone di gran lunga superiore alla gabella che erano tenuti a pagare ai proprietari. Essi speculavano sullo stato di bisogno dei "villani"; inoltre, spalleggiati dai campieri e dai soprastanti, ricorrevano alla violenza per tenere assoggettati i contadini e per far desistere i proprietari da eventuali aumenti degli affitti. Fu con questi sistemi che i gabelloti riuscirono ad accumulare il denaro che permise loro di acquistare le terre degli ex-feudatari e di partecipare alle aste dei beni ecclesiastici, impedendo di fatto la redistribuzione delle terre. Fu con questi sistemi che i gabelloti riuscirono ad accumulare il denaro che permise loro di acquistare le terre degli ex-feudatari e di partecipare alle aste dei beni ecclesiastici, impedendo di fatto la redistribuzione delle terre. […]
Trent'anni dopo l'Unità d'Italia, e cioè nel periodo in cui cominciarono a sorgere i primi Fasci dei lavoratori, i rapporti sociali e di lavoro nel latifondo erano ancora basati sulle seguenti classi: i grandi proprietari terrieri; i gabelloti; i borghesi; i coloni; ed i giornalieri agricoli. I borghesi erano i piccoli e medi proprietari, cioè coloro che, in qualche modo, erano riusciti ad acquistare qualche ettaro di terra, in seguito al processo di vendita dei beni della Chiesa. Le condizioni dei borghesi erano difficili per via delle numerose tasse che li costringeva a ricorrere a prestiti usurari. I piccoli proprietari finivano pertanto col prendere a mezzadria altri terreni ed a dipendere, anch'essi, dall'economia del latifondo. La maggior parte dei grandi proprietari, come abbiamo già detto, preferiva cedere la propria terra, ai gabelloti. Costoro la subaffittavano ai coloni, sottoponendoli a contratti iniqui ed angarici. Ipatti colonici più diffusi, alla fine dell'Ottocento, nella Sicilia del latifondo erano la mezzadria, o metaterìa, ed il terratico. Con la mezzadria il proprietario o il gabelloto metteva a disposizione del colono la terra e anticipava le sementi, mentre il colono era tenuto a fare tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva ripartito con vari sistemi. Nonostante le diverse varianti, alla base del contratto di mezzadria c'era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario o, più spesso, del gabelloto. Il contadino dell'interno, e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, era infatti indebitato in permanenza col gabelloto. Inoltre il contratto era verbale, cosa che dava adito ad abusi da parte del gabelloto. Della sua quota, il mezzadro doveva cederne una parte che il gabelloto distribuiva tra i campieri. Questi donativi erano in realtà tributi che il contadino pagava in cambio di protezione. Il terratico era, per il contadino, ancora più pesante e svantaggioso di quello di mezzadria. Mentre in quest'ultimo contratto il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva corrispondere al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dalla buona riuscita del raccolto.[…] Il terratico fu imposto sempre più diffusamente nel corso del XIX secolo, in seguito alla liberalizzazione della proprietà dai vincoli feudali, e all'instaurarsi di una certa concorrenza tra i nuovi proprietari o tra i nuovi possessori. […]Infine c'erano i braccianti, la classe la più numerosa dei contadini siciliani, i più poveri che non possedevano nulla e venivano impiegati nei periodi dell'anno dedicati alla semina ed alla raccolta del grano. I salari erano bassissimi in quanto, a causa del sistema della gabella e del subaffitto, spesso coloro che li pagavano erano anch'essi poveri. […]

Dal 1944 e nell’immediato dopoguerra i sindacalisti e i membri dei partiti di sinistra si impegnarono nella lotta al fianco dei contadini, questa lotta portò fra le loro file una scia impressionante di morti, di cui Santi Milisenna è un rappresentante.

Poco tempo dopo la sua morte, per la precisione il 16 Settembre 1944, Girolamo li Causi, segretario del partito comunista siciliano, giunse a Villalba, in provincia di Caltanisetta, per tenervi un comizio.
in Sicilia Li Causi aveva lanciato l’offensiva per la libertà e la democrazia. […]Nell’isola, i nemici erano gli agrari e i mafiosi, sfruttatori dei contadini poveri. E Villalba, nel cuore della Sicilia interna, non era un paese come tutti altri, ma «la patria» del potente capomafia don Calogero Vizzini. Giunto in piazza Duomo, dove avrebbe dovuto parlare ai contadini, Li Causi la trovò quasi vuota e presidiata da mafiosi appoggiati ai muri o raggruppati davanti la sezione della Democrazia cristiana, il cui segretario era Beniamino Farina, sindaco del paese e nipote di «don» Calò. L’anziano capomafia aveva fatto sapere che Li Causi poteva benissimo tenere il suo comizio, «purché non si toccassero gli argomenti della terra, del feudo e della mafia, purché, soprattutto, nessuno dei contadini venisse in piazza ad ascoltarlo». E, per verificare che il leader comunista rispettasse «i patti», don Calò si fece trovare «in mezzo alla piazza, con un bastone in mano», mentre i contadini, intimoriti, «restavano fuori, lontani, nelle loro strade, dietro le finestre o sulle porte». Ovviamente, era impensabile che Li Causi accettasse simili imposizioni. Ed infatti, egli sottolineò subito «la funzione parassitaria del gabelloto, sfruttatore dei contadini, con un linguaggio che sembrava scaturito dalla bocca stessa della famiglia contadina [...]», avrebbe scritto in degli appunti autobiografici. E la reazione dei mafiosi non si fece attendere. Cominciarono in modo continuo e provocatorio ad interrompere il comizio. Ma, intanto, il linguaggio semplice di Li Causi e i contenuti coraggiosi del suo discorso, che tanti ascoltavano da dietro le finestre, suscitarono un crescente consenso tra i contadini, al punto da convincerli ad entrare nella «piazza proibita». Contemporaneamente, alcune anziane donne cominciarono a spalancare le finestre e i balconi delle loro case, dicendo «Vangelo è!». «Così essi - ancora secondo Carlo Levi - rompevano il senso di una servitù antica, disubbidivano, più che a un ordine, all’ordine, alla legge del potere, distruggevano l’autorità, disprezzavano e offendevano il prestigio». A quel punto, «un comunista di Caltanissetta invitò don Calò al contraddittorio, ma ricevette come risposta una bastonata, che segnò l’inizio dell’aggressione armata», ha scritto Gabriella Scolaro nella sua «Storia del movimento antimafia siciliano». Infatti, «fu proprio allora che si scatenò il terrorismo mafioso: contro il palco e la folla che aveva circondato [il dirigente comunista] furono lanciate cinque bombe a mano (una delle quali fu sicuramente lanciata dal sindaco) ed esplosi numerosi colpi di pistola. I feriti furono quattordici: fra questi Girolamo Li Causi, colpito ad un ginocchio […]». Poteva essere la strage di Villalba. Fortunatamente, fu solo una tentata strage, il «battesimo di fuoco» di Girolamo Li Causi in terra di Sicilia. Infatti, quel giorno, il leader comunista poté constatare personalmente con quale feroce determinazione gli agrari e la mafia erano disposti a difendere i loro privilegi.
Fonte

27 Maggio 1944
Santi Milisenna politico, segretario della sezione del PCI di Regalbuto

Il 27 maggio 1944, a Regalbuto (Enna), durante un tumulto per un raduno separatista, fu ucciso il segretario della federazione comunista di Enna, Santi Milisenna.
L’omicidio di Milisenna si inserisce in una lunga scia di sangue che colpisce sindacalisti e uomini di sinistra negli anni dell’immediato dopoguerra.

sabato 26 maggio 2012

intervista ad Antonio Ingroia


Anche oggi il fuoco tace.
Ne approfitto per proporvi l'analisi dello stato attuale della mafia di Antonio Ingroia, tratta dal suo libro Nel labirinto degli dei.
La trovate qui (il grassetto in fondo all'articolo è mio)

La mafia che spara e quella nei salotti. Come combatterla?
di Antonio Ingroia. L’Unità, 15 Novembre 2010.

A chi si occupa di mafia, a chi in qualche modo è ritenuto un esperto – giornalista o magistrato, storico o poliziotto, ministro o mafioso pentito – viene sempre rivolta la stessa domanda: «A che punto è la lotta alla mafia? La mafia vince o perde?». Domande semplici, da verdetto sportivo. Domande che spesso ricevono risposte semplici, o semplicistiche, e anche discordanti. Gli ottimisti, soprattutto se hanno da vantare qualche merito vero o presunto (o più presunto che vero) nella lotta alla mafia, la dichiarano, in termini pugilistici, in ginocchio, all’angolo, alle corde, se non addirittura stesa al tappeto. Non vorrei complicare le cose, ma purtroppo la domanda posta in termini semplici (di vittoria o sconfitta) per me è mal posta. Perlomeno si dovrebbe integrare con un’altra domanda: che cosa pensiamo che sia la mafia?

C’è un modo di essere della mafia che è tragicamente sotto gli occhi di tutti. Perlomeno, sono sotto gli occhi di tutti gli effetti della sua presenza: violenza, omicidi, stragi. Sotto questo aspetto la mafia si può identificare e anche confondere, con una potente e sanguinaria organizzazione criminale dedita ai suoi fini illeciti. È innegabile che la struttura gerarchico-militare di Cosa Nostra abbia subìto negli ultimi anni colpi durissimi. (...) Tuttavia la mafia non è vinta, perché la mafia è anche altro. (...) Cosa Nostra è molto di più della sua struttura gerarchico-militare. È un sistema criminale, un sistema economico-criminale organizzato sul territorio, che fa della violenza, della capacità di intimidazione, soltanto uno strumento per accumulare ricchezze e incrementare il proprio potere. A questo scopo elabora strategie verso l’esterno, stringendo alleanze con pezzi della società ove agisce, intessendo una rete di relazioni, fino a connettersi con ambienti e soggetti del potere legale. È proprio questo modo d’essere, iscritto si può dire nel suo codice genetico, che distingue la mafia dalle altre organizzazioni criminali. Un carattere distintivo che l’ha accompagnata nella sua storia plurisecolare, le ha garantito l’impunità e ha favorito, nel tempo, il ricambio dei suoi quadri.

Nel processo di osmosi tra organizzazione criminale e potere legale, un ruolo influente è svolto dagli esponenti di questo potere che «concorrono dall’esterno» all’associazione mafiosa. Una sorta di anello di congiunzione, un corpo di ufficiali di collegamento tra il fronte mafioso e le retrovie acquartierate nella società civile e nelle sue strutture istituzionali: politici, professionisti, funzionari pubblici. E spesso non si limitano a concorrere dall’esterno. (...) In questa fase storica la mafia si presenta con un volto meno sanguinario. Sembra avere abbandonato le strategie criminali stragiste, di contrapposizione radicale, anche perché costretta ad allentare il controllo del territorio, Sotto la pressione dell’azione statale di repressione. Con la sua tradizionale capacità di adattamento, ora è più orientata allo sfruttamento finanziario delle sue risorse e dei suoi investimenti. Indebolita nella presa sul territorio, la mafia delocalizza le attività illecite, incrementa la mobilità delle proprie ricchezze e si apre ai mercati internazionali. (...) Nel nuovo corso dell’economia mafiosa acquistano un ruolo crescente i «colletti bianchi», quel ceto di professionisti della finanza, di consulenti del riciclaggio, dai quali dipende la buona riuscita degli investimenti del denaro sporco via via accumulato, soprattutto negli anni d’oro del dominio mafioso. (...) Questo è il volto «pulito» con cui oggi la mafia prevalentemente si presenta. Il volto con cui è tornata nei «salotti buoni» della borghesia siciliana, dell’economia, della politica e della finanza. (...) La mafia perfettamente integrata nel potere legale, la mafia finanziaria, dai colletti bianchi e dal volto rifatto, in quei salotti è oggi più insediata che mai. Se ci si limita a percepirla e a contrastarla come un fenomeno genericamente delinquenziale, limitandosi a perseguire e a colpire la sua componente militare, quella oggi forse meno insidiosa, è come voler guardare solo una faccia della luna. Così, mentre si va fieri dei successi conseguiti «sul campo», Cosa Nostra, attraverso la sua faccia «perbene», continua indisturbata a infettare il sistema economico-politico non solo della Sicilia, ma dell’intero paese. Conoscerla la mafia, e volerla conoscere tutta, per combatterla meglio attraverso una strategia complessiva di contrasto: questo sempre si dovrebbe tentare di fare, questo non sempre si vuole fare. Per cattiva conoscenza, per cattiva volontà, o per complicità?

venerdì 25 maggio 2012

intervista a Giovanni Falcone

Oggi il fuoco tace.
Ne approfitto per postarvi un'intervista a Giovanni Falcone di Saverio Lodato.
Non è facile reperirla: si trova in rete solo sulla versione pdf dell'Unità e trascritta (con qualche errore) in un forum.
Spero di farvi piacere.





Intervista a Giovanni Falcone. “Il controllo del territorio determina anche pesanti condizionamenti dell’elettorato”
“È la mafia a imporre i giochi alla politica”
di Saverio Lodato, L’Unità, 29 Ottobre 1990.

PALERMO - “La situazione è satura, si rischia di oltrepassare il limite di guardia. L’ho detto e continuo a ripeterlo. C’è il rischio che subentrino la sfiducia, la rassegnazione, la demotivazione. Elementi che sarebbero ben più gravi dell’attuale indignazione. Sì: i magistrati sono indignati. E sono indignati perché non sono più disposti ad esporsi eternamente al tiro al bersaglio. Com’è accaduto, ultimo di una fila davvero ormai troppo lunga, al collega Rosario Livatino. Ma dire questo non significa che i magistrati devono pretendere da qualcuno, per fare fino in fondo la loro parte, garanzie di sopravvivenza. Se questa è una guerra, in questa azione di contrasto con i poteri criminali, può accadere che fra le fila dei giudici si registrino delle perdite. Ma il punto è un altro: le uccisioni dei giudici non possono verificarsi per l’insipienza e l’inadempienza del potere politico. Ed è esattamente quello che è accaduto fino ad oggi”.
Giovanni Falcone, come tanti suoi colleghi, è anche lui indignato. Giudica il rapporto mafia-politica come la principale jattura con la quale la sua categoria sia oggi costretta a fare i conti.

Ma quanto pesano, per adoperare le sue parole, insipienza e inadempienza del ceto politico nella falcidia di giudici onesti e coraggiosi?
“In maniera determinante”.

Falcone raramente è solito gridare “al lupo al lupo”. Preferisce interventi tecnici. Tutti giocati all’interno del suo specifico campo di competenze. E a volte guarda con una punta di insofferenza ai colleghi più giovani che gli danno forse l’impressione di non reggere all’impatto con una condizione difficile, quella del magistrato che, quasi per definizione, si trova in trincea. Ma questa volta è proprio lui ad adoperare un registro diverso.

Ascoltiamo queste sue affermazioni.
“Ma perché ci meravigliamo? Per anni e anni, in questo Paese, si è perfino negato che esistesse la mafia. Quando alcuni magistrati, a prezzo di enormi sacrifici individuali, hanno dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la mafia esisteva, è nata subito una favola avallata dalla Cassazione. Cosa raccontava la favola? La favola raccontava dell’esistenza di una pretesa nuova mafia, costituita comunque solo da organizzazioni criminali, che era sorta sulle ceneri di quella vecchia, che invece era stata buona, innocua e cara. A quella favola ne fece seguito subito un’altra. Una vera e propria corrente di pensiero, secondo la quale questa nuova mafia, era diventata ormai tanto forte e potente da poter fare tranquillamente a meno dei suoi legami con la politica”.

Mafia dunque coccolata, tenuta all’ingrasso, adottata dal potere politico italiano da almeno quattro decenni. Ma Falcone da parecchio tempo dà a qualcuno l’impressione di essere monotematico perché non perde occasione di ripetere che il “terzo livello” non esiste. Dottor Falcone, sta cambiando opinione sull’argomento?
“Proprio per niente. L’espressione “terzo livello” è una schematizzazione concettualmente rozza e riduttiva di qualcosa di ben più articolato, grave e inquietante, di quanto si pensi comunemente. Qualcuno è liberissimo di ritenere che l’espressione “terzo livello” sia una formula magica, propagandisticamente efficace. Io sono libero di non pensarla allo stesso modo. E ritengo, invece, ben più inquietante, ben più gravida di conseguenze immediate, l’affermazione che esiste una mafia che, proprio in quanto tale, in quanto mafia, che differisce quindi dalla semplice organizzazione criminale, detta le regole del gioco alla politica. Ma forse si preferisce non capire”.

Ma il fatto che la mafia detta le regole del gioco della politica è acquisizione recente?
“Nient’affatto. Sperando che nessuno si scandalizzi le dico che non c’è niente di nuovo sotto il sole. Non dovremmo mai dimenticarlo, e invece spesso lo dimentichiamo: caratteristica essenziale della mafia è il controllo del territorio. Ciò si traduce anche nel condizionamento dell’elettorato, con il risultato che il nodo mafia politica resta inalterato. Se questa sembra una visione rassicurante…”.

E da dove cominciare per recidere il cordone ombelicale tra politica e mafia? Cosa possono fare i giudici? E cosa non è umanamente legittimo pretendere?
“I giudici possono, hanno il dovere di impegnarsi nella loro attività. Ma non sarà mai un’attività esaustiva. Nella nostra assemblea di sabato a Palermo qualche collega ha detto che noi magistrati diamo l’impressione di voler svuotare il mare armati di bicchiere. Verissimo. Ma è altrettanto vero, come ha detto il collega Armando Spataro, che proprio questo è il nostro compito. In altri termini: è da rifuggire, al nostro interno, la tentazione di chi, additando le inadempienze altrui, può suggerire alibi, anche se magari inconsapevolmente, per le proprie inadempienze”.

Non vede il rischio di scaricare sulle fragili spalle dei giudici un fardello che lei stesso, prima, avvertiva pesante come un macigno?
“No. Proprio perché resto del parere che il problema dei problemi è il nesso tra mafia e politica sono anche convinto che spetti al parlamento reciderlo. Ma spetta anche alla società che, esprimendo i suoi rappresentanti al Parlamento, deve costringere i propri eletti a fare il loro dovere”.

Lei come vede l’eventuale riforma elettorale?
“Mi consenta: questi problemi non ci riguardano. E non credo che l’opinione del cittadino Giovanni Falcone interessi alla gente. Non è compito dei giudici elaborare e presentare disegni di legge. Il che, però, non significa che non possano mettere a disposizione il loro bagaglio tecnico e professionale anche su questi argomenti. Sono quindi a disposizione del potere politico, ma di un potere politico che desse concreti segnali di voler voltare pagina. Cosa abbiamo detto se non questo nell’assemblea di sabato? Ci siamo espressi per una sessione del Parlamento che affronti i problemi della giustizia. In altre parole abbiamo detto più o meno al potere politico: se ci sei batti un colpo. Ora siamo in attesa”.

E di questo governo Andreotti che valutazione da Giovanni Falcone?
“Non intendo avventurarmi in giudizi di natura politica, meno che mai in giudizi su singole persone. Credo che nostro compito di magistrati sia quello di costringere qualsiasi governo, qualsiasi Parlamento, a fare la loro parte. Le fughe in avanti sono bellissime, ma sono pur sempre delle fughe dalle proprie responsabilità. D’altra parte io sono convinto che tutti i governi italiani dal dopoguerra ad oggi, nessuno escluso, si sono manifestati inadeguati rispetto a questo fenomeno. Di questa realtà prendiamo atto”.

Avviandoci alla conclusione. Lei è durissimo con il potere politico ma non risparmia qualche bacchettata anche ai colleghi?
“Questa rappresentazione non la condivido. La durezza non è mia. Appartiene a tutte le componenti ideali della magistratura. Ma siccome la magistratura, in questo momento, è scossa dall’enormità dei problemi da affrontare, dalle novità introdotte dal nuovo codice che rivoluziona totalmente il lavoro mentre la carenza di mezzi e uomini resta quella di sempre, in una parola dallo sfascio della giustizia, la magistratura, dicevo, può cedere alla sindrome del fortino accerchiato. E attraversare come sta avvenendo, una forte crisi di identità. Si ha il sospetto che vi sia una ben orchestrata regia volta a far ricadere le colpe dello sfascio alla giustizia, esclusivamente sui magistrati. Ma tutto ciò non deve valere per negare indubbie carenze di professionalità, e certe cadute di tono che sono sotto gli occhi di tutti. La mia preoccupazione è che accentuando i toni della protesta, il potere politico ne possa approfittare per non porre mano ai problemi della magistratura, indicandola come l’unica responsabile di tutto. Sono pericoli che vanno scongiurati”.

Si riferisce a Felice Lima, il giudice di Catania diventato un po’, in queste assemblee di Agrigento e Catania prima, e Palermo dopo, un Masaniello con un ottimo seguito tra i suoi colleghi?
“No, per carità. La definizione giornalistica di Masaniello gli farebbe torto. Lima esprime una situazione che è sentita da tutti noi. Forse saranno i toni, gli accenti, a distinguerlo rispetto ad altri. Ma i contenuti dei suoi interventi sono quelli di tutti, né più né meno. E poi, gli atteggiamenti populistici non pagherebbero. Non dobbiamo mai dimenticare, lo dico a me stesso innanzitutto, che siamo e dovremo continuare ad essere pezzi dello Stato. Se no che giudici saremmo?”.

Può forse interessare alla gente l’opinione del cittadino Giovanni Falcone su questa Italia dei Misteri.
“Certo che esiste. Proprio per quello che abbiamo detto sino ad ora, per questo nodo che è tutto politico. In Italia c’è una democrazia incompiuta, e dicendolo non mi sembra di scoprire nulla. Ci sono dei paletti ben visibili che impediscono alla democrazia di crescere”.

Lo riporto in grande, scusate, perché questa frase - oggi - mi fa rabbrividire

In Italia c’è una democrazia incompiuta, e dicendolo non mi sembra di scoprire nulla. Ci sono dei paletti ben visibili che impediscono alla democrazia di crescere

giovedì 24 maggio 2012

24 Maggio 1982

Rodolfo Buscemi
Matteo Rizzuto

A Palermo nella camera della morte, in Corso dei Mille, vengono strangolati i giovani Rodolfo Buscemi e Matteo Rizzuto. Buscemi indagava sull'omicidio del fratello Salvatore e Rizzuto si trovava solo casualmente in sua compagnia. La sorella Michela si è costituita parte civile nel maxiprocesso contro la cupola mafiosa e i responsabili di una serie di omicidi.

mercoledì 23 maggio 2012

la strage di Capaci

23 Maggio 1992 ore 17:58 Strage di Capaci

Giovanni Falcone 53 anni, magistrato
Francesca Morvillo 46 anni, magistrato
Antonio Montinaro 30 anni, poliziotto
Vito Schifani 27 anni, poliziotto
Rocco Di Cillo 30 anni, poliziotto



Diventare eroi è un brutto affare.
Primo, perché implica che sei morto, e secondo perché chiunque può appropriarsi del tuo nome, e usarlo come più gli piace, senza che tu possa fare o dire nulla per impedirglielo.

Giovanni Falcone non era un eroe, ma era un uomo normale, che aveva scelto di fare il magistrato. Aveva scelto quindi una professione al servizio dello Stato. E per tutta la vita si considerò proprio un servitore dello Stato, anche quando quello Stato lo abbandonò e lo perseguitò.
Un magistrato che riteneva che l’indipendenza della magistratura non fosse un privilegio, ma un presupposto democratico indispensabile e come tale costituiva per i magistrati stessi un pesante fardello da portare al meglio, al servizio di tutti.
Ma Falcone fu anche un uomo solo, molto solo, isolato dalla sua stessa rettitudine e integrità.
Un eroe, non avrebbe mai voluto diventarlo.

A sentirne parlare ora sembra che la sua vita sia stata un susseguirsi inarrestabile di successi, fino alla sua morte prematura per mano di mafia. E invece non fu affatto così, anzi, fu tutto il contrario, al punto che un giornalista (Mario Pirani, 26 Maggio 1992, Repubblica) lo paragonò ad Aureliano Buendìa – protagonista di Cent’anni di solitudine di Garcia Marquéz – che combatté trentadue battaglie e le perse tutte.
Ricordiamole.

Arrivò a Palermo nel 1980 proveniente da Trapani, e fu presto chiamato all’ufficio istruzione dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, che gli affidò il suo primo processo di mafia, il processo Spatola. Quasi contestualmente, cominciò a vivere sotto scorta.

Non fatevi idee romantiche, da film poliziesco: vivere sotto scorta è un inferno. Non puoi fare una passeggiata al parco, non puoi andare al cinema (a meno di sottostare allo snervante rito di parecchie file svuotate per permetterti di assistere allo spettacolo), non puoi andare a far compere, o a fare il bagno in mare (racconta Ayala che una volta Falcone si spinse troppo al largo e la scorta stava già chiamando la guardia costiera per controllarlo). Se vuoi andare a fare una nuotata in piscina devi chiedere che te le aprano apposta alle 7 del mattino, e andarci quando è completamente vuota. Aggiungete a tutto questo lo stress continuo della paura. No, non credo proprio sia una vita invidiabile.

Chinnici credeva nel suo giovane collaboratore, e lo difese da chi gli chiedeva di renderlo inoffensivo (dagli tanti processi piccoli così smette di rompere quel Falcone, si sentì suggerire). Chinnici fu ucciso sotto casa sua da un’autobomba, per mano di mafia, il 29 Luglio 1983. Palermo come Beirut, titolarono i giornali.

Il Consiglio Superiore della Magistratura nominò consigliere istruttore di Palermo Antonino Caponnetto, che andava a sostituire il magistrato ucciso. Caponnetto, usando un sistema già sperimentato dai giudici che si erano occupati di terrorismo, creò un pool di magistrati al fine di consentire a più persone di lavorare sullo stesso sterminato processo e di evitare contemporaneamente che i singoli giudici venissero identificati e isolati. In altre parole: informazioni condivise, lavoro di gruppo. Quello fu il pool che istruì il maxiprocesso: ne facevano parte oltre a Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta.

Quegli anni, costellati da omicidi di tanti servitori dello stato che collaboravono con il pool, due fra tanti quelli del commissario Beppe Montana (ucciso il 25 Luglio 1985) e del vice capo della squadra mobile di Palermo Ninni Cassarà (ucciso il 6 Agosto 1985), furono anche gli anni della giunta Orlando e della primavera di Palermo. Una manciata di anni in cui sembrò possibile sconfiggere la mafia, nonostante i lutti.

La tregua si ruppe più o meno nel 1987.
Il 10 Gennaio 1987 il Corriere della sera pubblicò un articolo di Sciascia intitolato I professionisti dell’antimafia. Tanto è stato detto di questo articolo sicuramente infelice, che criticava essenzialmente la scelta del Csm di nominare Borsellino procuratore di Marsala non in virtù della sua anzianità ma in virtù della sua esperienza, modificando di fatto le regole seguite fino ad allora. Certo è che quell’articolo, al di là delle intenzioni dello scrittore (che tempo dopo si spiegò con Borsellino), fu usato e abusato da tutti coloro cui il pool stava scomodo.

Il 19 Gennaio 1988 il Csm nominò Antonino Meli consigliere istruttore di Palermo, in sostituzione di Caponnetto che aveva fatto domanda di tornare a Firenze, convinto di lasciare l’ufficio in mano a Falcone. La motivazione della scelta di Meli? La maggiore anzianità.
Il nuovo consigliere istruttore smantellò il pool in pochi mesi: all’insegna dello slogan “tutti si devono occupare di tutto” tolse ai giudici esperti di mafia i processi e frantumò le istruttorie riguardanti Cosa nostra rendendole tanti processi a sé stanti senza alcun legame. Meli e Falcone si scontrarono spesso, in quei mesi.
Il 20 Luglio 1988 (quindi appena sette mesi dopo la nomina di Meli) Borsellino denunciò in un’intervistapubblicata in contemporanea da L’Unità e Repubblica (giornalisti Lodato e Bolzoni), lo smantellamento del pool. Intervenne il capo dello stato, Francesco Cossiga, chiedendo al Csm di approfondire. Ne seguì una serie di audizioni alle quali Falcone si presentò con una dichiarazione scritta di quattro cartelle in cui denunciò “l’inceppamento delle istruttorie di mafia”, rassegnando le sue dimissioni.
Il Csm, salomonico, ignorò le denunce di Borsellino e respinse le dimissioni di Falcone, inscenando una sceneggiata pacificatrice fra il giudice e il suo consigliere istruttore.

Il 10 Luglio 1988 Domenico Sica fu preferito a Falcone per il ruolo di alto commissario per la lotta alla mafia.

Il 20 Luglio 1989 venne sventato un attentato contro Falcone: sugli scogli antistanti la casa che aveva preso in affitto per l’estate, all’Addaura, gli uomini della scorta rinvennero una borsa piena di 58 candelotti esplosivi.
È il culmine dell’estate del Corvo, come fu chiamato l’autore di lettere anonime (qui ne trovate una) che furono rese pubbliche proprio dopo il fallito attentato. Sono lettere circostanziate, piene di nomi, che mirano a delegittimare e isolare il giudice. In sostanza, l’anonimo accusava Falcone e il prefetto Gianni De Gennaro di avere usato in maniera spregiudicata il pentito Salvatore Contorno, e di averne fatto un killer di stato.

Se vi sembra molto avete ragione: ma è solo l’inizio. Da qui in poi, fino alla sua morte, fu una pioggia continua di critiche e di maldicenze. Tanto che disse a Nando Dalla Chiesa: “Mi stanno seviziando”.

Lo accusarono di protagonismo.
Lo accusarono di voler usare l’antimafia per fare carriera.
Lo accusarono di essere un giudice a orologeria, che fa politica con i processi.
Lo accusarono di un uso spregiudicato e scorretto dei pentiti.
Lo accusarono di voler rendere il pool un centro di potere.
Lo accusarono di avere inscenato il fallito attentato, per pubblicità e protagonismo, per potersi atteggiare a martire.
Lo accusarono – lo fece Leoluca Orlando, il suo amico Leoluca Orlando – di evitare di indagare le collusioni fra mafia e politica, di tenere “le carte nei cassetti”.

Ma ancora non basta.
Dopo l’attentato il Csm lo nominò procuratore aggiunto a Palermo, sotto la direzione di Pietro Giammanco. Come fosse il suo lavoro sotto di lui Falcone lo scrisse in una serie di appunti che consegnò alla sua amica giornalista Liana Milella del Sole 24 ore e che furono pubblicati postumi. Credo sia significativo ricordare che Borsellino, in un intervento pubblico in occasione del trigesimo di Capaci, attestò l’autenticità di quegli appunti, per evitare che qualcuno potesse avanzare dubbi (lo stavano già facendo).
Sono appunti che raccontano di un clima lavorativo insostenibile, di un Giammanco che segue passo passo Falcone negandogli di fatto ogni autonomia, che lo fa perfino controllare.
In quel periodo Falcone fu convinto da un amico magistrato a candidarsi al Csm. Ma il giudice si rifiutò di fare campagna elettorale, convinto che i fatti contassero più delle parole. “Mi conoscono” – diceva all’amico – “sanno chi sono. Se vogliono mi votano, sennò arrivederci”.
Serve dire che non fu nominato per una manciata di voti?

Siamo a inizio 1991. Falcone non ce la fa più, non riesce a lavorare e decide quindi di accettare la proposta del neo ministro della giustizia Martelli e di andare a Roma, a ricoprire il ruolo di direttore degli affari penali.
Non era contento Falcone di questa scelta: lui amava fare il magistrato e quello avrebbe voluto continuare a fare.
Lì, in quell’ufficio, Falcone cercherà di riprendere la lotta interrotta, dotando finalmente lo Stato dei mezzi che egli ritiene indispensabili per combattere la criminalità organizzata. Parliamo di una legge premiale per i collaboratori di giustizia, della DIA (direzione investigativa antimafia), delle DDA (direzioni distrettuali antimafia) e della DNA (direzione nazionale antimafia) per favorire la circolazione delle informazioni tra le forze dell’ordine e fra le varie procure, parliamo della tanto criticata Superprocura.

La sua “contiguità” con il potere divenne occasione di rinnovati attacchi: da giudice comunista divenne giudice socialista, si disse che i pentiti – soprattutto Buscetta – parlassero solo dietro suo comando.
Quando finalmente la superprocura fu istituita Falcone si candidò: era fatta su misura per lui, per altro. Questa fu l’unica bocciatura che non fu costretto a subire: morì infatti prima che il Csm potesse votare la nomina, ucciso da quella mafia che aveva combattuto così a lungo.

In un lungo libro intervista, Cose di Cosa Nostra, Falcone aveva dichiarato alla giornalista Marcelle Padovani:
“Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."

La storia di questo giudice è emblematica, e dovrebbe farci riflettere tutti. Falcone era abituato a far parlare i fatti e a giudicare gli altri in base alle loro azioni. Questo lo rese completamente indifeso contro le malignità e le invidie, che gli resero la vita impossibile.

Perché quello che c’è di più triste in questa storia è che i nemici di Falcone non furono solo mafiosi ma furono prima di tutto uomini politici, giornalisti, colleghi magistrati. Chi era mosso dalla volontà di salvaguardare interessi personali, chi dal desiderio di fare politica con l’antimafia, chi da semplice invidia. Gli stessi uomini politici, giornalisti e colleghi che adesso lo esaltano e lo portano come esempio.

La mafia non ebbe bisogno di isolare Falcone, fecero tutto i suoi detrattori incapaci persino di concepire che potesse esistere una persona per cui lo Stato e la sicurezza dei suoi cittadini veniva davvero prima di tutto.

Lo ricoprirono di fango e il fango a lungo andare, imbratta.
Anche se è appunto solo fango. Imbratta eccome.
Anzi, a Palermo, uccide.
Apro questa sezione in un giorno simbolo: oggi è il ventesimo anniversario della strage di Capaci.

La mafia siciliana – Cosa nostra – è tanto apparentemente conosciuta quanto in realtà parecchio mitizzata.

Con questo thread mi piacerebbe riuscire, attraverso la storia giornaliera delle sue vittime innocenti, a darne un quadro diverso.

Le vittime innocenti sono purtroppo tante, e di tutti i tipi: ci sono bambini che giocavano nel posto sbagliato nel momento sbagliato, bambini nati con il cognome sbagliato, donne e uomini che si sono trovati per caso sul luogo di un agguato. E poi c’è un elenco lunghissimo, impressionante, di uomini politici e sindacalisti non collusi, e di rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura.

Sembra un bollettino di guerra.

Di alcuni di loro si sa tanto, di altri si sa soltanto il nome e la professione.

Spero che il loro ricordo ci faccia riflettere tutti, e spero di riuscire, attraverso le loro storie, a raccontare cosa è Cosa nostra.

Spero soprattutto che queste storie siano uno spunto per domande e approfondimenti, con il contributo di tutti i frequentatori di questo forum.


Una parola sulle fonti: l’elenco delle vittime di mafia è quello stilato dall’associazione Libera, a parte un paio di eccezioni che evidenzierò.
I profili vengono in parte dal sito di Libera e in parte dal sito del Centro Impastato.

Un’altra fonte importante, che ho usato molto, è il libro Trent’anni di mafia di Saverio Lodato, giornalista de L’Unità che da anni si occupa di mafia in maniera professionale e molto seria. Troverete spesso rimandi ad alcuni suoi articoli che sono reperibili in rete.
Tutte le altre fonti, le ho indicate nei singoli profili.

Buona partecipazione a tutti.

sabato 19 maggio 2012

i problemi dello sviluppo cinese

Non è ancor detta l'ultima parola comunque.

La crescita cinese sta rallentando, e le previsioni di qualche anno fa che davano il sorpasso degli USA intorno al 2020-2030 sono state ora spostate in avanti di almeno una decina d'anni. Nessuno dubita che l'economia cinese possa crescere ancora robustamente e a tassi molto superiori a quelli europei (gli USA sono un'altra storia). Ma l'ultimo piano quinquennale ha già fissato un obiettivo di crescita del 7% annuo (rispetto al 7,5% del piano precedente). La leadership cinese sta già riconoscendo il rallentamento dei tassi di crescita.

Gli elementi critici, tutti noti sia ai pezzi grossi del partito comunista cinese che agli analisti occidentali, sono numerosi e si stanno affastellando uno sopra l'altro. Per alcuni di essi stanno escogitando soluzioni, altri sono invece incompatibili con l'attuale modello di sviluppo.

Un problema di fondo è dato dalla burocrazia. L'economia cinese è ancora pesantemente pianificata ed una percentuale notevole del PNL è data dagli investimenti pubblici, specie nelle amministrazioni locali. Queste sono in mano a funzionari del partito la cui carriera è assicurata, oltre che dal partecipare a determinati schieramenti politici e dall'obbedienza alle direttive centrali, anche dai risultati economici conseguiti. Purtroppo le condizioni di vita, l'inquinamento, gli incidenti sul lavoro, etc. etc. sono tutti costi non immediatamente valutabili sul piano economico (esternalità) a differenza dei megawatt di energia, quantità di beni prodotti, edifici costruiti e quant'altro. C'e' quindi una fortissima pressione perché le amministrazioni ignorino i primi e si concentrino esclusivamente sui secondi. Questa pressione fa sì che il centro abbia grosse difficoltà a farsi obbedire su questi temi. A parole lo si fa (non sarebbe possibile il contrario :) ) ma nei fatti si cerca di ignorare le direttive.

DEMOCRATIZZAZIONE
La società cinese sta diventando, se non pluralista, più aperta alla circolazione di idee e più capace di esprimerle apertamente, pur con dei limiti ben precisi. Al momento la situazione sembra sotto controllo ed il partito comunista pare essere consapevole di ciò che può permettere e ciò che invece deve assolutamente impedire.
Non si può prevedere la direzione di questo fenomeno. Si possono però ipotizzare maggiori spinte nazionalistiche, man mano che la componente ideologica nel partito comunista cinese si riduce a favore di quella portatrice di istanze unicamente cinesi (qualcosa del genere accadde in URSS all'inizio degli anni '70, per poi esplodere negli anni '80 con la crisi finale del PCUS). Queste spinte potrebbero partire proprio dal basso - società e cultura cinesi sono disgustosamente nazionalistiche - ed essere poi sfruttate dal PCC come stampella e giustificazione del proprio potere.
Tutto questo per dire che la democratizzazione potrebbe generare instabilità e maggiore aggressività sul piano internazionale.

DEMOGRAFIA
Qua il problema invece è ingente ed evidente. La società cinese sta invecchiando rapidamente. Già oggi la quantità di maschi tra 15-24 anni è in riduzione rispetto a pochi anni fa. Si prevede che a partire dal 2015 comincerà a ridursi numericamente l'intera forza lavoro. Queste tendenze (che di per sé non sarebbero gravi) si trasformano in emergenza per il probabile rifiuto di accogliere immigrazione dall'estero (rifiuto originato da motivi culturali e politici) e dalla perdurante tendenza al pensionamento anticipato per tutta una serie di categorie professionali (soprattutto impiegate donne).

Stanno cominciando a chiudere alcune fabbriche ed altre hanno difficoltà ad attrarre lavoratori. Anche qua, il problema sarebbe meno sentito se l'economia cinese si fosse già trasformata in un'avanzata economica capitalistica, basata sul terziario e sulle produzioni ad alto valore aggiunto; ma così non è ancora. Questi settori esistono sicuramente ma la grande maggioranza dei lavori è ancora in attività a basso valore aggiunto ed esteso impiego di manodopera.
Ma l'invecchiamento della popolazione reca altre difficoltà. Nel 2020 oltre il 40% della popolazione fertile urbana sarà composta da figli unici. La piramide familiare cinese si è stabilizzata nel modello 4:2:1 (quattro nonni, due genitori, un figlio). La fertilità nelle città è già adesso ben sotto la soglia di mantenimento della popolazione; la cosa non si nota a causa dei continui afflussi dalle campagne, le quali però stanno per questo motivo invecchiando ancora più rapidamente.
Se la tendenza non cambia (e finora non c'e' nessun segnale di aggiustamento) nel 2040 la percentuale di over 65 sarà ben superiore a quella statunitense.

Tutto questo produrrà una forte pressione da parte della popolazione perché lo Stato introduca un sistema pensionistico, assistenziale e sanitario in grado di sostenere la massa di anziani. Allo stato attuale delle cose una coppia lavoratrice non infatti è in grado di assistere efficacemente i propri genitori anziani. Quest'assistenza è però necessaria ed è in Cina tradizionalmente ritenuta una prerogativa familiare. Lo Stato dovrà presumibilmente farsene carico, a meno di non rivedere totalmente la sua politica demografica; ma anche se la rivedesse, ci vorrebbero ormai decenni perché si vedano i risultati di ciò, e non si risolverebbero comunque i problemi della generazione attuale. Per creare un sistema assistenziale adeguato sarà necessario distogliere una quota significativa del pnl da investimenti più produttivi (infrastrutture, supporto allo sviluppo, spese militari).
Per finire l'obbligo di un solo figlio ha creato una situazione demografica molto sbilanciata. Nella fascia d'età 1-4 anni ci sono 123 maschi ogni 100 femmine (il rapporto naturale sarebbe 105:100) e questo comporterà in futuro l'impossibilità di sposarsi per molti uomini. Questo potrebbe causare instabilità, disordini, incremento della criminalità (ci sono delle correlazioni tra questi fenomeni e la percentuale di uomini giovani non sposati in una società, anche se forse è azzardato considerare la correlazione come nesso di causalità. qua c'e' un articolo che lo fa.

INQUINAMENTO
L'inquinamento atmosferico sta già adesso rallentando pesantemente la crescita cinese producendo danni annuali valutati tra il 4% ed il 6% del PNL. Ma la valutazione economica non rende giustizia del danno causato alla società.

Il governo cinese ha ammesso l'esistenza di oltre 100 villaggi del cancro (qui la mappa google):

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anche se attivisti cinesi, che tengono una contabilità più aggiornata, sono arrivati a 450 e passa. Sono comunità agricole, poste nelle vicinanze di miniere o centri industriali, nei quali la mortalità per tumori è fuori scala rispetto al resto del paese (in cui già è più alta rispetto alla media asiatica; i contadini cinesi muoiono di cancro ai polmoni quattro volte la media mondiale, di cancro al fegato due volte).

Poiché i manager o i dirigenti del partito responsabili dello sviluppo industriale fanno carriera in base ai risultati economici conseguiti, poiché le ricadute ambientali non fanno parte dei parametri secondo i quali sono valutati e poiché - infine - la Cina è una dittatura priva di stampa libera e con scarse possibilità di protesta, l'effetto netto di tutto ciò è un inquinamento devastante. Si inquinano le falde acquifere, si scaricano rifiuti tossici senza riguardo per i lavoratori o le popolazioni circostanti, si emettono liberamente nell'atmosfera gas tossici.

Tutto questo ha avuto un costo, che finora è stato assorbito (diciamo così) dalla popolazione e dall'ambiente; adesso, finalmente, sta tornando nel circuito economico. Sempre più persone protestano, man mano che si fa strada la consapevolezza di vivere in ambienti degradati e che riducono considerevolmente l'aspettativa di vita. I cinesi che vivono nelle grandi città e che stanno raggiungendo standard di vita non troppo lontani dai nostri faticano ad accettare che devono respirare - e far respirare ai propri figli - un'aria inquinata, inquinatissima. Presumibilemnte nei prossimi anni il governo sarà costretto - anche contro la sua volontà - a distogliere una quota parte degli investimenti per combattere il degrado ambientale e fornire agli ammalati cure sanitarie adeguate.

ACQUA
Il problema idrico è solo parzialmente dovuto all'inquinamento. In effetti molte falde acquifere risultano inquinate ed in molte città cinesi si beve acqua al limite della potabilità.
Ma per la Cina, l'acqua è soprattutto fonte indiretta di cibo. La maggior parte del consumo d'acqua (il 60%) è concentrata infatti nell'agricoltura, e pur in presenza di una buona efficienza produttiva il settore stenta a nutrire tutta la popolazione.

L'anno scorso un esperto cinese ha messo in guardia il governo, avvertendolo che se non vengono avviate politiche che riducono il consumo d'acqua il risultato sarà drammatico: ogni anno le falde acquifere si abbassano di un metro circa, ed entro trent'anni si avrà siccità ed inaridimento del suolo in tutta la zona di pianura settentrionale, la più a rischio.

Lo stesso esperto consiglia di aumentare il prezzo dell'acqua per ridurne il consumo (cosa che basterà comunque ad aumentare il prezzo dei cereali o a ridurre la produzione) e soprattutto a ricorrere all'importazione di cibo, la soluzione in prospettiva più economica.

Anche questo è un problema che il governo cinese dovrà affrontare a breve, e che potrà essere risolto solo distogliendo risorse da utilizzi più fruttuosi.

Aggiungo che negli anni '70 ed '80 i massicci acquisti di grano da parte dell'URSS provocarono un aumento del prezzo mondiale di queste commodities ed una carestia nel terzo mondo; la Cina potrebbe causare una carestia molto più grave se cominciasse ad importare massicciamente grano. Probabilmente è anche per questo che i cinesi, in Africa, stanno comprando la terra.

DEBITO INTERNO
Questo potrebbe essere, come direbbero gli anglosassoni, il gorilla da 400 chili. :) Per sostenere gli investimenti locali le amministrazioni pubbliche sono ricorse a massicci prestiti da parte delle banche (le quali, essendo cinesi, hanno obbidito senza fiatare e senza porsi problemi sull'eventuale non solvibilità dei debitori). La Banca Popolare Cinese ha stimato l'ammontare di questi debiti intorno al 34% del PNL cinese. Se a questa cifra si aggiungono il debito pubblico cinese (20% del PNL), le obbligazioni emesse da banche pubbliche, le obbligazioni delle ferrovie ed altri enti pubblici arriviamo ad una percentuale del debito sul PNL dell'80%. Buona parte di questo debito, per di più, è stato contratto nell'ultimo decennio. Questo significa che negli ultimi anni lo sviluppo cinese si è retto su un enorme indebitamento sommerso (perché interno e non soggetto al controllo dei mercati internazionali) ma non per questo non pericoloso.

Essendo il debito interno la Cina non rischia "abbandoni" da parte dei creditori internazionali; le banche cinesi si dovranno tenere questi crediti anche quando diventeranno inesigibili (buona parte degli investimenti sostenuti dalle amministrazioni locali sono infatti non fruttuosi, il che renderà impossibile ripagare i debiti). Ma questo le potrebbe far fallire a meno di interventi statali, che avranno un costo economico.

LE INFRASTRUTTURE
Tutto lo sviluppo infrastrutturale cinese di questi decenni è stato all'insegna della rapidità: costruire quanto più possibile nel minor tempo possibile. Non esistono leggi secondo cui la lentezza è sinonimo di qualità (pensiamo alle nostre autostrade e metropolitane) o la rapidità implica scarsa qualità.

Ma spesso la sicurezza implica un aumento dei costi. La sicurezza costringe infatti ad utilizzare materiali più costosi, a progettare in modo ridondante, ad addestrare molto bene il personale che opererà le infrastrutture, etc. etc. Risparmiare su uno o più di questi fattori permette di produrre più cose in tempi minori. E ciò è molto positivo per i burocrati ed i dirigenti incaricati di realizzare i progetti.

Il problema, come alcuni di quelli sopra, è acuito dall'assenza di una stampa libera e di un controllo dal basso. La stampa cinese è rapidissima a puntare il dito sui dirigenti corrotti o sui colpevoli di negligenze dopo che i disastri sono accaduti. E' invece molto silenziosa prima.

Nel luglio 2011 due treni ad alta velocità, punta di diamante dell'alta tecnologia cinese, si sono scontrati per una serie di motivi (fattori umani e naturali) nella provincia di Wenzhou, con un bilancio di 40 morti e quasi 200 feriti.

Non è l'incidente più grave che abbia coinvolto treni ad alta velocità (in Germania morirono 101 persone nel 1998) ma ha causato in Cina parecchia costernazione per le modalità e soprattutto la rapidità con cui le autorità hanno terminato l'indagine e ristretto la copertura giornalistica del disastro.

In sè l'incidente non prova nulla. E' possibile che ponti, ferrovie, treni, edifici scintillanti ed intere città siano stati costruiti negli ultimi 10-20 secondo i criteri occidentali, e che quindi queste infrastrutture siano longeve e sicure.

E' però anche possibile che nella loro costruzione e progettazione si sia sacrificato molto alla rapidità ed alla quantità, perdendo in qualità dei materiali, sicurezza e longevità. Un incidente ferroviario ogni tanto può anche essere accettabile - sebbene in quarant'anni di utilizzo dei treni proiettile i giapponesi abbiano subito un solo morto (un passeggero rimasto incastrato in una porta).

Ma i cinesi hanno quattordici centrali nucleari e prima di Fukushima progettavano di sestuplicare la percentuale di energia nucleare entro il 2020.

Hanno costruito intere città in zone sismiche. Il terremoto del 2008, che uccise decine di migliaia di persone, fece crollare numerosissimi edifici in cemento armato di nuova costruzione. Moltissimi bambini morirono nel crollo di migliaia di scuole. La cosa fece venire alla luce uno scandalo di enormi dimensioni che coinvolgeva costruttori e dirigenti di partito. Il governo promise una durissima punizione per i colpevoli di reati e procedette poi a reprimere le proteste, che evidentemente avevano oltrepassato il massimo consentito.

Hanno per finire immense dighe in esercizio o in costruzione che potrebbero in caso di cedimento provocare centinaia di migliaia di morti.

A dire il vero questo è già successo
. Nel 1975 un tifone colpì un bacino idroelettrico cinese in cui operavano decine di dighe. Esse erano state costruite al risparmio, con meno bocche di sfogo rispetto a quanto inizialmente pianificato e a quanto il principale progettista ed esperto idroelettrico cinese aveva ripetutamente chiesto (era stato allontanato dall'incarico per questa fastidiosa insistenza). A causa inoltre della scarsa manutenzione, le bocche esistenti erano intasate di fango e detriti. Pertanto quando si cercò si aprirle per far defluire l'acqua che stava salendo pericolosamente in tutti gli invasi, non accadde nulla. In una delle dighe più grandi era stata spedita una divisione di artiglieria dell'esercito popolare cinese, con il compito di alzare il livello della diga con sacchi di sabbia (!). Ad un certo punto, disperati, chiesero l'intervento dell'aviazione per colpire le chiuse - ma era troppo tardi. La diga cedette, travolgendo i corrieri che erano stati spediti per avvisare la popolazione di mettersi in salvo. La gente non era stata avvertita, i razzi di segnalazione non li vide nessuno. L'ondata di piena - ampia 10 chilometri ed alta da 3 a 7 metri - si spense nelle campagne, che percorse a 50 chilometri orari. Morirono sull'istante circa 20.000 persone, interi villaggi e cittadine totalmente cancellati. Almeno altri 150.000 morirono nei giorni e settimane successive, di fame e malattie; l'area era totalmente isolata ed i soccorsi non riuscivano a raggiungere le comunità isolate e le persone che vagavano in mezzo a mari di fango.

L'esercito popolare distrusse le chiuse delle altre dighe - con attacchi aerei, come era stato richiesto - per impedire una strage ancora più grande. L'esperto idroelettrico venne rimesso al suo posto. Ma di quei morti in Cina non parla nessuno.

SICUREZZA INTERNA
Su questo problema dico solo una cosa: la Cina sta spendendo più per la sicurezza interna che per le proprie forze armate. Una porzione immensa di ricchezza è impiegata per controllare la propria popolazione anziché per produrre cose.
Citavo prima l'esempio delle 500.000 telecamere di sicurezza commissionate alla CISCO e all'HP per la città di Chongqing, nel quadro del progetto "Chongqing pacifica" (sinceramente come slogan è meglio tolleranza zero). qua c'e' un articolo.

Però questo a dire il vero non è un problema, è più uno stato di cose. Per il governo cinese il controllo della popolazione non è un costo di cui discutere, ma piuttosto un'ovvietà.

ECONOMIA IN GENERALE
La Cina in trent’anni di impetuoso sviluppo si è trasformata da paese del terzo mondo con un’economia di autosufficienza nella seconda potenza economica mondiale. Oggi esporta in un sol giorno più di quanto ha esportato in tutto il 1978, e nelle esportazioni è la chiave del suo successo attuale.
Questo modello di sviluppo non è riuscito però a cancellare alcuni grossi difetti strutturali insiti nella cultura e nelle istituzioni cinesi. Altri paesi (la Russia soprattutto) davanti a questi problemi sono crollati e non sono riusciti a sfondare. La Cina finora ci è riuscita, eppure i limiti continuano ad esistere.
Resteranno irrilevanti anche nel futuro ovvero emergeranno prima o poi per arrestare lo sviluppo? Quest’ultimo capitoletto è il più ipotetico, ma lo metto lo stesso perché gli elementi frenanti sono oggettivi.

Anche se la Cina produce oggi senza alcuna difficoltà prodotti altamente tecnologici – dagli ipad agli aerei stealth passando per le automobili giapponesi – non sta assolutamente riuscendo a portare a casa gli elevati profitti insiti in queste produzioni ad alto valore aggiunto.
Ciò perché all’interno della catena produttiva i cinesi restano molto in basso: forniscono le materie prime, la manodopera, l’ambiente da inquinare, e là finisce il loro ruolo. Ricerca e sviluppo, brand, marketing, distribuzione restano al di fuori della loro portata. Se quindi fisicamente sono diventati il principale produttore del pianeta, dal punto di vista economico ricordano più un immenso Messico. La Foxconn, forse il più grande produttore di elettronica al mondo, guadagna su ciò che produce margini dell’8-10%. L’Apple, di cui la FoxConn è fornitrice, sugli stessi prodotti guadagna il 35-40%.
Questa differenza comporta tra le altre cose che l’Apple, con una struttura industriale assai agile, dispone degli investimenti necessari per fare ricerca e sviluppo e restare all’avanguardia tecnologica. La Foxconn è un pachiderma industriale con enormi capacità produttive ma scarsissima capacità di fare ricerca in proprio.

E non solo. La Cina non dispone con pochissime eccezioni di propri brand. Questo non la frena sul mercato interno ma le impedisce di competere su quello internazionale, se non appunto come fornitore di prodotti altrui. Caterpillar, Boeing, John Deer, Airbus possono invece comandare prezzi (e profitti) molto più alti della concorrenza cinese proprio perché sono dei brand la cui qualità è globalmente riconosciuta.

Le multinazionali occidentali investono estesamente in ricerca e sviluppo, sia perché hanno i flussi di cassa per poterlo fare sia perché competono in contesti che proteggono fieramente i diritti di proprietà intellettuali come i brevetti. La Cina offre alle aziende (anche cinesi) una debolissima protezione dal plagio. E’ in Cina assai più conveniente copiare i prodotti di un concorrente – tramite reverse engineering più o meno riusciti – che investire massicciamente in ricerca e sviluppo, visto che tanto le invenzioni non sono protette.

Non solo non vengono protette le invenzioni, ma gli stessi diritti di proprietà sono assai laschi. Le industrie cinesi in mani private prosperano perché ciò conviene allo Stato. Ma nel momento in cui un’azienda diventasse di importanza strategica, o per un qualunque motivo si trasformasse in un pericolo, i suoi dirigenti finirebbero immediatamente sotto processo per le violazioni di legge più bizzarre.
Anche questo tende a favorire una mentalità non libera, non creativa, ed avversa agli investimenti di lungo periodo. Fanno eccezione le numerose imprese di proprietà direttamente o indirettamente statale, che operano a tutti gli effetti come braccia del governo.

Per finire è ampiamente riconosciuta l’inefficienza del sistema scolastico, che non favorisce assolutamente la creatività e l’iniziativa individuale. La qualità del sistema scolastico cinese oscilla tra il pessimo e l’appena sufficiente e non è un caso che tutti i rampolli della dirigenza (comunista) vadano a studiare negli USA. Sempre negli USA vengono inviati gli studenti più brillanti, unico modo per ovviare ad una carenza strategica.

CONCLUSIONI
Ecco, questo è tutto. Quelli descritti sono tutti problemi reali. Non è chiaro quanto e quando potranno frenare la crescita dell’economia cinese; ma per alcuni di essi non è neppure chiaro come combatterli. Credo che sia anche per questo che l’attuale dirigenza cinese parla di svolta epocale e che nel partito comunista cinese sono emersi due schieramenti contrapposti (fino a pochissimo tempo era imperativo mostrare un’apparenza di assoluta concordia) .

Stiamo a vedere.