martedì 25 settembre 2012

25 Settembre 1988
Antonino Saetta 66 anni, magistrato
Stefano Saetta 35 anni, figlio del magistrato

Antonino Saetta (Canicattì 1922 – Caltanissetta 25 settembre 1988) è stato un magistrato italiano. Magistrato esemplare per riservatezza, saggezza e umanità, dedito al compimento del proprio dovere fino all’estremo sacrificio. “Brillante fu la sua carriera in magistratura, con trasferimenti anche al Nord; ma della città natia, come scrisse di lui il “Giornale di Sicilia”, “mai si era rassegnato a perdere le radici, nonostante le sue peregrinazioni”. A sessantasei anni, Antonio Saetta, presidente di Corte d’appello a Palermo, avrebbe dovuto presiedere il nuovo maxi processo, in appello contro la famiglia Greco a tutti gli altri di Cosa nostra. E’ stato ucciso il 25 settembre del 1988, poco dopo le 23 di sera, insieme al figlio Stefano di trentacinque anni, totalmente inabile. Il giudice Antonio Saetta era presidente di sezione della Corte d’appello di Palermo e si trovava a Caltanisetta per il battesimo del nipote. Non aveva mai accettato scorte. Nel 1985 aveva presieduto la corte durante il processo di secondo grado per l’assassinio del giudice Rocco Chinnici: la sentenza aveva confermato l’ergastolo per i boss Michele e Salvatore Greco, noti come il “Papa” e il “senatore”.

Antonino Saetta è stato un giudice italiano, nato a Canicattì, in terra di Sicilia, nel 1922. Essere un giudice e nascere in Sicilia spesso equivale a morire nel tentativo di far trionfare le leggi basilari della Giustizia e di compiere fino in fondo il proprio dovere. Antonino Saetta non è certo un’eccezione a questa regola.
Egli era un magistrato “silenzioso”: non amava rilasciare interviste, non scriveva su giornali o riviste, non lo coinvolgevano le vicende politiche e non indossava le vesti del paladino della Giustizia. Amava solo compiere il proprio dovere; così come amava i classici, le opere d’arte e suo figlio Stefano, un ragazzo che, in tenera età, aveva avuto a che fare con problemi psico-neurologici. Il padre trascorreva tutto il suo tempo libero con il figlio ed è per lui che, nel 1976, decise di trasferirsi a Genova. La lontananza dalla terra di trincea però, non fossilizzò il suo lavoro di giudice, che, invece, proseguì sulla cattedra della Corte d’Appello di Genova, impegnata, in quei difficili anni, nella lotta di contrasto alla Brigate Rosse.
Tornato a Caltanisetta, dovette presiedere il processo Chinnici, che si concluse con l’ergastolo inflitto a Salvatore e Michele Greco, per poi approdare a Palermo come Presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello.
Negli anni Ottanta, arrivarono sulla sua scrivania le carte riguardanti il processo contro gli assassini del capitano Emanuele Basile, ucciso a Monreale il 4 maggio del 1980. Gli imputati erano già stati precedentemente assolti, in risposta al tentativo di Cosa nostra di avvicinare rappresentanti della Giustizia, tra cui lo stesso Presidente della sezione d’Assise, per cercare un attenuante, un compromesso che garantisse l’impunità ai killer e la vita ai servitori dello Stato. Questa “simbiosi” però, si ruppe quando gli efferati killer della mafia si trovarono di fronte quel giudice tanto diverso dagli altri, lontano anni luce dal primitivo concetto di collusione e sottomissione alla criminalità.

Con la parola “ergastolo” si concluse anche questa sentenza.
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È per quella fermezza permeata di coraggio e onestà, che Nino Saetta era stato scelto come giudice che doveva presiedere il processo d’Appello del maxi processo di Palermo.
Totò Riina e i suoi uomini, che già presagivano la vendetta per la sentenza contro gli assassini del capitano Basile, erano consapevoli che la speranza di un’assoluzione per loro non era solo lontana, ma irraggiungibile. Per questo, a dodici giorni dall’omicidio del giudice Giacomelli, Cosa nostra decise di mandare all’altro mondo anche Antonino Saetta. Sulla statale Agrigento-Caltanisetta, una BMW rubata affiancò l’auto (non un’auto blindata con la scorta, ma una semplice Lancia Prisma) del giudice, che era diretto, insieme al figlio Stefano, a Palermo, dove lo aspettava l’altro figlio, Roberto. Una carrellata di colpi di arma da fuoco pose fine alla vita dei due.
Stefano, vittima inconsapevole di una realtà spregevole che non risparmia nessuno e Antonino, condannato a morte per le condanne che lui stesso aveva emanato; perché era una persona “normale”, un uomo che amava la propria famiglia, il proprio lavoro e che era abituato a fare il proprio dovere, a non piegarsi alle logiche servili di una società del tutto schiava della criminalità organizzata. Un uomo normale in un mondo di folli.
Oggi Antonino Saetta incarna il modello a cui si ispirano tutti quei magistrati che, come lui, non si piegano al compromesso e donano la propria vita a quella causa utopica che è la Giustizia.
Se tutti noi scegliessimo di vivere con quel briciolo di coraggio in più, quell’utopia potrebbe diventare realtà.
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