venerdì 29 giugno 2012

29 Giugno 1982
Antonio Burrafato 39 anni, agente penitenziario

A Termini Imerese (Palermo) viene ucciso l'agente penitenziario Antonino Burrafato. Si era rifiutato di fare incontrare Leoluca Bagarella con la madre e la sorella.

Tutto accadde alle ore 15.30 del 29 giugno 1982. In quel giorno fu assassinato a Termini Imerese, in Piazza S. Antonio, da barbara e vigliacca mano mafiosa il sottufficiale degli agenti di custodia, Antonino Burrafato. A quattro passi da casa, a due passi dal carcere “Cavallacci”: il suo posto di lavoro. Aveva 49 anni.
Una storia che non è fatta solo di terapie e rimedi, ma soprattutto del senso del dovere che nell’esistenza della vita di mio padre si è concretizzato non solo nel lavoro ma anche nei sentimenti. La trama della sua vita è stata intessuta con la trama della vita dei detenuti. Le loro patologie, i loro atteggiamenti quotidiani, il sacrificio vissuto in carcere hanno costituito il sostanziale fulcro della storia di Antonino Burrafato.
Vicebrigadiere degli agenti di custodia era un marito fedele e laborioso, un padre affettuoso e premuroso. Uno di quegli uomini che ogni donna sogna di avere al proprio fianco e che ogni ragazzo sarebbe orgoglioso di avere come guida. Coraggiosamente si era schierato dalla parte dello Stato in un’epoca in cui bastava poco per finire nel mirino della mafia. Un eroe del nostro tempo, la cui vita è stata spezzata ingiustamente solo perché non si piegava a ricatti e minacce in un posto di trincea, com’era il carcere dei Cavallacci negli anni ’80, dove - tra gli altri - era detenuto quel Leoluca Bagarella che, come si seppe molti anni dopo, decretò la sua morte.
La sua colpa? Una vivace discussione con un mafioso allora detenuto nel carcere di Termini Imerese. La questione in sé era banale. Un permesso forse non accordato, perché quelle erano le disposizioni dei suoi superiori, del regolamento ed alle quali si doveva attenere. Il risultato di questo rifiuto generò il suo isolamento nel luogo di lavoro. Solo, davanti ad un boss del calibro di Leoluca Bagarella cognato di Totò Riina, in quel tempo al massimo della sua potenza, ed al quale nessuno poteva dire no.
Un’offesa da lavare col sangue. Di lì a poco (a testimonianza dell’alta permeabilità delle strutture carcerarie prima del 41 bis) la vendetta venne consumata. Era addetto all’ufficio matricola ed anche in quel giorno d’estrema calura, in leggero ritardo rispetto agli orari quotidianamente osservati, inconsapevole del suo ingrato destino, dopo essersi affettuosamente intrattenuto con me e mia madre per l’ultima volta, uscì per tornare al lavoro. Il cammino che lo portava da casa al carcere era breve e lo percorreva a piedi come ogni giorno. Lo hanno assassinato in modo spietato, sotto il tiro incrociato della lupara e di una rivoltella calibro 38, colpendolo, mentre si trovava sul lato più basso di piazza S. Antonio, quando era oramai a pochi passi dal carcere. Poi, abbiamo saputo che i killers avevano sparato da un’auto dapprima con un fucile a canne mozze senza colpirlo. Solo uno di loro era sceso a terra ed aveva sparato cinque colpi mortali con una calibro 38 centrandolo alla testa e al torace.
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