venerdì 9 novembre 2012

9 Novembre 1995
Serfino Famà 57 anni, avvocato penalista

9 novembre 2010. Sono trascorsi 15 anni dall’omicidio per mano criminale dell’avvocato Serafino Famà. Egli nacque il 3 aprile del 1938 a Misterbianco in provincia di Catania; era un avvocato penalista, che considerava la sua funzione non semplicemente come un lavoro, lui ci credeva, indossava la toga e la onorava ogni giorno. Credeva nella giustizia, nel diritto di ogni uomo ad essere difeso, nella legalità. “Onestà e coraggio. Se ti comporti con onestà e coraggio non devi avere paura di nulla”. Per quel suo rifiuto ad una richiesta di un mafioso venne condannato a morte da quel boss che oggi collabora con la giustizia.

Sono le 21 del 9 novembre 1995: all'angolo tra viale Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca vengono esplosi sei colpi di pistola calibro 7,65 che colpiscono e uccidono l'avvocato Serafino Famà. Lui e il collega Michele Ragonese sono appena usciti dallo studio poco distante e stanno raggiungendo la macchina posteggiata in piazzale Sanzio, pronti a tornare a casa. Poi gli spari, Famà si accascia al suolo, è ancora vivo, ma per poco. Alle 21.20, al suo arrivo in ambulanza al Pronto Soccorso dell'ospedale Garibaldi, ha già smesso di respirare.
Per un anno e mezzo le indagini su quel delitto non portano a nessuna soluzione, fino al 6 marzo 1997, data in cui Alfio Giuffrida, affiliato e reggente del clan mafioso Laudani, manifesta la sua intenzione di collaborare con la giustizia.
Secondo i PM Ignazio Fonzo e Agata Santonocito, il mandante, dal carcere, è Giuseppe Di Giacomo (reggente del clan Laudani), gli esecutori materiali sono Salvatore Catti e Salvatore Torrisi, mentre lo stesso Giuffrida e Fulvio Amante osservano la scena da un'automobile. Il 16 marzo del 1998 il GUP del Tribunale di Catania dispone il rinvio a giudizio per loro e per altre quattro persone, accusate di omicidio volontario pluriaggravato, porto e detenzione illegali di arma da fuoco e ricettazione.
Il movente dell'omicidio è semplice: «Gli ha fregato i soldi...», dice il boss Di Giacomo al cognato Matteo Di Mauro, durante uno dei loro colloqui all'interno della casa circondariale di Firenze. Il soggetto, però, non è Serafino Famà, bensì l'avvocato Tommaso Bonfiglio, legale Di Giacomo, dal quale avrebbe ottenuto tra i duecento e i duecentocinquanta milioni di lire con la promessa di immediata scarcerazione, non avvenuta. Ma colpire Bonfiglio sarebbe stato un azzardo, avrebbe aggravato la situazione di Di Giacomo: il contrordine arriva pochi giorni dopo. Di Mauro comunica a Giuffrida «di lasciar perdere l'avvocato Bonfiglio, ma di fare l'avvocato Famà». Perché Famà?
Le ragioni di questa scelta sono da ricercarsi in un procedimento di alcuni anni prima: Di Giacomo era stato arrestato mentre si trovava a letto con Stella Corrado, moglie di suo cognato Matteo Di Mauro. L'infedeltà di Di Giacomo e della Corrado avrebbe potuto causare pesanti problemi all'interno del clan, qualora fosse stata resa pubblica. Di Giacomo aveva programmato l'omicidio della Corrado, ma era stato arrestato prima di poterlo portare a compimento; a quel punto ha sperato che la sua amante lo scagionasse durante una deposizione che avrebbe dovuto rendere al Tribunale di Catania in un processo a carico di Di Mauro, difeso dall'avvocato Famà. Ma Famà aveva consigliato alla donna di astenersi dal fare qualunque dichiarazione, e lei aveva accettato il consiglio del legale.

Nella sentenza sull'omicidio Famà, si legge: «Di Giacomo si lamentava dell’arresto subìto, che riteneva ingiusto anche per le modalità con cui era stato eseguito, e contava molto sulle dichiarazioni di Stella Corrado per dimostrare la sua innocenza». E ancora: «La mancata deposizione della Corrado, certamente conseguente all’intervento dell’avvocato Famà, era stata vista dal Di Giacomo come la causa diretta della irrealizzabilità del proprio scopo (cioè la scarcerazione, ndr)».
Cominciano gli appostamenti, vengono coinvolti altri membri del clan. Si trovano in una stalla ad Aci Bonaccorsi quando Gaetano Gangi e Mario Basile comunicano che Famà è chiuso nello studio, e ci rimarrà probabilmente il tempo necessario perché lo raggiungano e gli tendano l'agguato. Nel giro di poche ore, Serafino Famà è una vittima della mafia. I giudici, nelle motivazioni della sentenza di colpevolezza a carico degli imputati, pronunciata il 4 novembre 1999, scrivono: «Le risultanze processuali pertanto, per come sopra evidenziato, hanno dimostrato che il movente dell’omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletata dall’avvocato Famà».
Di Mauro, Di Giacomo, gli esecutori e gli autisti sono stati condannati all'ergastolo. Al collaboratore di giustizia Alfio Giuffrida è stata comminata la pena di diciotto anni di reclusione.


Di seguito è riportato un frammento di lettera di Flavia Famà, figlia di Serafino, scritta il 9 novembre 2009 in suo onore e in sua memoria:
"Sono passati 14 anni da quel 9 novembre del 1995 quando all'uscita dallo studio mio padre fu ucciso. Ucciso per dare l'esempio a chi, come lui, non intendeva ascoltare i "consigli" dei clienti. Nasce il 3 aprile del 1938 a Misterbianco in provincia di Catania. Mio padre era un avvocato penalista, non era solo un lavoro, lui ci credeva. Credeva nella giustizia, nel diritto di ogni uomo ad essere difeso, nella necessarietà di applicare e far rispettare la legge."Onestà e coraggio"; se ti comporti con onestà e coraggio non devi avere paura di nulla mi diceva. Catania, 1995, una città difficile, intrisa di omertà, paura e accondiscendenza, purtroppo non molto distante dalla Catania di oggi...Il fatto scatenante è stato un processo che indirettamente coinvolgeva un'assistita di mio padre: questa donna era in casa con un uomo quando quest'ultimo viene arrestato, l'avvocato difensore dell'uomo ritiene fondamentale per la scarcerazione del suo cliente la testimonianza della donna, mio padre non lo ritiene opportuno e nonostante le richieste dell'altro avvocato dice alla sua assistita di non essere tenuta a farlo ed anzi pare che glielo sconsigli. L'uomo viene condannato e decide di uccidere il suo avvocato, quest'ultimo si discolpa dicendo che tutto è dipeso dalle scelte di mio padre. Indipendenza e libertà non potevano essere tollerate da loro. Non si è mai capito quale sia stata la reale influenza dell'avvocato sulla decisione di quell'uomo che dal carcere fece partire l'ordine di uccidere. Un omicidio che ha lasciato un testimone oculare incolume, un collega e caro amico di mio padre che quella sera era lì con lui e che è rimasto a lungo sotto choc. Tutti a volto scoperto. Non ho voluto citare i nomi dei soggetti coinvolti soltanto perché non voglio che il ricordo di mio padre venga associato a quello dei suoi carnefici. Mi piacerebbe che venisse ricordato per la sua onestà intellettuale, per il coraggio con cui difendeva ogni giorno le sue idee. Com'è cambiata la mia vita, come ho vissuto e vivo questo legame profondo... è un'altra storia."

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