domenica 29 luglio 2012

strage di via Pipitone Federico

29 Luglio 1983, Strage di via Pipitone Federico
Rocco Chinnici 58 anni, magistrato
Mario Trapassi 32 anni, maresciallo dei carabinieri
Salvatore Bortolotta 48 anni, carabiniere
Stefano Li Sacchi portiere dello stabile

Rocco Chinnici (Misilmeri, 19 gennaio 1925 – Palermo, 29 luglio 1983) è stato un magistrato italiano, assassinato dalla mafia.
Dopo la maturità conseguita nel 1943 presso il Liceo Classico “Umberto” a Palermo, si è iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, si è laureato il 10 luglio 1947.
È entrato in Magistratura nel 1952 con destinazione al Tribunale di Trapani. Poi è stato pretore a Partanna per dodici anni, dal 1954. Nel maggio del 1966 è stato trasferito a Palermo, presso l’Ufficio Istruzione del Tribunale, come giudice istruttore.
Nel novembre 1979, già magistrato di Cassazione, è stato promosso Consigliere Istruttore presso il Tribunale di Palermo.
«Un mio orgoglio particolare» – ha rivelato Chinnici – «è una dichiarazione degli americani secondo cui l’Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre Magistrature d’Italia. I Magistrati dell’Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero». Il primo grande processo alla mafia, il cosiddetto maxi processo di Palermo, è il risultato del lavoro istruttorio svolto da Chinnici, tra l’altro considerato il padre del Pool antimafia, che compose chiamando accanto a sé magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello.
Chinnici partecipò, quale relatore, a molti congressi e convegni giuridici e socio-culturali e credeva nel coinvolgimento dei giovani nella lotta contro la mafia. È stato il primo magistrato a recarsi nelle scuole per parlare agli studenti della mafia e dei pericoli della droga.
«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi» – diceva – «fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai».
In una delle sue ultime interviste, Chinnici ha detto:
«La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare».
Rocco Chinnici è stato ucciso il 29 luglio 1983 con una Fiat 127 imbottita di esplosivo davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, all’età di cinquantotto anni. Ad azionare il detonatore che provocò l’esplosione fu il killer mafioso Pino Greco. Accanto al suo corpo giacevano altre tre vittime raggiunte in pieno dall’esplosione: il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta del magistrato, e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico Stefano Li Sacchi.


Alle otto e cinque del 29 Luglio ’83, in una giornata di caldo africano, Rocco Chinnici scendeva dal terzo piano della sua abitazione in via Pipitone Federico, al numero civico 63. Tutto normale. Scontato, previsto. Una sequenza che lui, in quel momento il giudice più esposto del tribunale di Palermo, aveva vissuto decine di volte: un saluto al portinaio dello stabile, due agenti già in attesa sul marciapiede, l’autista alla guida dell’alfetta blindata pronta a sgommare, due auto d’appoggio che a una ventina di metri di distanza chiudevano un paio di traverse. Ma quella mattina andò diversamente.
Appostato a breve distanza il sicario si stava godendo la scena. Eccolo che arriva il giudice più testardo d’Italia. Quest’altro rompicoglioni convinto che qualcuno gli abbia lasciato in eredità la lotta alla mafia. Un altro crociato che potrebbe andarsene a passeggio con moglie e figli se solo fosse prudente e conciliante, invece sta mettendo nei guai mezza città. […]
Il sicario premette il pulsantino del telecomando. E un istante dopo mezza Palermo tremò di terrore. Via Pipitone Federico diventò un cortile di Beirut, con lo stesso odore acre della guerra, le autoambulanze e le auto di polizia impazzite in mezzo a quel macello, gli occhi sbarrati dei passanti che si erano sentiti accarezzare da un alito gelido.[…]
Per non correre rischi avevano parcheggiato una 500 (stracolma di esplosivo) esattamente di fronte al numero civico 63. In maniera tale che l’alfetta del magistrato sarebbe stata costretta a fermarsi in doppia fila proprio accanto al’autobomba.[…]
Ma chi era Chinnici? […] A Milano, il 2 Luglio ’83, per svolgere una relazione sulla criminalità organizzata, [aveva detto] “il sessanta o settanta per cento dei fondi erogati dalla Regione siciliana alle aziende agricole finiscono a famiglie direttamente o indirettamente legate alla mafia. Si sta tornando al Medioevo, agli immensi latifondi […], La pubblica amministrazione è talmente permeata di mafia, le istituzioni sono talmente permeate di mafia per cui sembra veramente difficile poter arrivare da un anno all’altro alla soluzione del problema […] Oggi non c’è opera pubblica in Sicilia che non costi quattro o cinque volte quello che era stato il suo costo preventivato non già per la lievitazione dei prezzi ma perché così vuole l’impresa mafiosa, impresa alla quale è spesso interessato anche un ‘colletto bianco’”.[…]
Certe cose a Palermo non bisogna dirle. Anzi è consigliato per essere “apprezzati” negarle o smentirle. Invece Chinnici andava a ruota libera, pensava ad alta voce. E pensava anche – dimostrando in questo un’incoscienza senza pari – che il terzo livello esiste, e che senza il terzo livello la mafia che spara, che fa le stragi, che taglieggia popolazioni intere, non avrebbe motivo d’esistere. Spiegò pochi giorni prima della sua morte: “c’è la mafia che spara; la mafia che traffica in droga e ricicla soldi sporchi; c’è l’alta finanza legata al potere politico […] Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più elevati.” Se l’avessero lasciato fare avrebbe certamente raggiunto l’obiettivo.
Saverio Lodato. Trent’anni di mafia

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