venerdì 14 settembre 2012

14 Settembre 1988
Alberto Giacomelli 69 anni, magistrato in pensione

Negli anni di fuoco della lotta tra Stato e Cosa nostra, anche se a volte il confine tra quello che dovrebbe essere il bene (lo Stato) e la mafia (Cosa nostra) è molto sottile, un'altra toga venne macchiata di sangue nella trincea siciliana. Si tratta di un magistrato quieto, tranquillo. Un magistrato il cui nome lo si legge solo nella lunga lista dei giudici ammazzati dalla mafia. Si tratta di Alberto Giacomelli, aveva sessantanove anni quando venne freddato dal piombo di Cosa nostra. La notizia del suo assassinio lasciò allibiti i parenti e l’intera città, perché quello che era stato colpito in territorio di mafia, non era un acerrimo nemico delle cosche, uno che piombava, in prima linea, sulle indagini che vedevano imputati boss e picciotti di quartiere. A dirla tutta, non era neanche più un magistrato. Trapanese di nascita, Alberto Giacomelli trascorse più di quarant’anni della sua vita ad amministrare la Giustizia nell’hinterland dove era nato e aveva trascorso la sua giovinezza. Era stato pretore a Calatafimi ed era approdato a Trapani come sostituto procuratore, per poi rivestire la carica di presidente di sezione. Non si era quasi mai occupato di vicende di mafia; era stato un magistrato ordinario, un giudice “scarsamente aggiornato”, lo definì qualche collega, e nel 1987 decise di appendere la toga al chiodo e andarsene in pensione. Ciononostante, il 14 settembre del 1988, quindici mesi dopo il pensionamento, il corpo di Alberto Giacomelli fu ritrovato sulla strada provinciale che conduce a Trapani, accanto alla sua Fiat Panda; come dare una risposta agli interrogativi di famigliari e concittadini?

Quel giudice moderato e innocuo, anche se oggi è un perfetto sconosciuto per moltissimi, nel 1985 compì un gesto che, se non lo vogliamo definire eroico, possiamo quantomeno qualificarlo come coraggioso e onorevole: egli pose la sua firma per far sequestrare una casa di Mazara del Vallo intestata ad un certo Gaetano che di cognome faceva Riina e che di Totò era il fratello. Una firma che lo condannò a morte, perché il capo dei capi non perdonava nulla, tantomeno un torto alla sua famiglia. Il commando di morte partì alle otto di mattina del 14 settembre per raggiungere il giudice sulla provinciale, costringerlo a frenare e concedergli solo il tempo di rendersi conto che la vita stava davvero per abbandonare il suo corpo. Un uomo che non si aspettava di morire, un magistrato che non aveva sfidato a volto aperto Cosa nostra, ma un servitore dello Stato che quando il destino lo aveva posto dinanzi ad una prova di coraggio non si era tirato indietro. Non aveva badato ai nomi, Alberto Giacomelli. Aveva compiuto il suo dovere quando era stato chiamato a farlo e per questo fu ammazzato. Il suo non può restare un nome affisso al bordo di una strada, una storia caduta nell’oblio, ma deve diventare per tutti la testimonianza dell’aspetto brutale e vendicativo della mafia e deve indurre alla riflessione un popolo che dei nomi, specie di quelli dei potenti, pare avere sempre più paura.
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