domenica 23 dicembre 2012

23 Dicembre 1984, Strage di Natale
Giovanbattista Altobelli 51 anni
Anna Maria Brandi 26 anni
Angela Calvanese in De Simone 33 anni
Anna De Simone 9 anni
Giovanni De Simone 4 anni
Nicola De Simone 40 anni
Susanna Cavalli 22 anni
Lucia Cerrato 66 anni
Pier Francesco Leoni 23 anni
Luisella Matarazzo 25 anni
Carmine Moccia 30 anni
Valeria Moratello 22 anni
Maria Luigia Morini 45 anni
Federica Taglialatela 12 anni
Abramo Vastarella 29 anni
Gioacchino Taglialatela 50 anni
Giovanni Calabrò 67 anni

La Strage del Rapido 904, o Strage di Natale, è il nome attribuito ad un attentato dinamitardo avvenuto il 23 dicembre 1984 presso la Grande Galleria dell’Appennino, ai danni del treno rapido n.904 proveniente da Napoli e diretto a Milano.
L’attentato è avvenuto nei pressi del punto in cui poco più di dieci anni prima era avvenuta la Strage dell’Italicus; per le modalità organizzative ed esecutive, e per i personaggi coinvolti, è stato indicato dalla Commissione Stragi come l’inizio dell’epoca della guerra di Mafia dei primi anni novanta del XX secolo.

L’attentato venne compiuto domenica 23 dicembre 1984, nel fine settimana precedente le feste natalizie. Il treno era pieno di viaggiatori che ritornavano a casa o andavano in visita a parenti per le festività.
Il treno intorno alle 19.08 fu colpito da un’esplosione violentissima mentre percorreva la direttissima in direzione nord, a circa 8 chilometri all’interno del tunnel della Grande Galleria dell’Appennino (18 km), in località Vernio, dove la ferrovia procede diritta e la velocità supera i 150 km/h. La detonazione fu causata da una carica di esplosivo radiocomandata, posta su una griglia portabagagli del corridoio della 9ª carrozza di II classe, a centro convoglio: l’ordigno era stato collocato sul treno durante la sosta alla Stazione di Firenze Santa Maria Novella.
Al contrario del caso dell’Italicus, questa volta gli attentatori attesero che il veicolo penetrasse nel tunnel, per massimizzare l’effetto della detonazione: lo scoppio, avvenuto a quasi metà della galleria, provocò un violento spostamento d’aria che frantumò tutti i finestrini e le porte. L’esplosione causò 15 morti e 267 feriti. In seguito, i morti sarebbero saliti a 17 per le conseguenze dei traumi.
Venne attivato il freno di emergenza, e il treno si fermò a circa 8 chilometri dall’ingresso sud e 10 da quello nord. I passeggeri erano spaventati, e a questo si affiancava il freddo dell’inverno appenninico. Il controllore Gian Claudio Bianconcini, al suo ultimo viaggio in servizio, chiamò i soccorsi da un telefono di servizio presente in galleria e, sebbene ferito, sopravvisse all’esplosione.

Bianconcini, sebbene anch’egli ferito da alcune schegge nella nuca, organizzò anche i primi soccorsi con l’aiuto di altri passeggeri, nonostante il freddo e il buio, dato che i neon di emergenza della galleria, isolata elettricamente, avevano poca autonomia.
I soccorsi ebbero difficoltà ad arrivare, dato che l’esplosione aveva danneggiato la linea elettrica e parte della tratta era isolata, inoltre il fumo dell’esplosione bloccava l’accesso dall’ingresso sud dove si erano concentrati inizialmente i soccorsi, per cui ci impiegarono oltre un’ora e mezza. I primi veicoli di servizio arrivarono tra le venti e trenta e le ventuno: non sapevano cosa fosse successo, non avevano un contatto radio con il veicolo fermo e non disponevano di un ponte radio con le centrali operative periferiche o quella di Bologna. I soccorsi una volta sul posto parlarono di un “fortissimo odore di polvere da sparo”.
Venne impiegata una locomotiva diesel-elettrica, guidata a vista nel tunnel, che fu per prima cosa usata per agganciare le carrozze di testa rimaste intatte, su cui furono caricati i feriti. Un solo dottore era stato assegnato alla spedizione.
Con l’aiuto della macchina di soccorso i feriti vennero portati alla stazione di San Benedetto Val di Sambro, seguiti subito dopo dagli altri passeggeri. L’uso della motrice Diesel però rese l’aria del tunnel irrespirabile, per cui servirono bombole di ossigeno per i passeggeri in attesa di soccorsi.
Uno dei feriti, una donna, venne trovata in stato di choc in una nicchia della galleria, e fu portata a braccia fino alla stazione di Ca’ di Landino.
Arrivati alla stazione di San Benedetto, ai feriti vennero offerte le prime cure, e quelli più gravi furono portati a Bologna da una quindicina di ambulanze predisposte per il compito, che viaggiavano scortate da polizia e carabinieri. Le cure ai feriti leggeri durarono fino alle cinque di mattina.
Venne allestito rapidamente un ponte radio, e la Società Autostrade fece in modo di mettere a disposizione un casello riservato al servizio di emergenza. I feriti vennero portati all’Ospedale Maggiore di Bologna, facendosi largo nel traffico cittadino grazie ad una razionalizzazione delle vie di accesso studiata proprio per i casi di emergenza. Per ultimi furono trasportati i morti: fortunatamente la neve cominciò a cadere solo durante questa ultima fase.
Il piano di emergenza era frutto delle misure predisposte dopo la Strage del 2 agosto 1980, e questa operazione fu la prima sperimentazione del sistema centralizzato di gestione emergenze costituito a Bologna.
Nonostante le condizioni ambientali estremamente avverse, l’opera di soccorso e l’operato dei soccorritori furono ammirevoli per l’efficienza dimostrata, tanto che poco dopo il servizio centralizzato di Bologna Soccorso sarebbe diventato il primo nucleo attivo del servizio di emergenza 118.
Alla grande abilità ed organizzazione delle forze dell’ordine e dei soccorritori si aggiunse anche una certa fortuna: cominciò a nevicare solo dopo la conclusione delle operazioni di trasporto, e il vento soffiò i fumi dell’esplosione verso sud, rendendo possibile l’accesso dal lato bolognese da cui arrivavano i soccorsi. Le attrezzature dei vigili del fuoco prevedevano solo bombole con mezz’ora di autonomia, che altrimenti sarebbero state insufficienti.
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