sabato 27 ottobre 2012

27 Ottobre 1972
Giovani Spampinato 25 anni, giornalista

Tutti si gloriavano di vivere a Ragusa, capoluogo della Sicilia produttiva e perbene. Ragusa era la provincia "babba", un pezzo di Sicilia celebrato in quanto pacifico, pulito, tranquillo, immune da contaminazioni mafiose. Ma non era questo luogo paradisiaco. Era un verminaio, solo che nessuno ci faceva caso e nessuno guardava dietro la facciata. In città si svolgevano oscuri traffici. Il perbenismo nascondeva turpitudini da provincia corrotta. Le belle spiagge erano approdo sicuro di contrabbandieri di sigarette, droga e armi. I campi disseminati di carrubi e recintati da muretti a secco ospitavano campi paramilitari clandestini. La passione di alcuni per gli scavi archeologici faceva da paravento a raduni eversivi di estrema destra. Superlatitanti dell'eversione nera circolavano indisturbati...
Convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, i pacifici cittadini di Ragusa rifiutavano di vedere queste crepe. Non vollero vederle neppure il 25 febbraio 1972, quando l‟armonia fu turbata da un truce e oscuro omicidio. Il cadavere di Angelo Tumino, 48 anni, ingegnere, ex play boy, ex consigliere comunale del Msi, commerciante di antiquariato, fu trovato abbandonato su una trazzera. L‟uomo era stato barbaramente ucciso. Da chi? Vagamente, i giornali scrissero: ”le indagini seguono tutte le piste”, e si disinteressarono delle indagini.
Fra i corrispondenti c‟era un ragazzo di 25 anni che vedeva le cose diversamente. Si chiamava Giovanni Spampinato. Studiava filosofia all‟Università di Catania. Tre anni prima, Vittorio Nisticò, il leggendario direttore de "L'Ora degli anni ruggenti" lo aveva reclutato come corrispondente con l‟incarico di guardare dietro la facciata. Da allora, il ragazzo trascurava gli esami, pubblicava documentate inchieste sulle rughe che stravolgevano il celebrato volto della “provincia babba”. Dalla redazione di Palermo riceveva complimenti, ma dai suoi concittadini solo rancori e critiche. Anche alcuni suoi colleghi erano risentiti. “Chi te lo fa fare?”, gli dicevano quelli che si vantavano di andare d‟accordo con tutti. […]Le sue inchieste descrivevano il frenetico attivismo, nella provincia babba e dintorni, di gruppi eversivi di estrema destra collegati ai fascisti locali e ai caporioni di Ordine Nuovo e non estranei agli oscuri traffici lungo la costa.
Giovanni guardò dietro la facciata anche quel 25 febbraio 1972, quando a Ragusa fu assassinato Tumino. Poi scrisse sul suo giornale: gli inquirenti seguono tutte le piste, e fra tutte le piste, ce n‟è una che porta dentro il Palazzo di Giustizia. Fra i sospettati c'è un insospettabile: il figlio del Presidente del nostro Tribunale. Inoltre nelle indagini, aggiunse, sono coinvolti alcuni protagonisti delle mie inchieste sulle trame nere.... Gli altri corrispondenti non scrissero nulla di tutto ciò. “Manca la conferma ufficiale”, dissero. Giovanni cominciò a chiedere: come mai stando così le cose – perché Il figlio del giudice era veramente sospettato - l‟istruttoria penale non viene trasferita in un‟altra città? Anche allora gli altri corrispondenti si voltarono dall‟altra parte.
A Ragusa gli articoli di Giovanni giravano di mano in mano. Non si parlava d‟altro. Ma non succedeva niente. C‟era solo quel ragazzo-giornalista che raccoglieva notizie e continuava a fare il grillo parlante. Espose anche il punto debole dell‟alibi del figlio del giudice. Passarono sei mesi. L’inchiesta restò a Ragusa girando a vuoto. Poi il 27 ottobre 1972, il sospettato scaricò addosso a Giovanni due delle cento pistole con cui notoriamente andava in giro. Lo uccise, prese un sonnifero e si costituì.
I giudici furono molto comprensivi. Lo trattarono come un figlio. Gli diedero solo uno scapaccione. Per salvarlo dall’accusa di omicidio volontario premeditato e da altre aggravanti che portavano dritto all’ergastolo, dissero che con i suoi articoli (che riferivano notizie vere) quel giornalista lo aveva provocato in modo insopportabile. Al processo, il “figlio della giustizia” se la cavò con una condanna a 14 anni. Di fatto ne scontò solo otto, e in manicomio giudiziario.
Dopo il delitto, la provincia babba riprese il quieto tran tran. Delle piste del delitto Tumino indicate da Spampinato non si occupò più nessuno. Svanirono nel nulla. Come dire? A volte un delitto lava laltro.
Il 6 novembre 1972 Giovanni avrebbe compiuto 26 anni. Era un ragazzo mite, innamorato della vita, alle prese con i sogni e le prove della sua età. Era cresciuto in una famiglia di modeste condizioni, ma di grandi ideali[…]
Con i suoi articoli cercava di scuotere concittadini che consideravano giusti, fondati perfino i privilegi semifeudali e le angherie che, ancora nel 1970, nelle campagne di Ragusa, regolavano i rapporti fra chi possedeva la terra e chi la lavorava. Giovanni cercava di scuotere anche i suoi colleghi giornalisti e i giornali locali che rimandavano quel riflesso ingannevole, mistificante della realtà circostante: la solita immagine edulcorata, paradisiaca della “provincia babba”. L’immagine stereotipata celebrata anche dal vescovo, un prelato di vecchio stampo che non digeriva le novità del Concilio Vaticano II e i mal di pancia del dissenso cattolico, e neppure le lotte sindacali: vantava sempre l’animo pacifico del suo gregge che rifiutava la lotta di classe.
Giovanni non riusciva ad accettare che si potesse dare un’immagine così falsa e strumentale di Ragusa. Si sentiva immerso nella falsità. Noi diremmo: in un “Truman show”. Si chiedeva: come fanno gli altri, che vivono accanto a me, a fingere di non vedere quel che vedo io? Non riusciva a spiegarlo. Talora dubitava delle sue deduzioni. Ma poi i fatti gli davano ragione, e ripartiva sentendo l’ebbrezza di chi ha il dono della vista in un mondo di ciechi.
Le cose andavano proprio così! Neanche quelli che gli erano più vicini vedevano quel che vedeva Giovanni. Neanche io, che ero suo fratello e avevo diviso con lui sogni, progetti ed ideali, vedevo quel che vedeva lui. Non riuscivamo a credere agli allarmi che lanciava. Non accettavamo l’idea che Giovanni potesse capire meglio di noi quel che accadeva sotto i nostri occhi. Eravamo ciechi e sordi. Sottovalutavamo il fatto che Giovanni disponeva di strumenti di conoscenza e di interpretazione della realtà più potenti dei nostri: il giornalismo di inchiesta, la supervisione della redazione del’‟Ora, una formazione multi-disciplinare, contatti al di fuori del mondo chiuso di Ragusa.
[…]Nel piccolo mondo di Ragusa, Giovanni aveva la fortuna e la disgrazia di essere un giornalista. Era cioè uno dei pochi a disporre di un occhio acuto in un mondo di ciechi. Questo status lo stimolava a fare la “piccola vedetta lombarda”, a salire in alto, sui pennoni più esposti al fuoco nemico per fare un’osservazione in nome collettivo. […]Scoprì, […] e lo raccontò ai suoi lettori, che super-latitanti dell’eversione nera circolavano liberamente, riveriti e ossequiati; che negli ambienti della destra locale si parlava di campi paramilitari, di armi, di sbarchi clandestini di strane merci sul litorale circostante; scoprì che a Ragusa erano arrivati da Roma noti fascisti che ostentavano legami col principe nero golpista Junio Valerio Borghese, che avevano mirabolanti progetti di investimenti. E mentre faceva queste scoperte, nella quiete bucolica di Ragusa, fra i muretti a secco, le mucche al pascolo brado e i carrubi secolari dell’leografia consolidata, si verificò quel fatto assolutamente fuori dell’ordinario: l’assassinio dell’ingegner Angelo Tumino, un noto professionista che aveva rapporti con alcuni dei personaggi citati nelle inchieste di Giovanni sul neofascismo, ucciso con modalità che fecero subito pensare allo stile mafioso, a un’esecuzione in piena regola. Com’era possibile che accadesse una cosa così orribile, nel migliore dei mondi possibili? Lo schizzo di sangue dell’omicidio Tumino imbrattò il paradisiaco scenario del “Truman show”. Quando nelle indagini fu coinvolto quel personaggio al di sopra di ogni sospetto, il figlio del giudice più alto in grado in città, Giovanni lo scrisse sul suo giornale. Immaginò che finalmente il velo dell’ipocrisia sarebbe caduto, che finalmente i suoi concittadini avrebbero convenuto con le sue idee sulla vera natura della provincia iblea, avrebbero ammesso che lì avvenivano strane cose. Giovanni immaginava questi sviluppi. Si sbagliava. I suoi concittadini si preoccuparono solo di cancellare in fretta la macchia di sangue e di riprendere lo spettacolo. La parte imbrattata dello scenario fu ritagliata con cura e nascosta alla buona, sotto il tappeto, davanti a molti testimoni, davanti allo sguardo distratto dei giornalisti del luogo. Anche loro finsero di non vedere. Giovanni invece documentò e descrisse la scena ai lettori dell’Ora. Il giornale pubblicò il nome del sospettato eccellente. Fu uno scandalo. Ma a finire sotto accusa fu proprio il cronista indiscreto… Giovanni dovette giustificarsi. “Come avrei potuto tacere un fatto così clamoroso, e per di più palese?”, diceva. Anche nei mesi successivi fu l‟unico cronista a scrivere articoli sullo stallo delle indagini.
Il figlio del giudice sospettato si chiamava Roberto Campria. Aveva trent’anni. Era un giovane scapestrato. All’Università s’era perso per strada e i genitori gli avevano procurato un impiego pubblico. Collezionava armi, giocava a carte, frequentava personaggi equivoci della destra e della malavita. Insomma la sua figura non era adamantina. Ma era il rampollo dell’alto magistrato, e forse proprio per questo fu trattato con molta, troppa indulgenza dagli inquirenti. E, nonostante questo, non sapeva come uscirsene. Era preoccupato che fossero pubblicato altre notizie sui sospetti che gravavano su di lui. Spalleggiato dai genitori, tentò di intimidire il cronista dell’Ora. Prima, con una querela insostenibile, che in Tribunale fu lasciata cadere. Poi cercando di conquistare la fiducia del cronista per tirarlo dalla sua parte. Gli confidò, ad esempio, di temere che chi gli aveva fornito l’alibi cambiasse idea. Giovanni pubblicava le dichiarazioni del sospettato che si dichiarava innocente. Ma questi non si accontentava. Lo assillava con le sue richieste. Voleva che il ragazzo-giornalista scrivesse in un articolo di essersi convinto che con l’omicidio non c’entrava nulla. Come puoi pretendere da me una cosa simile, gli obiettava Giovanni? E a cosa servirebbe? Il sospettato cominciò a fare la vittima. Ce l’avevano con lui perché ce l’avevano con suo padre…
Diceva che a Palazzo di Giustizia c’era una lotta contro suo padre. Cercavano di coinvolgere il figlio per fregare lui. Scrivilo, diceva al cronista. Giovanni rispondeva: se metterai questa dichiarazione per iscritto, io ne darò notizia e col massimo rilievo. Il confronto si arenò su questo punto. Il sospettato insisteva per un articolo che scagionasse lui e mettesse in buona luce suo padre. Sapeva benissimo che non spettava al ragazzo-giornalista scagionarlo. Qual era il suo vero obiettivo? Forse scoprire se il cronista sapeva qualcos’altro sul suo conto e sulle indagini sul delitto Tumino. O forse semplicemente screditare il giornalista che aveva osato fare il suo nome, facendogli scrivere una bufala. Così non sarebbe più stato preso sul serio, qualunque cosa gli venisse in mente di scrivere. Giovanni si poneva queste domande e non sapeva rispondere. Capiva che il sospettato attribuiva a quell’articolo enorme valore, ma non era disposto a scrivere notizie clamorose senza nessuna pezza di appoggio. Capiva che quel tipo, che si vantava di andare in giro armato, voleva mettergli paura.
Giovanni la paura ce l’aveva, altro che! Ma non voleva darla a vedere, non era disposto a cedere. Non era disposto a dire che quel Truman Show era la realtà. Come avrebbe potuto dirlo, lui che continuava a tenere il drago per la coda? Lui che aveva denunciato lo scandalo? Lui che aveva lanciato l‟allarme e adesso aspettava solo che arrivassero “i nostri”? Forse anche il giovane scapestrato figlio del giudice-per-antonomasia temeva che arrivasse il Settimo Cavalleggeri.
Fatto sta che a un certo punto per il figlio del giudice l’attesa si fece intollerabile. Perciò con una scusa attirò il ragazzo-giornalista in un posto isolato, e lo uccise.
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