sabato 21 luglio 2012

21 Luglio 1979
Boris Giuliano 49 anni, poliziotto

Giorgio Boris Giuliano (Piazza Armerina, 22 ottobre 1930 – Palermo, 21 luglio 1979) è stato un poliziotto italiano, investigatore della Polizia di Stato e capo della Squadra Mobile di Palermo.
Diresse le indagini con metodi innovativi e determinazione, facendo parte di una cerchia nei fatti isolata di funzionari dello Stato che, a partire dalla fine degli anni settanta, iniziarono un’autentica lotta contro la mafia dopo che, nella deludente stagione degli anni sessanta, troppi processi erano falliti per mancanza di prove.
Venne ucciso dal mafioso Leoluca Bagarella [cognato di Totò Riina], che gli sparò sette colpi di pistola alle spalle il 21 luglio 1979, mentre pagava il caffè in un bar di via Di Blasi, a Palermo.



[Boris Giuliano era] un autentico mito per gli uomini che ebbero la ventura di lavorargli accanto. Un autentico mito per i poveri, i derelitti della città, che si precipitarono a migliaia ai suoi funerali.
Un mito: perché non si era mai visto un poliziotto forte e impavido davanti ai potenti, tanto quanto sapeva essere umano e attento alle ragioni di chi spesso si era fatto piccolo delinquente in mancanza d'altro. Semmai, in quegli anni, il cliché del poliziotto era all'opposto: voce grossa con i poveri cristi e tanta precauzione in più per i «don», i «blasonati», i «benestanti» della città.
Boris Giuliano fu l'ultimo grande poliziotto della stagione dei «confidenti» che popolavano vicoli e tuguri di un centro storico mai restaurato - unico in Europa - dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. L'ultimo grande poliziotto di quella terribile stagione della «Giuliette» iniziata nel 1963 con la strage di Ciaculli e con la conseguente istituzione della prima commissione di inchiesta sul fenomeno mafioso (con gli anni siamo arrivati alla settima commissione). L'ultimo grande poliziotto all'antica, prima cioè che venissero alla ribalta i pentiti e i pool antimafia della magistratura, che prendessero il via i maxi processi, quando ancora si sudava sui rapporti scritti a mano, sui fogli di carta carbone, e che poi venivano strimpellati, fra nuvole di fumo e bicchieri di pessimo bourbon, su vecchie macchine da scrivere con nastri che prima di essere cambiati dovevano rendere l'anima a Dio. L'economato della Squadra mobile non nuotava mai nell'oro.
[…] All' antica sì, ma modernissimo. Si trovò infatti sul crinale che divideva due epoche, anche se questo si sarebbe capito più tardi. Se infatti fosse appartenuto solo al passato, forse sarebbe rimasto in vita. […Giuliano] fu il primo a intuire che fra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, Palermo stava diventando pedina nevralgica nello scacchiere internazionale del traffico dell'eroina. Che a Palermo si raffinava l'oppio che arrivava ormai a sacchi interi dal triangolo d'oro della Thailandia del Laos e della Birmania. E che l'eroina, una volta prodotta, doveva pur finire da qualche parte. È stato così raccontato - ed è risaputo - che grazie al fiuto di questo kirghiso che d'estate portava rigorosamente giacche di lino bianco, vennero scoperti, in due valigie abbandonate sul nastro bagagli dell'aeroporto di Punta Raisi, i dollari (cinquecentomila), spediti come compenso dei «cugini americani» ai palermitani. Successivamente, in una casupola sul lungomare di Romagnolo, fra motoscafi pronti a prendere il largo, furono trovati quattro chili di eroina purissima per un valore, all'epoca, di tre miliardi. Era la prova del «teorema Giuliano». Teorema che sarebbe rimasto tale se all'appello fossero mancati i soldi o la droga. Invece il teorema trovò nuova conferma quando all'aeroporto Kennedy, quelli dell'antinarcotici di New York furono altrettanto fortunati riuscendo a mettere le mani sull' eroina (valore dieci miliardi) appena sbarcata da Palermo. Era la fine di un'epoca criminale, sotto un certo profilo persino leggendaria: l'epoca del clan dei marsigliesi. Quando a fabbricare clandestinamente la migliore eroina del mondo era Joseph Cesari, un chimico autodidatta, al quale si rivolgevano tutte le famiglie della mala marsigliese, corsa e siciliana. Cesari, miliardario e collezionista d'opere d'arte, nella sua hollywoodiana villa di Aubagne, piccolo centro alla periferia di Marsiglia, raffinava solo un paio di giorni alla settimana per non intossicarsi, sin quando l'8 ottobre 1964, la squadra antinarcotici francese lo arrestò in flagranza di reato. Boris Giuliano, che l'epilogo di quella storia lo conosceva, intuiva che ormai marsigliesi avevano fatto un passo indietro. E che con ogni probabilità Palermo era diventata il nuovo Eden della raffinazione. Qualche poliziotto, ormai in pensione, lo ricorda ancora nel suo ufficio alla Squadra mobile di Piazza Vittoria, alle prese con foto aeree della città e planimetrie, pronto a far decollare l'elicottero se solo si palesava il sospetto che in qualche anonima catapecchia i fornelli della raffinazione fossero accesi. Le intuizioni, la tenacia, l'intelligenza, certo. Ma anche gli ottimi studi, l'ottima conoscenza dell' inglese, che lo aveva portato a frequentare nel 1975 (il suo ingresso in polizia risaliva al 1962), il corso dell'Fbi in Virginia, unico poliziotto italiano allora prescelto. Non fu un caso che durante la sua «reggenza » della Mobile, agenti e funzionari Fbi o della Dea, furono di casa. Una sinergia tanto preziosa per le indagini, quanto devastante - come abbiamo visto – per i narcotrafficanti. Il risultato fu che l'Alta Mafia, quella che in quel periodo stava scoprendo quanto fosse lucroso il traffico degli stupefacenti, cominciò ad avvertire un profondo senso di fastidio. Ancora si potevano sopportare gli «sbirri» all'antica. Quelli che strappavano qualche informazione al poveraccio di quartiere. Quelli che entravano nel futuro con la testa rivolta al passato. Quelli che - in polizia c'era di tutto - dietro l'elargizione di una bustarella o la spesa gratis nelle macellerie e nelle pescherie di mafia chiudevano un occhio facendo magicamente scomparire all'ultimo momento un nome dal rapporto che stava per essere presentato al magistrato. Quelli che erano autentici doppiogiochisti. Ma adesso era troppo. È stato raccontato più volte che dopo il blitz di Romagnolo giunse al 113 la fatidica telefonata anonima: «Giuliano morirà». Ma quanto tempo ci sarebbe voluto per capire che il «dottor Giuliano », come tutti lo chiamavano rispettosamente, aveva urtato la suscettibilità di uno che di strada, dentro Cosa Nostra, ne avrebbe fatta parecchia. Quella droga sequestrata nella casupola di Romagnolo apparteneva a Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina. Come apparteneva a Bagarella quell'autentico arsenale trovato a seguito della stessa irruzione guidata personalmente da Giuliano: pistole calibro 357 Magnum, fucili a canne mozze, chili e chili di munizioni. Alle 8 del mattino, 21 luglio 1979, Boris Giuliano uscì di casa, in via Di Blasi. La macchina, una Giulietta, per l'appunto, con il fedele brigadiere che ogni mattina veniva a prenderlo per accompagnarlo in Questura, non era ancora arrivata. Giuliano pagò la pigione al portiere, lo salutò, raggiunse il bar Lux a due passi. Ordinò il suo primo caffè della giornata, l'ultimo caffè della sua vita. Era nervoso ma non lo dava a vedere. Tre giorni prima, dopo la telefonata al 113, aveva accompagnato la moglie Ines Leotta, e i figli Alessandro, Selima ed Emanuela, tutti allora molto piccoli, a Piedimonte Etneo, alle falde dell'Etna, dove avrebbero trascorso le vacanze. Aveva promesso di raggiungerli una settimana dopo, e se ne era tornato a Palermo. Ottimo tiratore scelto, Giuliano. E in più di un'occasione aveva risolto situazioni delicate senza mai strafare, tranne una volta in cui, anche se non per sua responsabilità, il morto, però, c'era scappato. Quella mattina al bar davanti al bancone, con le spalle rivolte alla porta, chissà cosa pensava. Il killer ebbe tutto il tempo di arrivargli a tiro. Il titolare e i baristi raccontarono dopo che il killer solitario tremava come una foglia. Sarà.
Solo anni dopo si seppe che quel killer solitario era Leoluca Bagarella. Proverbiale per la sua ferocia, per il suo sangue gelido, non per la sua indecisione.
Saverio Lodato