sabato 3 novembre 2012

3 Novembre 1915
Bernardino Verro 49 anni, dirigente del Partito Socialista, sindaco di Corleone

Dovette essere davvero un ribelle temerario questo Bernardino Verro da Corleone se, nel 1892, all'età di 26 anni, osò definire "usurpatori e sfruttatori del popolo" gli amministratori comunali, che l'avevano assunto come impiegato. Sicuramente un sovversivo, un "disobbediente", un "cani ca nun canusci patruni", per dirla tutta. E la risposta dei "padroni" del municipio - che poi erano i più ricchi proprietari terrieri di questo grosso centro agricolo a 60 chilometri da Palermo e, alcuni, anche componenti della famigerata associazione segreta dei "fratuzzi" (come allora si chiamavano i mafiosi) - non si fece attendere: lo licenziarono immediatamente. La rappresaglia politica, però, non scoraggiò affatto Verro, che, insieme a Calogero Milone, Biagio Gennaro, Francesco Puccio, Liborio Termini, Angelo Provenzano e Francesco Streva, costituì il circolo repubblicano-socialista "La Nuova Età", con l'obiettivo di battersi per il rinnovamento sociale e politico di Corleone. Un pugno nello stomaco per i notabili del paese, che con rabbia dovettero prendere atto del "brutto" carattere del giovane Verro, sempre più vicino alla nascente ideologia socialista. E, quando in Sicilia spuntarono come funghi i fasci contadini, uno dei primi a nascere - l'8 settembre 1892 - fu quello di Corleone, presieduto proprio da Bernardino Verro. "Il nostro fascio - dichiarò con orgoglio al giornalista Adolfo Rossi, in un'intervista per "La Tribuna" di Roma dell'autunno 1893 - conta circa seimila soci tra maschi e femmine, ma ormai si può dire che, meno i signori, ne fa parte tutto il paese, tant'è vero che non facciamo più distinzione fra soci e non soci. Le nostre donne hanno capito così bene i vantaggi dell'unione tra i poveri, che oramai insegnano il socialismo ai loro bambini". L'unione tra i poveri: era questo il messaggio semplice e rivoluzionario dei fasci. Verro e gli altri "apostoli" del socialismo isolano lo spiegavano così ai contadini: "Se voi prendete una verga sola la spezzate facilmente, se ne prendete due le spezzate con maggiore difficoltà. Ma se fate un fascio di verghe è impossibile spezzarle. Così, se il lavoratore è solo può essere piegato dal padrone, se invece si unisce in un fascio, in un'organizzazione, diventa invincibile".

Fame e miseria, volontà di scrollarsi di dosso secoli di schiavitù feudale e speranza di riscatto sociale costituirono la molla che spinse enormi masse di senza terra e di senza lavoro ad unirsi, a rivendicare patti agrari più giusti e condizioni di vita più umane. Alla loro testa si misero intellettuali e professionisti, che ne assicurarono la direzione: Bernardino Verro a Corleone, Nicolò Barbato a Piana dei Greci, Giacomo Montalto a Trapani, Lorenzo Panepinto a S. Stefano di Quisquina, Giuseppe De Felice Giuffrida a Catania. Un fenomeno rilevante, che mise in crisi il blocco agrario, in un contesto in cui l'intero Stato italiano era investito da una profonda crisi economica ed era incerto sulla strada da seguire per far fronte all'irrompere sulla scena sociale del movimento socialista e del movimento cattolico.
Verro, da "modesto travet del ruolo esecutivo di gruppo C - scrive lo storico Francesco Renda - divenne, nell'arco di pochi mesi, una potenza politica, che tratta da pari a pari coi maggiori esponenti politici dell'isola". E il 31 luglio 1893, al congresso dei fasci che si celebra a Corleone, ormai "capitale contadina", ottiene l'approvazione dei "Patti di Corleone", che rappresentano il primo contratto sindacale scritto dell'Italia capitalistica. La loro forza non stava tanto nei contenuti (proponeva l'applicazione generalizzata della mezzadria, depurata dagli orpelli angarici, imposti negli ultimi anni dai padroni), ma nell'idea semplice e rivoluzionaria che i contadini non dovevano più trattare da soli con i padroni, ma come organizzazione. Assumendo come piattaforma rivendicativa "I Patti", in autunno si svilupparono imponenti scioperi contadini, conclusi quasi ovunque con successo. Ma nei primi di gennaio del 1894 i Fasci siciliani furono sciolti d'autorità e repressi nel sangue dal governo Crispi. Verro e gli altri capi socialisti furono arrestati, processati dai tribunali militari e condannati a 16-18 anni di galera. Scarcerato qualche anno dopo per l'intervenuta amnistia, Verro continuò con decisione la sua attività politico-sindacale a favore dei contadini, organizzando gli scioperi dei primi anni del '900. Nel 1906 a Corleone nacque la cooperativa "Unione agricola", che diventò lo strumento per attuare le "affittanze collettive", un sistema, cioè, per sottrarre i contadini alla intermediazione parassitaria dei gabellati mafiosi e contrattare uniti e direttamente con i proprietari l'affitto degli ex feudi. Fu lo stesso Verro a descrivere in maniera incisiva le nuove condizioni create dalle affittanze collettive. "Codesti antichi gabellati mafiosi - dichiarò egli il 31 gennaio 1911 - finchè erano stati i soli a pretendere in affitto gli ex feudi, avevano potuto imporre ai proprietari e ai contadini le condizioni più favorevoli ai loro interessi, mentre invece col sorgere della cooperativa agricola e coi relativi scioperi i contadini erano venuti a trovarsi di fronte ad una concorrenza formidabile, in quanto che la cooperativa offriva ai proprietari delle terre estagli più elevati di quelli imposti dai gabellati mafiosi. Da qui l'odio profondo di costoro, che venivano lesi nei loro interressi…". Un odio che già aveva decretato la morte di due militanti socialisti: il bracciante agricolo Luciano Nicoletti, assassinato dalla mafia il 14 ottobre 1905, e il medico Andrea Orlando, freddato il 13 gennaio dell'anno successivo.
Ma la mafia di Corleone aveva un motivo in più per odiare Verro: lo considerava un "traditore". Nell'aprile del 1893, infatti, il capo dei contadini corleonesi aveva aderito all'organizzazione dei "fratuzzi" con tanto di cerimonia di iniziazione, che lui stesso descrisse in un memoriale*. L'aveva fatto in un momento particolare, quando il cerchio degli agrari gli si stava stringendo pericolosamente attorno, con l'intento di assassinarlo. Avvicinato da Calogero Gagliano, che gli promise la protezione della mafia contro gli agrari, Verro giocò la partita azzardata di far parte dell'organizzazione per provare a neutralizzarla. Ma ben presto si rese conto dell'impossibilità di conciliare gli interessi del movimento contadino con quelli dei gabellati mafiosi. Già durante il grande sciopero del settembre 1893, i "fratuzzi" si mobilitarono per boicottarlo, fornendo agli agrari la manodopera necessaria per la coltivazione delle terre che i contadini si rifiutavano di coltivare. D'allora Verro se ne allontanò e - come testimoniato dagli stessi organi di polizia - divenne il loro più acerrimo nemico. Non a caso, in un pubblico comizio tenuto la sera del 31 ottobre 1910 in piazza Nascè, Verro attaccò violentemente la mafia, il sindaco Vinci e i suoi assessori. "Siete riusciti a rendere Corleone il più disgraziato dei comuni della Sicilia, lasciandogli solo il triste vanto di essere la sede della Cassazione della mafia siciliana", fu l'accusa che il leader contadino lanciò agli amministratori comunali. E la reazione non si fece attendere. Sei giorni dopo, mentre Verro si trovava seduto nella farmacia del dott. Francesco Palazzo, gli furono sparati contro due colpi di fucile caricato a mitraglia, che fortunatamente lo ferirono di striscio al polso sinistro. "Per questa volta i picciotti fecero fumo!", ironizzò Verro, rivolto ai curiosi che erano arrivati in farmacia dopo la sparatoria.
Fallito l'attentato, la mafia e gli agrari provarono a far fuori Verro con l'arma della calunnia. Il cassiere della cooperativa "Unione agricola", Angelo Palazzo, aveva falsificato delle cambiali, truffando il Banco di Sicilia. Datosi alla latitanza, ebbe degli abboccamenti col pretore di Corleone, al quale confidò che era stato Verro il vero autore delle cambiali false. In base a queste dichiarazioni il dirigente contadino venne arrestato in maniera plateale il 21 settembre 1912 a Roma, dove stava partecipando al congresso delle cooperative. L'arresto segnò il periodo più difficile e doloroso della vita di Verro. All'amico avvocato Gioacchino Giordano, che lo andava a trovare in carcere, disse: "Credilo, se mi avessero accusato di avere voluto far saltare il Quirinale, se io fossi accusato di un delitto politico qualsiasi, che comportasse, magari, la pena di morte, la fucilazione, la forca, resterei tranquillo. Ma, vedi, mi hanno imputato di falso!". "E gli occhi gli luccicavano: quel ciglio che era restato sempre asciutto pei propri dolori e aveva avuto lacrime solo per le sofferenze altrui, era bagnato", racconta Giordano.
Perché Angelo Palazzo avesse coinvolto Verro nel falso in cambiali è chiaro: intanto per attenuare le proprie responsabilità e poi perché spinto dagli esponenti della mafia locale, ai quali si era avvicinato, che così avevano trovato un sistema indolore per sbarazzarsi del capo contadino, infangandone persino l'onore.
Verro rimase in carcere per dieci lunghi mesi, ma finalmente nel luglio 1913 fu liberato e potè fare ritorno a Corleone, accolto entusiasticamente dai contadini, che sapevano della sua onestà. Tutti erano convinti che le accuse infamanti e la terribile esperienza del carcere l'avessero fiaccato, ma Verro stupì amici e avversari. Iniziò nuovamente ad organizzare i contadini, riprese a combattere e ottenne successi strepitosi. Nel 1914 venne eletto consigliere provinciale, insieme al compagno di partito Vincenzo Schillaci, la lista socialista vinse le elezioni comunali e Verro, con 1.455 voti di preferenza, risultò il primo eletto, diventando il primo sindaco socialista della città.

Per la mafia e gli agrari fu troppo. Nel primo pomeriggio del 3 novembre 1915, Bernardino Verro, uscito dal municipio, si stava dirigendo a casa salendo da via Tribuna, dove lo attendevano la compagna, Maria Rosa Angelastri, e la figlioletta di appena un anno, Giuseppina Pace Umana .
Aveva appena licenziato i due vigili urbani che lo scortavano, quando fu fatto segno di numerosi colpi di pistola (undici, di cui quattro sparatigli a bruciapelo al capo), che lo uccisero. La vita di Verro si concluse nel fango di via Tribuna, che impietosamente si mescolò col suo sangue. Il processo per il suo assassinio si concluse - incredibilmente - con la richiesta del pubblico ministero, il commendatore Wancolle, di assolvere tutti gli imputati per non aver commesso il fatto, che il tribunale immediatamente accolse.
Fonte

*Così lo descrive in Cosa Nostra di John Dickie
Verro fu richiesto di ripetere il giuramento di fedeltà dei Fantuzzi prima di stendere la mano destra perché il pollice venisse punto con uno spillo. Il sangue fu spalmato sull’immagine del teschio, che venne quindi bruciata. Alla luce della fiamma, Verro scambiò un bacio fraterno con ciascuno dei mafiosi presenti. Gli fu spiegato che per presentarsi come un membro dei Fantuzzi doveva toccarsi gli incisivi e lamentarsi per un mal di denti.

Riporto la descrizione perché è estremamente simile a quella che verrà descritta dal primo vero pentito di mafia, Leonardo Vitale e successivamente da Tommaso Buscetta. L’immagine di solito è quella della madonna e viene tenuta in mano mentre brucia. Il rituale, arcaico ma dotato di una sua suggestione, rende bene la segretezza e la “chiusura” di Cosa Nostra, e la sua natura di vero e proprio organismo parallelo a quelli statali.