lunedì 8 ottobre 2012

8 Ottobre 1998
Domenico Geraci 44 anni, sindacalista

Tanti i segnali e gli avvertimenti che Domenico Geraci, 44 anni, ex consigliere provinciale del partito popolare, aveva ricevuto da parte dei clan di Caccamo, la roccaforte di Bernardo Provenzano a causa del suo impegno politico. Lo hanno ucciso a fucilate davanti casa nella centrale piazza Zafferana la sera del 20 ottobre del 1998, davanti al figlio che gli aveva aperto la porta. Pochi secondi e sono fuggiti via in mezzo a decine di testimoni. Era il candidato sindaco del suo paese e non aveva esitato a fare nomi e cognomi nel denunciare gli interessi non legali del piano regolatore e aveva iniziato a controllare gli appalti delle opere pubbliche. Aveva deciso di riscattare il suo paese, definito da Falcone “la Svizzera dei clan”, lo hanno voluto fermare e lo hanno ucciso.



Il suo omicidio resta ancora avvolto nel mistero e senza responsabili, anche se il capomafia di Caccamo, Nino Giuffrè, collaboratore di giustizia, ha dichiarato ai magistrati che la condanna a morte sarebbe stata decisa perché Geraci aveva girato le spalle alla vecchia Dc, avvicinandosi al centrosinistra, in particolare al deputato diessino Beppe Lumia.
Il pentito ha rivelato nell’ottobre 2002 particolari sul delitto, e i magistrati riaprirono le indagini iscrivendo nel registro degli indagati i nomi di Bernardo Provenzano e Benedetto Spera. Ad assassinare Geraci, secondo il pentito Giuffrè, sarebbe stato un sicario a volto scoperto della famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno, zona controllata dal boss Spera. L’agguato, sempre secondo il collaboratore di giustizia, venne effettuato senza il suo consenso, e pure vicino all’abitazione in cui viveva la sua famiglia. Una sorta di “segnale” che Provenzano e Spera avrebbero voluto inviare al capomafia che si era opposto per due volte all’omicidio. Ma le dichiarazioni di Giuffrè non sono state sufficienti per portare a giudizio le persone sospettate dell’omicidio, così il caso e’ stato archiviato.
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Adesso quella stretta di mano nella piazza del paese è un ricordo che fa male. Quattro telefonate da Milano ("Aveva una voce gentile, non formale"), e la mattina del 16 luglio di quest'anno Enrico Deaglio, giornalista, direttore del Diario, era arrivato puntuale a Caccamo per un'inchiesta, per conoscere quella che Giovanni Falcone chiamava "la Svizzera della mafia". A fargli da guida "un uomo pacioso, affabile": Domenico Geraci, sindacalista della Uil, futuro candidato sindaco di Caccamo. Massacrato giovedì notte con un fucile a pompa davanti alla porta di casa, mentre il figlio dalla finestra vedeva, e urlava. Era cominciata proprio dall'ingresso di quel palazzo, la giornata di Deaglio con Geraci: "Aspetti, le faccio un regalo" - mi aveva detto -. Ed era salito in casa: cinque minuti dopo ne era sceso con un libro sulla storia di Caccamo". Non era un giorno qualunque, quel 16 luglio: la Camera doveva votare sulla richiesta d'arresto di Gaspare Giudice, deputato di Forza Italia eletto a Bagheria, accusato di associazione mafiosa e riciclaggio, la cui storia, anche giudiziaria, è strettamente legata a Caccamo. "Eravamo in macchina, fuori dal Comune - dice Deaglio - e Radio Radicale raccontava di come la Camera avesse respinto a stragrande maggioranza la richiesta d'arresto. Geraci era scandalizzato: non tanto dalla decisione, quanto dalla reazione degli assessori che stavano intorno a noi: "Ho saputo, sono cose che fanno piacere", diceva uno. Un altro invece esultava: "Così la finiranno di tirare in ballo questo paese per questioni di mafia". "Mico" Geraci guardava. E imprecava: "Non capiscono niente, non vogliono capire", diceva". Agli assessori che dopo le sue insistenze accettavano il colloquio con il giornalista venuto da Milano "a patto che non si parli male del nostro paese", Geraci replicava a muso duro: "La gente si deve occupare di Caccamo - diceva - perché la nostra è una storia di oppressione mafiosa, ed è stupido negarlo". Lui, il sindacalista della Uil, aveva capito tutto. "Tranne un dettaglio". A Enrico Deaglio rimbomba nelle orecchie una frase: "Una delle prime che mi disse quella mattina: "Questo è un posto dove la mafia non ha mai ammazzato nessuno, e mai lo farà. Usano altri metodi, per le persone sgradite: le fanno trasferire da qualche altra parte, le "sistemano" altrove. Perché questa è una zona extraterritoriale, nella quale non vogliono che succeda niente. Qui non potranno mai uccidere nessuno". Un posto dove, raccontava Geraci, "Non c'è mai stato un segno visibile che ci fosse la mafia. É questa la stranezza di Caccamo: non c'è un manifesto sui muri, non c'è mai stata una manifestazione, niente di niente". Da quella calda giornata di luglio, fatta di lunghe chiacchierate, di un pranzo nel ristorante della piazza centrale, dell'incontro con assessori e notabili ("Era in buoni rapporti con tutti, o almeno pensava di esserlo"), di un giro in macchina fino a Bagheria, Deaglio pesca un altro ricordo: una sosta davanti a una chiesa. "Mi aveva indicato una pianticella: "La vedi? Quello è il nostro albero - Falcone. L'hanno messo lì a maggio di quest'anno, nell'anniversario di Capaci. A Caccamo è stata la prima manifestazione antimafia, un pugno di persone, per ricordare Falcone. A sei anni da quel giorno". Parlava con rabbia, ma con speranza: "Mi disse che si voleva candidare a sindaco, e quale sarebbe stato il suo programma. Gli bastarono due frasi: "Sono fermamente intenzionato a mettere mano al piano regolatore perché il marcio nasce da lì. E poi coinvolgere la gioventù, il volontariato, i cattolici impegnati. É l'unico modo per spezzare questo circolo di potere che è completamente in mano loro". Un sospiro, poi Deaglio riprende a parlare: "Era un buon programma, non gli hanno lasciato il tempo di metterlo in pratica. Non potevano permetterlo: questo è il paese dei Giuffrè, uomini di Bernardo Provenzano. Gente di potere, che si sente padrona del territorio, potente al punto da arrivare a questo omicidio. Un segnale tremendo". Geraci questo però non l'aveva capito: "Credo sottovalutasse il pericolo. Non se ne rendeva conto. Abbiamo passato la giornata insieme, e mai una volta che mi abbia detto "Dobbiamo stare attenti". Non faceva assolutamente la parte dell'eroe, anzi: "Vieni, ti porto a prendere un caffè in piazza", mi diceva, e ci teneva a presentarmi in giro. Sentiva come suo quel paese, diceva di esserne "un elemento del paesaggio". Era felice della sua vita, del suo mestiere di sindacalista sempre in macchina tra Caccamo e Palermo, a occuparsi di questioni di contributi, di pratiche burocratiche dei suoi compaesani". Deaglio accende l'ennesima sigaretta: "Hanno ammazzato un buon cattolico, uno impegnato, una bella intelligenza siciliana, che sapeva tutto, un entusiasta. Ecco, Domenico "Mico" Geraci era questo tipo di persona". Uno che del suo paese aveva capito tutto - e per questo faceva paura - tranne un dettaglio.
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