venerdì 28 settembre 2012

28 Settembre 1970
Paolo Ficalora 59 anni, capitano di lungo corso e poi imprenditore

Paolo Ficalora (1933 – Castellammare del Golfo, 28 settembre 1992) è stato un imprenditore italiano, ucciso per mano della mafia.
Ficalora, capitano di lungo corso e poi gestore di un residence, fu ucciso dalla mafia nel 1992. Per lungo tempo la morte del capitano Ficalora è rimasta senza colpevoli e movente, lasciando spazio a supposizioni e illazioni. A raccontare i veri motivi del suo assassinio è stato, nel corso del processo, l’ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia. Ficalora fu ucciso per avere ospitato nel residence che gestiva il superpentito di Cosa Nostra Totuccio Contorno, nel periodo in cui era tornato in Sicilia. Del suo ospite ignorava l’identità che scoprì solo successivamente. Ficalora venne assassinato, con diversi colpi di arma da fuoco, proprio davanti a quel residence in cui aveva dato ospitalità al pentito, dal mafioso Gioacchino Calabrò.


Avete mai visto la lama della falce della Morte sfiorarvi e tagliare la vita della persona che più amate?
Io sì, io l’ho vista.
Vita D’Angelo Ficalora


1. Un morto di “serie B”
La serata è afosa, sebbene sia quasi mezzanotte e la piacevole brezza che spira dal mare attenui la calura estiva. La Peugeot 205 procede stancamente seguendo la luce dei fari mentre illuminano il viottolo che porta al Villaggio del Capitano, un complesso turistico in contrada Ciauli, nel comune di Castellammare del Golfo, alle porte della riserva naturale dello Zingaro. Alla guida dell’auto c’è il capitano della marina mercantile Paolo Ficalora, accanto a lui la moglie, Vita D’Angelo. Tornano da un’insolita cena, frutto d’un invito inatteso, a casa del loro commercialista.
«Ecco, siamo di nuovo al ranch, sei contenta?», chiede l’uomo fermando l’auto davanti all’ingresso del villaggio. Lei lo guarda, gli sorride, poi apre lo sportello e scende per aprire il cancello. E scoppia l’inferno: uno due tre spari… Infine, il colpo di grazia. Poi la notte inghiotte i sicari. Mentre la donna si dispera. È lunedì 28 settembre 1992.
«Voglio solo che mio marito sia riconosciuto vittima innocente della mafia. Non mi interessano i risarcimenti economici, ma pretendo che lo Stato certifichi la sua completa estraneità alla mafia». Le ci sono voluti più di dieci anni, ma alla fine c’è riuscita, la signora D’Angelo Ficalora, a restituire l’onore al marito assassinato. Almeno l’onore. La vita se la sono presa due killer di Cosa nostra, quella notte di fine settembre.
«Morto nella guerra tra clan rivali», scrivono i giornali del giorno dopo. «Morto nella guerra tra clan rivali», annunciano i Tg delle tv locali. «Morto nella guerra tra clan rivali», s’intestardiscono gli investigatori.
Prima ti ammazzano, poi ti diffamano. Una tecnica più che collaudata.
«Tutto perché è stato ucciso con la stessa pistola che qualche tempo prima aveva ammazzato un mafioso ad Alcamo», ricorda la signora. E aggiunge, volutamente provocatoria: «Perché nessuno hai mai detto che il generale dalla Chiesa era mafioso? Non lo hanno forse assassinato con lo stesso kalashnikov col quale avevano ammazzato il boss Alfio Ferlito?!». Già, perché? Forse perché ci sono morti di seria A e morti di serie B. E il capitano Ficalora rientrerebbe in questa seconda categoria.

2. Una tranquilla famigliola
Quattro anni prima, proprio sul finire del 1988, un conoscente aveva chiesto ai Ficalora se fossero disposti ad affittare una villetta del ranch a una famiglia di suoi amici – marito, moglie e due bambini – che aveva l’esigenza di venire ad abitare in zona: stavano finendo di costruire la casa dove sarebbero andati ad abitare, su un terreno di loro proprietà, nei pressi di Calatafimi, a una ventina di chilometri di distanza.
Il capitano quelle dieci villette le ha costruite in altrettanti anni, proprio per affittarle e, dunque, è felice di avere degli inquilini anche in inverno. Sebbene la cosa sia insolita, quella coppia sembra gradevole, e i due bambini – un ragazzino e una ragazzina – li rendono anche rassicuranti: lui, Agostino D’Agati, 33 anni, è un imprenditore agricolo di Villabate, nel Palermitano; lei, Gioacchina Mancarella, 29 anni, è figlia di un costruttore edile, Pietro, la cui impresa sta edificando la casa in cui dovrebbero trasferirsi. Così gli dicono. La famiglia D’Agati pur abitando a un centinaio di chilometri di distanza, vuole seguire personalmente i lavori e restare unità, perciò intende abitare vicino.
Come di consueto, i Ficalora segnalano al commissariato di polizia di Castellammare la presenza della famiglia D’Agati in una delle villette di loro proprietà; gli agenti annotano la locazione nell’apposito registro.
I Ficalora durante l’inverno abitano a Palermo, dove la signora D’Angelo è direttrice didattica in una scuola elementare; però la domenica, specie se il tempo è bello, vanno volentieri al ranch. Vuoi perché hanno subìto vari danneggiamenti, vuoi perché c’è quella famigliola. Tre o quattro volte, tra gennaio e marzo dell’89, trovano un paio di persone che i D’Agati gli presentarono come «parenti», tali Gaetano e Salvatore. Gaetano, tra l’altro, è fissato con la caccia e il capitano, condividendone la passione, si ritrova a chiacchierare amabilmente con lui.
A metà maggio i D’Agati “completano la casa”, dicono, e lasciano il ranch.
Non li rivedranno più.
Non di persona, almeno.

3. Il Trapanese è un “buco nero”
Castellammare del Golfo è in provincia di Trapani, terra di mafia, di massoneria, di logge coperte, di servizi segreti. A due passi da Castellammare, nell’85, è stata scoperta la più grande raffineria d’eroina mai individuata in Europa; poco più in là operava la cellula siciliana della Gladio; da quelle parti c’è la pista d’atterraggio servita per i più loschi traffici internazionali. La stessa pista che compare nell’inchiesta sull’omicidio di Mauro Rostagno, la cui scoperta potrebbe essergli costata la vita. Trapani è la provincia dei misteri, della loggia segreta Iside 2, inaugurata da Licio Gelli. Trapani è un “buco nero” sul quale le indagini sono sempre rimaste in superficie; è la patria di un pezzo di Cosa Nostra ancora più potente di quella palermitana, «un luogo dove la mafia ha in tutti i sensi un controllo capillare del territorio», sosteneva il giudice Giovanni Falcone.
«Da Castellammare partono più telefonate per gli Stati Uniti che per il resto d’Italia», mi confidò anni fa un investigatore che aveva fatto parte della Mobile della questura di Palermo al tempo di Beppe Montana e Ninni Cassarà. E per essere certo che avessi colto la vera essenza di quel particolare – le telefonate – mi ricordò i consolidati, secolari legami tra le famiglie mafiose del luogo e quelle degli States.
Nel 2003 il pentito Nino Giuffrè ha messo a verbale una storia che ha dell’incredibile. I picciotti di New York, negli anni Ottanta, erano diventati delle vere pappamolle, indegni della tradizione di Cosa Nostra. I vecchi boss newyorchesi decisero allora che, affinché diventassero veri uomini d’onore, c’era bisogno di mandarli a scuola di mafia. Dove? A Castellammare del Golfo. Roba da film. I magistrati palermitani che hanno interrogato il pentito forse hanno pensato la stessa cosa: roba da film. Ma con lo scrupolo che li contraddistingue, decidono di verificare. E dagli Usa arriva la conferma. Fonte: Fbi.

4. I “consigli” del capitano dell’Arma
Dopo una trentina d’anni trascorsi a bordo di navi di ogni stazza, dopo avere solcato buona parte dei mari del pianeta, il capitano Paolo Ficalora, a 52 anni, nel 1987, decide che è giunto il momento di restare coi piedi all’asciutto. Smette di navigare, vende i due appartamenti che aveva acquistato a Messina e si dedica al ranch. È un uomo tutto d’un pezzo, il capitano, uno che non sopporta le prepotenze, uno dei tanti senza padroni e senza padrini. Un cane sciolto. Ha faticato tutta la vita, ha tirato su le villette mattone dopo mattone: i terreni – trentacinquemila metri quadri a due passi dal mare – li aveva ereditati la signora D’Angelo, i soldi li hanno raggranellati piano piano, anno dopo anno, un imbarco dopo l’altro, uno stipendio dopo l’altro, un prestito dopo l’altro. Anche con l’aiuto dei due figli.
Ficalora, da anni, riceve pressioni affinché venda il suo ranch; ha subìto incendi, danneggiamenti, furti, ma non ha ceduto. Gli hanno persino ucciso il fedele pastore tedesco. Ha resistito.
Quell’area fa gola a tanti. È in una zona incantevole dal punto di vista paesaggistico: alle spalle la riserva dello Zingaro, di fronte il mare Tirreno. A Castellammare il piano regolatore generale è di là da venire e con una piccola variante quei terreni possono diventare un’autentica miniera, se intendi edificare. Altro che le dieci villette monofamiliari immerse tra i pini e gli ulivi. È ciò che pensa, probabilmente, chi vuole mettere le mani su quell’area.
«Negli ultimi tempi mio marito era preoccupato; lui che era sempre allegro, dalla battuta facile, sarcastico, pungente, reagì con stizza quella volta che gli chiesi cosa lo angustiava. Tu non sai le preoccupazioni che ho, mi disse. E poi silenzio. Io pensai che fosse preoccupato per le spese che avevamo affrontato, perché avevamo chiesto dei prestiti ai nostri figli per completare le ultime tre villette. Non potevo immaginare… Così come non capii quando mi chiese: Se dovessi morire, tu che faresti? Io lo guardai incredula e gli rigirai la domanda: e tu cosa faresti, se morissi io? Io resterei, fu la sua risposta». Mastica amaro la vedova Ficalora. Ma non smette di raccontare.
Racconta di quell’ufficiale dei carabinieri che un giorno va a trovarla e le dice che se suo marito non è ancora stato riconosciuto vittima innocente della mafia era perché «loro sono dappertutto». Loro chi? «Ma non ho avuto la prontezza di spirito per chiederglielo», ammette la signora. «Insieme a me c’erano mia figlia e suo marito. Viene a trovarmi questo capitano dei carabinieri per spiegarmi che io devo dare il giusto peso alle cose, devo scegliere: o le cose o la vita. Io gli ho risposto che le cose non mi interessano, ma che qui c’è il sangue di mio marito e io ho il dovere di restarci. E lui: Sì, lei dice così, però quando toccheranno i suoi figli lei si calerà anche le mutande. Questo, un capitano dei carabinieri, mi viene a dire. Io sono andata a fare la mia bella denuncia al magistrato. Ma il capitano è rimasto al suo posto».
Sono trascorsi dieci anni dalla prima volta che ci ho parlato, con la signora D’Angelo. Era presente anche la figlia, 32 anni, funzionaria in un ente pubblico. Sono andato a rileggermi gli articoli che ho scritto. Nel primo – gennaio 1995 – annoto: «Parlano anche di quello strano inquilino, uno che i magistrati conoscono bene, che ha abitato in una delle loro villette, durante i primi mesi del 1989. Non sapevano chi fosse, lo hanno scoperto dopo, vedendolo sui giornali, spiegano madre e figlia. Non dicono di più. I magistrati non vogliono». Ci ho messo cinque mesi a capire chi fosse quell’uno che i magistrati conoscono bene.

5. Buscetta: «Gli chiesero di tornare»
La sera del 26 maggio del 1989 tutti i telegiornali aprono con la crisi di governo; a seguire, una clamorosa notizia: «Arrestato il pentito Contorno». E i giornali dell’indomani non sono da meno. Quelli siciliani, puntano direttamente sul «Pentito con licenza di uccidere».
Ai magistrati che lo interrogano dopo l’arresto, Totuccio racconta di essere stato in Sicilia, a Palermo, una prima volta, per una decina di giorni, durante il mese di marzo e una seconda a metà maggio (fino alla cattura). Di fronte alla Commissione antimafia cambia versione e colloca il primo viaggio nel mese di aprile. In entrambi i casi Contorno ha mentito. E probabilmente ha mentito anche su altro. Sul perché del ritorno in Italia. «Gli americani mi hanno tagliato l’assegno e sono dovuto tornare», ha sempre sostenuto lui. Ma c’è chi sostiene il contrario. Don Masino Buscetta, ad esempio, anche lui negli States, anche lui sotto protezione (mai revocata). Tenete presente che, nel 1984, prima di iniziare la sua collaborazione con la giustizia, Contorno chiede e ottiene di incontrare il grande pentito. Solo dopo avere ottenuto la sua benedizione comincia a cantare. È dunque plausibile – per non dire certo – che prima di decidere di tornare in Italia, Contorno abbia voluto consultare Buscetta. Lo pensano anche i giudici di Palermo. E vanno a interrogarlo.
Ecco un breve resoconto processuale, pubblicato dalla Gazzetta del Sud il 29 luglio 1989, a firma del cronista di giudiziaria Folorido Borzicchi: «Nei giorni scorsi, si ricorderà, vi venne letta la dichiarazione di Buscetta, raccolta in Usa dal presidente della corte d’Appello, Palmegiano, con la quale don Masino rivelava che Contorno era stato fatto tornare dagli italiani. Ieri mattina, alle 11, questa dichiarazione viene non più letta ma ascoltata così si sente il pugno sul tavolo di don Masino. Ho detto che fu fatto tornare! e giù il pugno». Buio completo, invece, su chi lo avrebbe fatto tornare. E, soprattutto, sul perché.

6. Le battaglie della vedova
La signora Vita D’Angelo, da quella sera del 28 settembre del 1992, ha un solo obiettivo: restituire l’onore al marito ammazzato da due killer e infamato nel più classico stile mafioso («marito infedele», «infame prezzolato», «corriere di armi per conto di Cosa Nostra»), vedergli riconosciuto che è stato solo una vittima innocente della mafia. Ma come fare? Da dove cominciare, quando le indagini non vanno oltre il «regolamento di conti tra clan rivali»?
Impiegherà mesi e mesi, la vedova del capitano della marina mercantile Paolo Ficalora, per ricostruire – prima nella propria memoria e poi “a verbale” – gli avvenimenti degli ultimi anni. E, ovviamente, nella ricostruzione della donna c’è posto anche per quella famigliola che prese in affitto una villetta del ranch alla fine del 1988 e per quei due “parenti” che, la sera del 26 maggio, lei e il marito, vedendo i Tg (e l’indomani sui giornali), riconobbero in Salvatore Contorno e Gaetano Grado. Nessuno le crede. Dopotutto, sul ritorno in Sicilia di Contorno hanno indagato l’Antimafia e tanti magistrati. Ci sono relazioni parlamentari, sentenze passate in giudicato. Dunque, la signora si sbaglia: non potevano essere Contorno e Grado, quei due. Punto.
Voi come vi sentireste?
Lei non si perde d’animo e continua la sua battaglia per la verità. Anche se intanto è additata come “rompiscatole”, “visionaria”, “pazza”. E forse rischia d’impazzire davvero, la vedova Ficalora, di fronte al muro di gomma che le si è parato davanti da quando ha messo a verbale quel nome: Salvatore Contorno.
Una sera di primavera del 1995 la signora rompe la consegna del silenzio impostale dai magistrati. Da Palermo va in onda Tempo reale, condotto da Michele Santoro. In una piazza del capoluogo siciliano ci sono l’inviato Sandro Ruotolo e diversi ospiti, tra i quali la direttrice Vita D’Angelo, 55 anni, da tre vedova di Paolo Ficalora. Ed è lì, davanti alle telecamere Rai, che la donna rende pubblico quel nome che rappresenta il vero e proprio tappo dell’inchiesta per l’accertamento della verità sull’omicidio del marito. Ora tutti sanno. Ma non succede nulla. Anche se, per la prima volta, in Procura c’è un pm, Gabriele Paci, che le crede.
7. Parlano i nuovi pentiti
Il 23 agosto del 1997, un quotidiano, riportando la notizia della collaborazione di Giovanni Brusca, scrive che il “boia di Capaci” sta svelando i retroscena dei delitti eccellenti e delle stragi… «Brusca – rivela la Repubblica – ha chiarito anche un altro “mistero”, quello relativo all’uccisione del capitano di lungo corso in pensione Paolo Ficalora, assassinato perché avrebbe dato ospitalità al pentito Totuccio Contorno».
Secondo Gioacchino La Barbera, un altro degli stragisti di Capaci poi pentito, il delitto sarebbe stato commesso da (o per conto di) Gioacchino Calabrò; sarebbe stato lo stesso Calabrò a dirlo, in sua presenza, ma senza specificare il movente. Calabrò: il custode della raffineria scoperta ad Alcamo dal giudice Carlo Palermo; l’uomo prima condannato poi assolto per la strage di Pizzolungo; il mafioso in contatto con Giovanni Grimaudo, Maestro Venerabile della loggia massonica coperta Iside 2, una piccola P2 trapanese che affratellava mafiosi, politici, funzionari di polizia e burocrati comunali.

8. Ucciso perché ostacolava i boss
Due processi e altrettante condanne: la prima, a 12 anni di carcere, nei confronti di Giovanni Brusca, reo confesso di essere il mandante dell’omicidio del capitano Paolo Ficalora; la seconda, nei confronti di Gioacchino Calabrò, boss trapanese, condannato all’ergastolo in quanto esecutore materiale del delitto.
«Di certo – scrive il giudice Giacomo Montalbano, nella sentenza che condanna Brusca, depositata il 3 gennaio 2003 – al capitano Ficalora si è, per oscuri motivi, voluto infliggere un supplizio ben più grave di quello estremo dallo stesso subìto, tormento che, travalicando i limiti della esistenza umana, avrebbe coinvolto quanto di più nobile ed elevato un uomo può avere: la dignità e l’orgoglio della propria onestà morale».
A mettere i Corleonesi sulla pista di Ficalora sarebbe stato un boss locale, Leonardo Cassarà (ucciso nel 1998): nell’89, avrebbe avvertito il clan di Riina della presenza di Contorno e Grado nel villaggio turistico. «La effettiva causale dell’efferata eliminazione del Ficalora – scrive il giudice Montalbano – risiede nell’essere costui entrato in rotta di collisione con gli interessi del Cassarà, riuscendo con la sua determinata azione di contrasto ad impedire che i poco chiari ed illeciti affari di un esponente di rilievo di Cosa nostra (lo stesso Cassarà, ndr) andassero in porto».
Il nome di Cassarà è tra quelli messi a verbale dalla vedova. Era lui che voleva mettere le mani sul ranch. È lui, secondo la ricostruzione processuale, ad avvertire i Corleonesi della presenza di Contorno e Grado a Castellammare del Golfo. E Cassarà sa bene che, così, ha decretato la condanna a morte del capitano.
«Dopo dieci anni di calunnie, è finalmente chiaro che mio marito è una vittima innocente della mafia. Restano, però, l’amarezza e il dolore per questo assassinio inutile». La professoressa Vita D’Angelo non riesce a non piangere ogni volta che parla del marito, Paolo Ficalora, ucciso la sera del 28 settembre 1992, proprio davanti ai suoi occhi. «Mio marito era orgoglioso della sua indipendenza politica e sociale, ed è morto senza sapere perché. Se ha fatto qualcosa che secondo i canoni della mafia non doveva, lo ha fatto inconsapevolmente».
Ci sono voluti dieci anni perché la verità emergesse in tutta la sua evidenza, dieci anni di calunnie nei confronti del marito («un supplizio ben più grave di quello estremo dallo stesso subìto», secondo il giudice Montalbano), di resistenze d’ogni tipo, di isolamento, di solitudine. Dieci anni in cui la signora ha persino rischiato di passare per visionaria, a causa d’un nome messo a verbale, quello dell’ex collaboratore di giustizia Totuccio Contorno.

9. Le bugie di Grado e Contorno
Anche Grado – che nel frattempo ha cominciato a collaborare con la giustizia – e Contorno vengono interrogati. Ecco le dichiarazioni di Gaetano Grado, del 29 dicembre del 2000: «Avevo conosciuto il Ficalora in quanto costui aveva affittato un villino a D’Agati Agostino, persona di Villabate a me molto vicina che avevo in precedenza affiliato (…). Il D’Agati nei primi anni 80 era proprietario di un terreno ubicato nella zona di Calatafimi, coltivato a vigneto, ed aveva deciso di cercare un appartamento da affittare per avere un punto di appoggio allorché si recava in zona. Fu proprio il Ficalora ad affittargli l’appartamento nella zona di Castellammare del Golfo, appartamento all’interno del quale io stesso sono stato a dormire alcune volte verso il finire degli anni 80, non ricordo allo stato esattamente in quale periodo. Il Ficalora, per quanto a mia conoscenza, era persona assolutamente estranea a Cosa nostra. (…) Io stesso ho parlato alcune volte con il Ficalora e ricordo di aver conosciuto anche la moglie di questi. (…) Escludo, per quanto a mia conoscenza che mio cugino Contorno Salvatore, una volta iniziato il suo rapporto di collaborazione con la giustizia, abbia mai trovato rifugio in Castellammare del Golfo ovvero in altre zone della provincia di Trapani».
Il 15 gennaio del 2001 anche Coriolano viene sentito dal giudice Montalbano. Ecco alcuni stralci della sua testimonianza: «Seppi della morte del Ficalora attraverso la lettura dei giornali. Tengo a precisare che non ho mai conosciuto il Ficalora ed escludo decisamente che quanto riportato dai giornali a proposito dell’assistenza datami dal Ficalora nell’89, corrisponda a verità. Escludo che Ficalora sia mai stato vicino al nostro gruppo o che ci abbia mai dato assistenza o aiuto. Preciso che io fui arrestato nel maggio ’89 e che nel corso di tale anno non mi sono mai recato in provincia di Trapani. Ho conosciuto invece D’Agati Agostino, un ragazzo molto vicino al nostro gruppo».
«Appare in realtà inspiegabile – scrive il giudice, nella sentenza che condanna Giovanni Brusca come mandante del delitto – il perché sia il Grado che il Contorno, nel loro percorso collaborativo, abbiano negato la circostanza relativa alla presenza del Contorno in Castellammare del Golfo a fronte delle lucide dichiarazioni della D’Angelo». E alla conferma proveniente da numerosi pentiti. Un mistero sul quale la Procura di Palermo ha avviato un’inchiesta che non è ancora approdata a nulla.
18 ANNI FA, L’OMICIDIO DI PAOLO FICALORA di Sebastiano Gulisano, 28 Settembre 2010