giovedì 26 luglio 2012

26 Luglio 1992
Rita Atria 17 anni

Rita Àtria (Partanna, 4 settembre 1974 – Roma, 26 luglio 1992) è stata una testimone di giustizia italiana.
Rita Àtria nasce in una famiglia mafiosa ed a undici anni perde, ucciso dalla mafia, il padre Vito, mafioso della famiglia di Partanna. Sono gli anni dell’ascesa dei corleonesi e della guerra di mafia che li vedrà impegnati in sanguinosi omicidi di uomini delle cosche rivali per la presa del potere. Alla morte del padre, Rita si lega ancora di più al fratello Nicola ed alla cognata Piera Aiello. Di Nicola, anch’egli mafioso, Rita raccoglie le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna. Nel giugno 1991 Nicola Àtria viene ucciso dalla mafia, e sua moglie Piera Aiello decide di collaborare con la giustizia. Rita Àtria, a soli 17 anni, nel novembre 1991, decide di seguire le orme della cognata, cercando, nella magistratura, giustizia per quegli omicidi. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu Paolo Borsellino al quale ella si legò come ad un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre deposizioni hanno permesso di arrestare diversi mafiosi e di avviare un’indagine sul politico Vincenzino Culicchia per trent’anni sindaco di Partanna. Una settimana dopo la strage di via d’Amelio, Rita si uccise a Roma dove viveva in segretezza lanciandosi dal settimo piano.

Ne avevo sentito parlare da lui come di una figlia, ma non l’avevo ancora incontrata. Ero perciò molto curioso.
La prima volta che la vidi stava raggomitolata su una sedia. In quella stanza fredda e dalle pareti bianche, tappezzate di calendari dell’Arma dei carabinieri, al pianoterra del Palazzo di giustizia, ove ero sceso apposta per incontrarla. Per conoscerla. Era così rannicchiata da mettere a disagio, riuscendo a trasmettere tutta la sua insicurezza. Sembrava indifesa, tutta protesa a farsi piccola, a essere protetta. Ma lei, la ragazza, non dava l’impressione di sentirsi a disagio. Cercava di apparire, al contrario, tranquilla. Serena e determinata. Aveva occhi grandi e quegli occhi me li trovai puntati addosso, con forza, con insistenza. Quando entrai nella stanza mi fissò, in silenzio e a lungo. Non era disposta a distogliere lo sguardo, uno sguardo intenso e interrogativo. Aspettava. Aspettava di capire se poteva fidarsi di me. In tanti anni di silenzi, nel piccolo paese dove era nata, dove suo padre l’aveva allevata a pane e mafia, aveva imparato a diffidare di tutti e di tutto: dei nemici ma anche degli amici. Dello Stato ma anche della mafia. Chi era quell’uomo lì davanti che lei stava fissando? Perché era entrato nella stanza, senza neanche bussare? Era un uomo dello Stato o un mafioso? Uno di cui si poteva fidare o uno dei tanti infedeli? Non era uno di quegli infedeli che avevano rovinato la sua famiglia e la sua terra, quegli infedeli che erano stati capaci di rendere invincibile la mafia? Quelli che avevano trasformato un’organizzazione criminale come la mafia in qualcosa di più e di peggio, che lei non sapeva esprimere, quella Piovra, come tutti ormai la chiamavano in ogni parte del mondo. Quelli che avevano causato l’isolamento e la morte di tanti uomini dello Stato e della mafia stessa. Come suo padre e suo fratello. Era uno di quelli il giovane con la barba che la guardava curioso, ma a disagio per il suo sguardo puntato addosso? Oppure era una persona perbene e lei stava cadendo, come sempre più spesso le succedeva, in una di quelle ossessioni che non la lasciavano più, da quando aveva visto suo padre e suo fratello uccisi come cani, vittime del tradimento degli amici dei loro amici?
Tutto questo affollava la mente della ragazza mentre mi fissava con insistenza, raggomitolata su quella sedia, in posizione difensiva. Come un gatto, con i muscoli tesi e il pelo ritto, pronto a scattare. E quei suoi pensieri sembravano affiorare come ombre da una lanterna magica, e proiettarsi sul muro, inquietare le pareti della stanza, ammorbare l’aria, rendere tutti tesi e nervosi. Ricordo quegli attimi, lunghissimi, eterni. Eravamo sospesi. In attesa. D’incanto il suo sguardo si sciolse. Da interrogativo e dubbioso diventò insieme comprensivo e rassicurato, quasi complice. L’attesa si era interrotta, d’improvviso com’era iniziata. Perché era arrivato lui, il giudice, il deus ex machina della sua vita. E pure della mia, del resto. Paolo Borsellino[…]
L’epilogo fu tremendo. L’ultima volta che vidi Rita sembrava di nuovo allegra, una ragazza normale. Sorrideva, aveva raggiunto la cognata fuori dalla Sicilia. Aveva raccontato la sua storia, aveva dato alla giustizia gli strumenti per fare giustizia degli assassini del padre e del fratello. Sembrava essersi liberata della mafia che aveva nel cuore e nella mente. Era pronta a rinascere, ma per rinascere aveva bisogno del sostegno di lui, del suo giudice. Ma accadde l’Inevitabile, l’Assurdo, la Tragedia. Un’autobomba squarciò il cuore e le viscere di Palermo, il tritolo della mafia fece a pezzi il giudice con la sua scota, mise in ginocchio l’Italia e atterrò l’animo degli italiani onesti. Impotenti. Rabbia, sdegno, dolore. Nessuno pensò a lei, tutti pensarono a lui, il giudice che non c’era più, a quell’uomo allegro che non poteva più ridere, anche se chi lo vide quell’ultima volta giura di avergli visto un sorriso dipinto sulle labbra ormai fredde.
Lui non c’era più, lui, l’unico che avrebbe subito pensato a lei, che sarebbe corso da lei per cercare di consolare l’inconsolabile, di contrastare quella tristezza infinita. Fu un attimo, un lampo. L’immagine della fine del giudice, la sensazione della fine di tutto. Aveva perso di nuovo il padre, il fratello, lo zio. Era di nuovo sola, per sempre, in un’anonima casa dei sobborghi di Roma. Di nuovo cambiare casa e identità? Di nuovo cancellare il passato per ricostruire un altro futuro?
No, è troppo. Rita non ce la fa.
La rividi, come la prima volta, rannicchiata, raggomitolata, ma questa volta sulla strada, in una pozza di sangue. Si tolse la vita una settimana dopo la morte del suo giudice. Ma non è andata via senza lasciarci nulla. Il suo lascito sta tutto nel diario, che le aveva regalato Paolo, e dove Rita aveva annotato un messaggio semplice: “Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.
Antonio Ingroia, Nel labirinto degli dei

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