giovedì 19 luglio 2012

la strage di via D'Amelio

19 Luglio 1992, Strage di via D’Amelio
Paolo Borsellino 52 anni, magistrato
Emanuela Loi 25 anni, poliziotto
Walter Eddie Cosina 31 anni, poliziotto
Agostino Catalano 43 anni, poliziotto, caposcorta
Vincenzo Fabio Li Muli 22 anni, poliziotto
Claudio Traina 27 anni, poliziotto

Paolo Borsellino muore, 57 giorni dopo l’amico e collega di una vita Giovanni Falcone, un’assolata domenica di Luglio sotto la casa della madre. Muore dopo essersi acceso l’ultima sigaretta, la mano tesa a suonare il campanello. Muore assieme ai suoi 5 angeli custodi: il sesto, Antonio Vullo, è rimasto in auto, pronto a ripartire, nervoso e teso. Via D’Amelio è un budello chiuso, si entra da dove si esce, un posto ideale per un agguato. E poi è piena di macchine parcheggiate, sono dappertutto. Nessuno ha pensato di farne zona rimozione, nessuno controlla le auto parcheggiate, nonostante il magistrato vada a trovare la madre più volte la settimana.
Borsellino salta in aria assieme alla scorta, solo Vullo si salva, protetto dall’auto blindata, i palazzi intorno vengono sventrati, decine di famiglie restano senza casa. Sul retro dell’auto una borsa, la sua borsa, con il costume bagnato e l’agenda rossa, sparita per sempre.

A distanza di 19 anni le indagini sono ancora aperte. Perché? Perché su questa morte incombono le ombre buie della trattativa Stato – mafia. I condannati per la strage (Scarantino e altri 3) sono in realtà un depistaggio, come spiegherà solo recentemente il pentito Gaspare Spatuzza. Scarantino si è autoaccusato, ma le dichiarazioni di Spatuzza sono molto più coerenti, e soprattutto sono verificate. Spatuzza racconta di avere cambiato il blocco freni alla 126 rubata, per renderla più efficiente, particolare noto solo agli inquirenti e a chi – materialmente – aveva eseguito la riparazione.

Solo da poco Martelli allora guardasigilli e la Ferraro hanno finalmente ritrovato la memoria, e hanno confermato che Borsellino sapeva della trattativa, costretti dalle dichiarazioni di due pentiti, Brusca e Spatuzza e da quelle del figlio di un mafioso, Massimo Ciancimino.
In quei 57 giorni Borsellino va a Roma, a parlare con Gaspare Mutolo, che vuole pentirsi. A un certo punto fanno una pausa, Borsellino incontra Contrada e Parisi, forse arriva fino nell’ufficio di Mancino, o almeno così attesta la sua altra agenda, quella degli appuntamenti, grigia, che è rimasta a casa. Sta di fatto che quando ritorna da Mutolo il suo umore è completamente cambiato, come dichiarerà il pentito. Borsellino è nervoso, distratto, si accende una sigaretta dietro l’altra.
È cronaca giudiziaria di questi mesi, di questi giorni, recentissima.

Ricordare Paolo Borsellino non è facile, qualsiasi riassunto diventa riduttivo, perché era un uomo per molti versi incredibile. Basta leggere la sua biografia scritta da Lucentini per rendersene conto.
Vorrei comunque sottolineare alcune cose che penso di avere capito di lui.
La prima è che era profondamente di destra – anzi lui si definiva monarchico – e come tale un servitore fedele e integerrimo delle istituzioni. Si definiva monarchico, ma ha sempre difeso lo Stato democratico fino a morire per esso. Rideva di se stesso, quando scopriva di andare d’accordo con “i sinistri”. Sua sorella Rita racconta che quando lei si lamentava delle istituzioni lui le ricordava che non sono le istituzioni il problema, ma che a volte sono gli uomini che le rappresentano a non essere all’altezza.
La seconda è che non era un martire e che, seppur consapevole di essere il principale obiettivo nel mirino dei mafiosi dopo Capaci, non si rassegnò né andò incontro alla morte, ma lottò fino all’ultimo senza esclusione di colpi, come poteva e da par suo.
La terza è che era un uomo profondamente coraggioso, che conosceva la paura. Che si rammaricava – profondamente – quando era costretto a chiedere la scorta per un suo sostituto minacciato, perché “io sono il procuratore, se minacciano te significa che io non sono stato capace di proteggerti”. Che voleva evitare guai alla scorta, e per questo cercava di sfuggire loro in momenti precisi e definiti della giornata, in modo che i mafiosi potessero coglierlo da solo.
La quarta è che era un uomo con una carica umana inverosimile, che ha lasciato il segno in chiunque lo abbia incontrato.

La sua vicenda professionale è intrecciata a quella di Giovanni Falcone, per questo ho scelto di non ripercorrerla.
Voglio invece porre l’accento su questa sua carica umana – che Falcone più distaccato e timido non possedeva – che risulta evidente leggendo chi lo ricorda: Antonino Caponnetto parla di lui come di un figlio, Caselli lo ricorda con commozione, i suoi sostituti di Marsala con un affetto che rasenta – in Ingroia soprattutto – l’adorazione. Ingroia ancora oggi, a 52 anni e a 19 anni dalla morte del suo maestro, dice di sentirsi orfano di Paolo Borsellino.

Per questo lascio parlare quattro persone che lo hanno conosciuto.
Le prime due sono magistrati come lui, il primo è stato il suo capo, agli inizi della carriera di Borsellino: Nello Sciacca.
Il secondo è stato suo allievo, alla procura di Marsala e poi a quella di Palermo: Antonio Ingroia.
La terza è un giornalista: Saverio Lodato.
La quarta è il figlio Manfredi.
Tutte e quattro, insieme, ci regalano il ritratto di un Uomo con la u maiuscola.

Così il presidente del Tribunale di Enna Nello Sciacca, la mattina del 30 giugno 1967 nel salutare Enna per approdare al Tribunale di Catania, ricorda tra gli altri colleghi il giovane uditore giudiziario:
Un discorso a parte merita Paolo Borsellino. Qualcuno ha insinuato che egli è stato il mio giudice prediletto. Nulla di più falso. Ed infatti se collega c’è che, a diverse riprese, avrei voluto gratificare di qualche scappellotto, questi è proprio lui. Il fatto è che egli, tranne che nel campo del diritto, resta ancora terribilmente minorenne, talché in me si ridestano i mai sopiti istinti paterni. E adesso lasciando Enna, ve lo confesso, tremo per lui e lo raccomando a tutti voi che mi ascoltate. Cercate, per esempio, di spiegargli che Enna, anche se non è una città polare, non è nemmeno una città tropicale, con la conseguenza che in gennaio o febbraio non si può andare in giro senza cappello e pastrano. Cercate di spiegargli pure quante sigarette si possono impunemente fumare in un giorno, quanto pepe vada sparso sulle pietanze, e infine come non sia del tutto indispensabile, uscendo di casa, lasciare la luce accesa, la porta spalancata e tutti i rubinetti aperti. Lo ricorderò sempre come un caro ragazzo, che poteva essere mio figlio, e dietro il quale correvo giù per le scale del Tribunale gridando: “Paolo, accidenti a te, torna indietro, fuori piove e fa freddo...Paolo, torna indietro... almeno l’ombrello...”.
Umberto Lucentini, Paolo Borsellino

L’attesa si era interrotta, d’improvviso com’era iniziata. Perché era arrivato lui, il giudice. Il deus ex machina della sua [di Rita Atria] vita. E pure della mia, del resto. Paolo Borsellino era un uomo deciso ed esperto, portatore di una carica umana insostenibile, sapeva come prendere le persone, come entrare in relazione e perciò era capace di vincere la più chiusa diffidenza, la più coriacea scontrosità.
Era il mio capo. Il nostro primo incontro era avvenuto nel suo ufficio, nella Procura di Marsala. Presentandomi, gli rivolsi queste impacciate parole: “Procuratore, sono qui per il mio insediamento, quando crede che potrò iniziare a lavorare in questo ufficio?”. E lui, con tono grave: “Ma scusa, collega, ti sembro forse tanto vecchio da darmi del lei?”. Seguì una risata, piena e fragorosa, che ruppe il ghiaccio e rivelò una parte a me nascosta di quell’uomo-mito: era un giudice, ma era soprattutto un uomo, un uomo allegro. Dotato di una risata che gli illuminava il viso. E quando rideva, la sua allegria, che era allegria e freschezza d’animo, voglia di vivere, lo prendeva tutto, fino a scuoterlo nel profondo. I suoi baffi ridevano, il suo naso rideva, i suoi occhi ridevano, felici. La sua anima sorrideva. Ecco, era stata ancora una volta la sua risata a rompere il silenzio […] Era lui che mi aveva chiamato, anzi, che ci aveva chiamato. Perché, subito dopo, alla spicciolata arrivarono gli altri, i miei colleghi, a riempire quella stanza di varia umanità […] Tutti attorno a lui. Eravamo giovanissimi apprendisti. E lui il nostro maestro. Tutti intorno a lui come pulcini dietro la chioccia.
Antonio Ingroia Nel labirinto degli dei

Maggio 1992. Per l'esattezza il 2 maggio, verso le 8 del mattino. Ricevo a casa una telefonata di una segretaria della Procura che gentilmente, ma avverto nella sua voce un pizzico di preoccupazione, mi dice: «stamattina venga in Procura...c'è movimento...movimento che la riguarda...». Quel giorno nelle librerie usciva un mio libro intitolato: «Potenti. Sicilia anni novanta», pubblicato dalla Garzanti di allora per volere di un grande editore, Andrea Piccioli che poi, stufo delle logiche compromissorie di certo sistema editoriale italiano e con tanto di dichiarazione pubblica, decise di andare anticipatamente in pensione. Il libro conteneva un capitolo dal titolo: C'era una volta. Conteneva fra l'altro un duro attacco a Giuseppe Pignatone e Guido Lo Forte, sostituti procuratori dell'epoca (il primo sarebbe rimasto sino ai giorni nostri fedele alla sua visione delle cose, il secondo avrebbe vissuto senza riserve la stagione di Gian Carlo Caselli alla guida della Procura di Palermo). Ma soprattutto a Pietro Giammanco. Al palazzo seppi che a volermi incontrare era nientemeno che Paolo Borsellino, da poco giunto a Palermo da Marsala e ora alle dirette dipendenze proprio di Giammanco, il capo che aveva preso il posto di Curti Giardina, il procuratore che, quattro anni prima, aveva firmato l'arresto mio e di Bolzoni per il bizzarro reato di "peculato" (la violazione del segreto istruttorio non prevedeva infatti il carcere per i giornalisti), mentre l'operazione sul campo - come si dice - era stata affidata a Mario Mori, allora comandante del gruppo 1 dei carabinieri. Il Giammanco, che avevo conosciuto in carcere durante il mio primo interrogatorio, nel frattempo era infatti diventato "capo". Tutti "bravi ragazzi". D'altra parte, Giammanco, lui stesso non ne faceva mistero, era amico personale di Salvo Lima e Aristide Gunnella, e aggiungiamo noi - forse eufemisticamente - fu una delle cause non secondarie che avevano spinto Falcone, esattamente due anni prima, ad abbandonare anticipatamente la sede di Palermo per l'incarico a Roma al ministero di Grazia e giustizia. La porta dell'ufficio di Borsellino era spalancata. Mi affacciai sulla soglia e lo vidi circondato da pile di fotocopie. Mi apparve teso e nervoso. «Sono le fotocopie del suo libro, caro Lodato». «Strano - replicai - il libro se tutto va bene è arrivato in libreria da meno di un'ora e avete avuto già il tempo di fotocopiare?». Lui si sciolse in un accenno di sorriso: «Lei - e giocò sul titolo del libro - sottovaluta i potenti mezzi della nostra Procura... È vero. Ieri era il primo maggio e le librerie erano chiuse, ma lei che è l'autore, dovrebbe sapere che c'è una piccola libreria a Roma a Campo dei Fiori che è sempre aperta... E il mio "capo" aveva molta curiosità di leggerlo... Avranno mandato i motociclisti a Roma...i carabinieri a cavallo...non so che dirle...». Mi vennero i brividi mentre mi accorgevo di sottolineature rosse, nere, blu, un fosforescente tripudio di ipotetici capi d'accusa nei miei confronti. Balbettai: «ma perché se ne occupa lei?». Borsellino: «questo è il bello...il capo vuole che me ne occupi personalmente io...lei non sa che Giovanni e io siamo criticati per essere troppo amici del l'Unità e della sinistra?». Seguì il suo consueto e splendido sorriso sotto i baffi. Abbozzai: «quindi?». Borsellino: «quindi è meglio che per qualche giorno non si faccia vedere in giro... I miei colleghi non sono per niente contenti della sua ultima fatica letteraria...». Chiesi: «mi devo preoccupare?». Borsellino: «guardi se potessero strozzarla - e questa volta scoppiò a ridere per davvero - lo farebbero volentieri. Che posso dirle? Che chiederò un supplemento di istruttoria...insomma dirò che per leggere bene il suo libro ci vuole tempo...soprattutto perché se questa volta dobbiamo arrestarla dobbiamo arrestarla con tutti i crismi, evitando la brutta figura che la Procura fece quattro anni fa...Speriamo che mentre io continuo a leggere la bufera si calmi...». Borsellino continuò a leggere, per giorni e giorni, e anche di questo gli sono eternamente grato. Così fu. La bufera si calmò. Le minacciate querele non arrivarono mai. Ma non vi sembra singolare che Paolo Borsellino, ventun giorni prima della strage di Capaci e settantasette, se il calcolo non è errato, della sua stessa morte, veniva costretto a spendere il suo tempo a fotocopiare nella speranza che si trovassero gli estremi per arrestare un'altra volta lo stesso giornalista?
Saverio Lodato Così uccisero l’uomo d’altri tempi
Nel primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come lui solo sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.
Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi alla televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.
Si cambiò e, raccomandandomi di non allontanarmi da casa, si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia.
Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.

Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto, mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del palazzo di Giustizia.
Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.

La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’MSI siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.

Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.
Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dopo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.

Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.

Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggiava lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.

La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di …, desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.

Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ovverosia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, ovverosia una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino.
A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi di non essere più liberi ma condizionati, sotto ricatto fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.

Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.
Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.
Manfredi Borsellino in Era d’Estate