lunedì 3 settembre 2012

strage di Via Carini

3 Settembre 1982, Strage di via Carini
Carlo Alberto Dalla Chiesa 62 anni, generale dei carabinieri e prefetto di Palermo
Emmanuela Setti Carraro 32 anni, infermiera
Domenico Russo agente di scorta, morì il 17 Settembre per le ferite riportate

Carlo Alberto Dalla Chiesa (Saluzzo, 27 settembre 1920 – Palermo, 3 settembre 1982) è stato un generale, prefetto e partigiano italiano.
Nel 1982 viene nominato prefetto di Palermo, nel tentativo di ottenere contro Cosa Nostra gli stessi risultati brillanti ottenuti contro le Brigate Rosse. Dalla Chiesa inizialmente si dimostrò perplesso da tale nomina, ma venne convinto dal ministro Virginio Rognoni, che gli promise poteri fuori dall’ordinario per contrastare la guerra tra le cosche che insanguinava l’isola. Il 12 luglio nella cappella del castello di Ivano Fracena, in provincia di Trento, sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro. A Palermo, dove arrivò ufficialmente nel maggio del 1982, lamentò più volte la carenza di sostegno da parte dello stato (emblematica la sua amara frase: “Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì”).

In una intervista rilasciata a Giorgio Bocca, il Generale dichiarò ancora una volta la carenza di sostegno e di mezzi, necessari per la lotta alla mafia, che nei suoi piani doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese la massiccia presenza di forze dell’ordine alla criminalità. Comincia ad ottenere i primi successi investigativi, con i carabinieri che irrompono durante un blitz e arrestano 10 boss corleonesi, e successivamente scoprono e smantellano una raffineria di eroina. Nel giugno del 1982 riesce a sviluppare, come già aveva fatto in passato, una sorta di mappa dei boss della nuova Mafia, che chiama rapporto dei 162. Poi inizia una lunga serie di arresti, di indagini, anche in collaborazione con la Guardia di Finanza, che hanno come obiettivo quello di appurare eventuali collusioni tra politica e Cosa Nostra.
Per la prima volta, con una telefonata fatta ai carabinieri di Palermo a fine agosto, Cosa Nostra sembrò annunciare l’attentato al Generale, dichiarando che dopo gli ultimi omicidi di mafia l’operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa.
Alle ore 21.15 del 3 settembre del 1982, la A112 bianca sulla quale viaggiava il prefetto, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata, in via Isidoro Carini, a Palermo, da una BMW dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47 che uccisero il prefetto e la giovane moglie.
Nello stesso momento l’auto, con a bordo l’autista e agente di scorta, Domenico Russo, che seguiva la vettura del prefetto, veniva affiancata da una motocicletta dalla quale partì un’altra raffica che uccise Russo.
Fonte
L’omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa si iscrive in un contesto oscuro, e decisamente inquietante.
Il generale, uomo delle istituzioni come pochi altri, che aveva dedicato la vita all’arma dei carabinieri e aveva combattuto con successo il terrorismo rosso, andò a Palermo come prefetto sull’onda di contrasti interni all’Arma stessa, dove era stato relegato a un ruolo secondario.
Era sicuramente un personaggio scomodo, inflessibile e per nulla incline ai compromessi, deciso a difendere in ogni modo le istituzioni di cui si sentiva primo rappresentante e responsabile.
Fu inviato a Palermo e già andandoci sapeva di non avere un appoggio politico compatto, quello stesso appoggio che gli aveva consentito di combattere con successo l’eversione.

Dalla Chiesa non aveva scorta, e il figlio Nando afferma che questa era una scelta precisa, una strategia: non poteva mostrare di temere per la propria vita se voleva infondere coraggio nei cittadini. A Palermo cominciò ad andare nelle scuole, parlò con i sindaci della provincia, cercò insomma di creare intorno a sé un contesto civile di lotta alla mafia, consapevole che non l’avrebbe sconfitta se non rendendo evidente e palpabile che lo Stato c’era, era presente e avrebbe combattuto. Nella famosa intervista a Giorgio Bocca dichiarò: “Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati.”.
Anche quell’intervista faceva parte della sua strategia, sempre secondo il figlio Nando, in pratica stava mettendo in chiaro i suoi intenti, giocava a carte scoperte per chi doveva capire. E chi doveva capire lo lasciò – volutamente – solo. Basta leggere quest’articolo di Saverio Lodato, dove il giornalista rievoca i retroscena dell’intervista che il generale gli concesse, le difficoltà che incontrò per parlare con lui, per rendersi conti delle forze che si combattevano intorno a quest’uomo integerrimo e scomodo.

Scrisse il generale nel suo diario, in merito alla sua nomina a prefetto in Sicilia (la citazione è tratta dagli atti del maxiprocesso):
“Mi sono trovato […] al centro di una pubblica opinione che ad ampio raggio mi ha dato l’ossigeno della sua stima e di uno Stato che affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia e una politica mafiosa, ma all’uso e allo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti; che poi la mia opera possa divenire utile, tutto è lasciato al mio entusiasmo di sempre, pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi, pronti a lasciarmi solo nelle responsabilità che indubbiamente deriveranno e anche nei pericoli fisici che dovrò affrontare”.

Parole amarissime, e molto lucide, che dicono quanto avesse chiaro il quadro della pericolosità non tanto della stessa mafia, ma dei poteri politici che erano ad essa contigui, in primis Andreotti, con il quale nel diario registra un incontro che il senatore ha poi sempre negato (Dalla Chiesa doveva essere matto a registrare nel diario, e a parlare con il figlio Nando, di un incontro mai avvenuto, ma tant’è). Dice Dalla Chiesa:
“sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori”.
Nell’intervista a Bocca dichiarò “Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è isolato.”

Il giudice Scarpinato, in Il ritorno del Principe, afferma: “una molteplicità di fatti convergenti mi induce a ipotizzare che la strage di via Carini rientrasse nel «gioco grande» per interessi superiori che solo in parte convergevano con quelli dell’alta mafia”.
La base militare della mafia, come commentarono poi gli uomini d’onore, subì mugugnando un ordine che veniva dall’alto, anche perché nei suoi centoventi giorni di insediamento Dalla Chiesa non si era interessato a loro. Pare che prima di morire Ciancimino abbia dichiarato che i cugini Salvo gli avevano detto che quella strage era stata voluta dall’alto e la mafia aveva dovuto accollarsi sia l’organizzazione dell’attentato sia le sue conseguenze, perché si addossò tutta la colpa.
Quella strage è atipica per molti versi: non rispondeva agli interessi della mafia militare, fu preceduta e seguita da una serie di telefonate a giornali locali che ne annunciavano la messa in atto e la conclusione (mai era accaduto e mai accadrà poi che Cosa Nostra annunciasse e poi rivendicasse pubblicamente un omicidio), fu uccisa volutamente la moglie del generale (i killer girarono intorno all’auto per spararle), mentre di solito l’uccisione di donne era sempre stata accidentale, perché si trovavano insieme al marito quando l’attentato era stato eseguito.
Anzi, recentemente sempre Scarpinato affermato che Emmanuela sia stata volutamente uccisa per impedire che rendesse pubblici i documenti del marito. Dice Scarpinato: “Emanuela Setti Carraro non morì perché si trovava nella traiettoria di sparo di Carlo Alberto Dalla Chiesa: i killer fecero il giro della macchina e la uccisero venendo meno alla tradizione che negli omicidi di mafia le donne non si uccidono se non necessario. Quindi bisognava tappare la bocca a una possibile testimone di documenti scottanti.”.

La madre di Emanuela Setti Carraro dichiarerà al processo Andreotti che la figlia le aveva detto di essere a conoscenza di fatti gravissimi. Non solo, la cameriera dei Dalla Chiesa dichiarò di avere assistito a una conversazione fra i coniugi dove il marito diceva ad Emanuela “se mi succede qualcosa tu corri dove tu sai e prendi quello che c’è, quello che sai tu”.
Immediatamente dopo l’omicidio e prima dell’arrivo dei magistrati qualcuno si introdusse nel loro appartamento e svuotò la cassaforte.

Leggere e revocare quest’omicidio mi fa sentire impotente, impotente verso quello che Falcone chiamava “il gioco grande”, dove un uomo tutto d’un pezzo e disposto a sacrificare tutto fu invece sacrificato in nome di interessi occulti e oscuri, che continuano a minare alle fondamenta questo nostro disgraziato paese.

Ora vorrei ricordarlo con le parole di un giornalista, Saverio Lodato, molto più bravo di me a raccontarlo, di un magistrato che con lui lavorò, Gian Carlo Caselli e di suo figlio, Nando Dalla Chiesa, o meglio con lo sguardo di un giovane carabiniere…
«Ma chi crede di essere? Nembo Kid?», fu questo il primo saluto che la Palermo mafiosa e paramafiosa rivolse al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa qualche giorno dopo il suo insediamento come prefetto in una città sconvolta dall'uccisione di Pio La Torre segretario del PCI siciliano. "Nembo Kid" era molto noto alle cronache italiane dell'epoca, essendo stato l'uomo forte contro il terrorismo, il carabiniere, come diceva di se stesso, che aveva gli alamari «cuciti sulla pelle». Su esplicita richiesta del presidente del consiglio Giovanni Spadolini e del ministro degli interni Virginio Rognoni, Dalla Chiesa si insediò a Villa Whitaker, sede della Prefettura, con sei giorni di anticipo, proprio perché la mafia, avendo assassinato La Torre, si stava preparando all'ennesima escalation contro i rappresentanti dello Stato in terra di Sicilia. Iniziò così il calvario dei suoi "cento giorni a Palermo", che anni dopo sarebbe diventato il titolo del film di Giuseppe Ferrara sulla sua tragica fine. Cento giorni spesi a cercare di dipanare la matassa della nuova mafia. Mafia, sia detto per inciso, che "Nembo Kid" aveva avuto modo di conoscere quando negli anni 60 aveva guidato i nuclei antibanditismo proprio a Corleone, quella "Mafia Town" da cui stavano già spiccando il volo i boss che presto avrebbero imposto il loro dominio su Cosa Nostra. Cento giorni trascorsi a scartabellare vecchi rapporti, vecchi dossier di intelligence, nella convinzione - come disse apertamente nella sua prima conferenza stampa a Palermo - che non ci fosse nulla di nuovo sotto il sole, e che la drammatica attualità di quei giorni affondasse le sue radici nei decenni precedenti quando lo Stato aveva lasciato incancrenire le piaghe del fenomeno criminale denominato "mafia". Cento giorni, però, anche spesi in un martellante appello all'opinione pubblica cittadina affinché venisse rotto il muro dell'omertà e si desse finalmente un briciolo di fiducia agli uomini nuovi che per la prima volta cercavano di opporsi allo strapotere delle cosche. In poche parole: furono i cento giorni di un "uomo solo". Un uomo solo che prendeva il taxi per tentare di non dare nell'occhio. Un uomo solo che non accettò mai un invito a colazione dagli esponenti di quei salotti che pur definendolo dietro le spalle un arrogante "Nembo Kid" ben volentieri lo avrebbero frequentato per prendergli più facilmente le misure. Un uomo solo che persino in Prefettura veniva visto da funzionari e sottoposti, per la prima volta costretti a lavorare per davvero, come fumo negli occhi. E la mafia? La mafia in quei giorni gli faceva trovare cadaveri a ogni angolo di strada. Delimitava il "suo" territorio a colpi di calibro 38 e raffiche di kalashnikov, come i cani delimitano il territorio facendo la pipì. Non era difficile intuire che l'uomo solo non sarebbe andato lontano.
Saverio Lodato 3 Settembre 2005, L’Unità
Per anni, dovendomi occupare (Giudice istruttore a Torino) di «Brigate rosse» e «Prima linea», ho avuto l'opportunità di lavorare fianco a fianco con il generale Dalla Chiesa e con i suoi uomini. Dire che ho imparato da loro un sacco di cose è persino banale. Mi limito a ricordarne una per tutte: la capacità di mettersi in gioco direttamente, di spendersi senza risparmio, di provare sempre a governare le situazioni senza subirle.
Più volte mi è capitato di dovermi recare d'improvviso, magari in piena notte, nella caserma in cui erano custoditi
(per i necessari sviluppi investigativi) i reperti rinvenuti nei covi ancora «caldi». Quasi sempre trovavo il generale nel suo ufficio, intento a piantare e spostare bandierine multicolori su un'enorme carta topografica, seguendo un suo disegno d'intervento sul territorio: segno che non staccava mai e che con l'esempio sapeva motivare come pochi altri i suoi collaboratori.
Ciò premesso - ricordando anche quest'anno la strage di mafia del 3 settembre del 1982 che causò la morte del generale, della moglie Emanuela e del loro autista Domenico Russo - vorrei tracciare di Carlo Alberto Dalla Chiesa un ritratto non troppo convenzionale.
Prima di tutto occorre dire che era un carabiniere tutto d'un pezzo.
Spesso amava dire che gli alamari se li sentiva cuciti sulla pelle, più che sulla divisa. Ma il rispetto della gerarchia militare non gli impediva di essere intelligentemente duttile. Quando le Br sequestrarono il giudice Sossi (1974), venne istituito un Nucleo speciale -di fatto comandato da Dalla Chiesa – con l'incarico di individuare gli autori di quello specifico delitto. Ebbene, Dalla Chiesa in un certo senso «disobbedì», perché non si limitò a cercare i sequestratori. Quel che si mise a cercare erano le Br come gruppo organizzato, in forza di un’intuizione vincente ma per quei tempi rivoluzionaria (mai nessuno l'aveva fatto prima). Solo ricostruendo le caratteristiche logistiche
ed operative della banda armata si sarebbero potuti «decifrare » i singoli delitti (sequestro Sossi compreso), altrimenti destinati a restare avulsi dal contesto che li aveva prodotti e perciò perennemente avvolti nel buio. «Disobbedendo», le Br Dalla Chiesa le trovò davvero e le disarticolò in profondità, contribuendo in modo determinante alla cattura e condanna dei «capi storici», responsabili anche del sequestro Sossi.
Carabiniere a 24 carati, professionista della repressione nel rispetto delle regole, sapeva anche che polizia e magistratura - da sole – contro il crimine organizzato non possono tutto. Aveva constatato, a Torino, come l'inizio del declino dell'eversione brigatista fosse coinciso con la stagione delle assemblee che in progresso di tempo (spazzando via ambiguità o contiguità scaturenti dalla miope, se non peggio, teorizzazione dei «compagni che sbagliano») aveva contribuito al decisivo isolamento politico dei terroristi. Sapeva bene, quindi, quanto sia fondamentale coinvolgere la società civile, per renderla consapevole dei terribili guasti che la violenza organizzata produce sulla qualità della vita di ciascun cittadino. Non è un caso, allora, che il carabiniere - una volta nominato superprefetto antimafia a Palermo - abbia impiegato gran parte dei 100 giorni trascorsi in questa città ad incontrare studenti (dalle elementari all'università), familiari di giovani con problemi di tossicodipendenza e maestranze dei cantieri navali. E si spiega anche come sia stato non un sociologo ma proprio
quel carabiniere tutto d'un pezzo, uno «sbirro» nato (uso il termine, ovviamente, con assoluto rispetto), a lasciarci in eredità un insegnamento che costituisce ancora oggi una pietra miliare nella lotta alla mafia. Quello secondo cui per sconfiggere la mafia occorre anche «un abile, paziente lavoro psicologico per sottrarle il suo potere ». Perché«gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti».Diritti da assicurare, se si vuole «togliere potere alla mafia» e fare «dei suoi dipendenti i nostri alleati» (così in un'intervista resa dal gen. Dalla Chiesa a Giorgio Bocca pochi giorni prima del suo assassinio).
Nello stesso tempo, nessuno come Dalla Chiesa sapeva essere «nei secoli fedele» (alla legge, allo stato, al dovere, all'interesse pubblico...). Nel senso del rifiuto di ogni compromesso, di ogni tentazione all'accomodamento e al quieto vivere, anche quando si dovessero effettuare scelte o percorrere strade non proprio gradite «in alto loco». Furono i suoi uomini, ad esempio, che arrestarono in Francia il figlio di un potente uomo politico dell'epoca, rifugiatosi all'estero non appena il «pentito» Roberto Sandalo cominciò a picconare «Prima linea», rivelando identità e ruoli di tutti i militanti che conosceva, fra cui il «comandante Alberto» (nome di battaglia di MarcoDonat Cattin).
Nel diario di Dalla Chiesa si legge che fu lui personalmente- in occasione dell'insediamento come prefetto di Palermo - ad ammonire Giulio Andreotti che non avrebbe avuto riguardi per gli uomini della sua corrente operanti in Sicilia, già allora «chiacchieratissimi» per i loro rapporti con mafia e dintorni.
Coloro che hanno lo stomaco forte e riescono a digerire tutto o quasi in tema di rapporti fra mafia e politica dovrebbero avere il buongusto – almeno oggi -di astenersi dal celebrare il sacrificio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sarebbero voci stonate, decisamente incompatibili con la grandezza dell'uomo caduto a Palermo 24
anni fa e con il rispetto dovutogli.
Gian Carlo Caselli, 3 Settembre 2009, L’Unità
Mi vien da dire che morire per uno Stato come l’ho rivisto io nel mio lavoro estivo è quasi una follia. Che vadano a fottersi le istituzioni di Mannino, di Cuffaro, di Dell’Utri, dei giornalisti servi, dei parlamentari della sinistra che regalarono alla mafia tra il ’96 e il 2001 leggi e provvedimenti di favore come se piovesse. Poi mi dico che per uno che ci crede anche morire è assolutamente normale. E che guai se ci domandassimo ogni volta che facciamo qualcosa di coraggioso se ne valga la pena oppure no. Me lo dico e me lo nego e poi me lo ridico. […]

Ieri però mi ha restituito tutto un giovane maresciallo dei carabinieri, poco più che trentenne. Sono andato a trovare un investigatore importante per chiarirmi alcune ipotesi delicate del mio libro. Il maresciallo è sceso ad accogliermi. Gli ho chiesto scusa del disturbo, lui mi ha detto “per me è un onore”. Quando me ne sono andato mi ha detto “agli ordini”, e ho capito dal suo sguardo che lo stava dicendo al generale che non ha mai conosciuto.
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