lunedì 6 agosto 2012

6 Agosto 1980
Gaetano Costa 64 anni, magistrato

Gaetano Costa (Caltanissetta, 1916 – Palermo, 6 agosto 1980) è stato un magistrato italiano ucciso dalla mafia.
Procuratore Capo di Palermo all’inizio degli anni ottanta, fu assassinato dalla mafia il 6 agosto 1980, mentre sfogliava dei libri su una bancarella, sita in un marciapiede di via Cavour a Palermo, a due passi da casa sua, freddato da tre colpi di pistola sparatigli alle spalle da due killer in moto. Causa di quella spietata esecuzione, il fatto che egli avesse firmato personalmente dei mandati di cattura nei confronti del boss Rosario Spatola ed alcuni dei suoi uomini che altri suoi colleghi si erano rifiutati di firmare.

Di lui scrisse un suo sostituto che era un uomo “di cui si poteva comperare solo la morte”.
Alle 19:30 del 6 agosto 1980, mentre passeggiava da solo ed a piedi, morì dissanguato sul marciapiede di via Cavour a Palermo. Al funerale parteciparono poche persone soprattutto pochi magistrati. Non va dimenticato che, pur essendo l’unico magistrato a Palermo al quale, in quel momento, erano state assegnate un’auto blindata ed una scorta, non ne usufruiva ritenendo che la sua protezione avrebbe messo in pericolo altri e che lui era uno di quelli che “aveva il dovere di avere coraggio”. Nessuno è stato condannato per la sua morte ancorché la Corte di assise di Catania ne abbia accertato il contesto individuandolo nella zona grigia tra affari, politica e crimine organizzato. Da molti settori, compresa la Magistratura, si è cercato di farlo dimenticare anche, forse, per nascondere le colpe di coloro che lo lasciarono solo e, come disse Sciascia, lo additarono alla vendetta mafiosa. Il suo impegno fu continuato da Rocco Chinnici, allora tra i pochi che lo capirono e ne condivisero gli intenti e l’azione, e, per questo ne seguirà la sorte.
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Acuto e duro nella lotta alla mafia il magistrato siciliano Gaetano Costa. Un procuratore della Repubblica che a Palermo sconvolge gli equilibri paludosi del Palazzo di Giustizia e indaga sui delitti eccellenti della fine degli anni Settanta coniugando la tecnica giudiziaria alla conoscenza del fenomeno mafioso. Chiamato a Roma dal ministro di Grazia e Giustizia, Tommaso Morlino, per relazionare sullo stato delle cose a Palermo, nel chiuso dell’ufficio, alla fine del discorso, testimonia Giacomo Spataro, all’epoca presidente del tribunale del capoluogo siciliano: «di scatto si alzò ed assumendo un’espressione di dura fermezza, accompagnato da un gesto della mano, quasi a significare la forza dell’opinione che stava per manifestare, come a far intendere che una tale forza, una tale fermezza, un tale rigore erano mancati nella lotta alla mafia disse queste poche parole «la mafia si può vincere colpendola nelle ingenti ricchezze accumulate, nella sua ingente forza finanziaria, nei suoi forzieri, nei canali ingegnosi attraverso i quali passa il flusso di queste ingenti ricchezze grondanti di sangue, di molto sangue, di quello versato dalle vittime». Tra quelle vittime presto ci sarà anche lui. Isolato da molti in quel Palazzo che di Giustizia ne dispensava poca. Con un percorso inverso a quello di Mario Amato, sostituto lasciato solo dal suo capo. Per Costa accade l’esatto contrario. Il procuratore ha un’idea antesignana del pool. Indagini collettive degli inquirenti per impedire che si possano creare dei bersagli. Ma il progetto crolla in una celebre riunione della procura di Palermo il 9 maggio del 1980. Tre mesi dopo Gaetano Costa sarà ucciso. Il procuratore della Repubblica sa che carabinieri e polizia su iniziativa del questore stanno ricucendo una delicata inchiesta che va oltre lo Stretto di Messina e mette in relazione Palermo con Milano, Torino con Roma. Costa, da parte sua, lavora ad una pista consistente che lega politica e mafia. È stato a stretto contatto con Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione Sicilia che ha denunciato vicende legate agli appalti per la costruzione di alcune scuole affidati a ditte riconducibili alla mafia. Ma il giorno dell’Epifania di quel tragico anno Mattarella, mentre va a messa, viene ucciso. Pochi giorni prima della riunione voluta da Costa la mafia ha ucciso alla fine di una processione a Monreale il capitano dei carabinieri, Emanuele Basile. Il contesto è difficile. Anche in questura a Palermo la situazione è complicata dopo la morte del capo della Mobile, Boris Giuliano, avvenuta l’anno precedente mentre la vittima si recava al lavoro. I poliziotti hanno sospetti su alcuni giudici e hanno paura di redigere rapporti che si possono tramutare in condanne a morte. Il fronte della fermezza a Palermo è costituito da Costa, dal questore Immordino e dal consigliere istruttore Rocco Chinnici che è solito incontrare il procuratore della Repubblica in ascensore per impedire che qualche talpa intercetti le loro parole.
A Costa, pochi giorni dopo l’omicidio Basile, giunge un rapporto. Il questore Immordino scrive che Rosario Spatola, i Gambino a New York e gli Inzerillo detengono il monopolio dell’eroina nel mondo. Per Spatola stanno per scadere i termini della custodia cautelare. Costa “è un giudice prudente” riferirà al Csm Rocco Chinnici dopo il suo omicidio. Guarda e riguarda il rapporto. Convoca una riunione di tutti i sostituti per il 9 maggio nella sua stanza. La sera precedente a casa del sostituto Scicchitano quelli intenzionati a far fronda guardano le carte coperte da segreto istruttorio e decidono per il pollice verso.
Costa propone di emettere 55 ordini di cattura. Indica lacune e positività del rapporto. Fa capire a chiare lettere che va dato un segnale di fermezza. I sostituti si mostrano scettici. Lui ne ha parlato anche con il procuratore aggiunto Gaetano Martorana che si era mostrato accondiscente verso la sua linea. Ma si guarda bene del partecipare alla riunione. Si legge nei diari di Costa dopo la sua morte un appunto del 9 settembre del 1978 scritto a futura memoria di Martorana: “A suo criterio dovrei solo svolgere funzioni di rappresentanza e in effetti è riuscito (finora) ad isolarmi di fatto e a far filtrare fino a me solo pochissime pratiche…. Credo che sarebbe felice se potesse internarmi”. In quella riunione in cui si devono decidere gli arresti nell’ufficio del procuratore della Repubblica ogni nome di mafioso è uno scoglio insormontabile. Costa comprende. Croce e Scicchitano che hanno interrogato gli arrestati argomentano col garantismo il no alle manette. Costa ribatte le sue idee. Uno dei due gli dice “Allora se li firmi lei”. Dirà 12 anni dopo al processo per l’omicidio nella sua arringa l’avvocato di parte civile Zupo: “la sfida è stata raccolta senza parole, senza questioni, col semplice tratto di quella firma solo un po’ più dilatato e grande del solito… Perché Costa come il capitano Bellodi di Sciascia è un uomo e non un ominicchio o un quaquaraquà”. Costa ringrazia tutti e resta solo nel suo studio “consapevole di aver imboccato una strada senza ritorno”. Fuori da quella stanza aspettano gli avvocati dei mafiosi e i loro parenti e i giornalisti che già hanno odore e sentore di quello che sta accadendo. Croce con un sorrisetto obliquo sulle labbra e Scicchitano con una certa drammatizzazione fanno trapelare subito la notizia che il procuratore ha deciso di firmare da solo i 55 mandati di cattura. Palermo trasmette la notizia di bocca in bocca e l’indomani è pronta a commentare i resoconti dei giornali.
Fa una scelta solitaria in stile con la toga molto particolare quel signore di 64 anni abbattuto dal piombo mafioso nel centro di Palermo a pochi metri dalla prefettura. “Un antisimbolo” scrive Mario Farinella all’indomani della sua morte su L’Ora di Palermo tratteggiando questo ritratto: “Era l’antisimbolo per cultura, per educazione, per naturale disposizione. Si considerava ed era soltanto un caparbio amministratore della giustizia, un uomo apparentemente comune, disadorno, dalla vita semplice, essenziale nelle parole, nei gesti, nel lavoro e perciò era un magistrato di audace modernità, razionale e puntiglioso, di raro rigore morale e intellettuale”. Era nato il primo marzo del 1916 a Caltanissetta. Piccolo di statura, sempre gilet e giacca, di ottima cultura umanistica ricavata da ore di lettura. A Caltanissetta consegue la licenza liceale. Poi studia Legge a Palermo. Da ragazzo aderisce al Partito Comunista siciliano clandestino. Infatti insieme alla moglie Rita Bartoli, discendente di patrioti carbonari, aderisce alla sinistra frequentando il circolo di cospiratori che annovera Emanuele Macaluso, Leonardo Sciascia, Gino Cortese. Vince il concorso in magistratura e inizia la sua carriera a Roma. Si arruola nell’aviazione e come ufficiale ottiene due croci di guerra. Alla data dell’otto settembre è uno di quelli che sceglie la via del riscatto e la parte giusta. Raggiunge la Val Susa e combatte con i partigiani. Torna a Caltanissetta dove diventa sostituto procuratore. Restituisce la tessera al partito. Si occupa della mafia di campagna e del rapporto con gli agrari. Ne coglie le trasformazioni imprenditrici nell’assalto ai centri urbani. Nel 1966 diventa procuratore capo a Caltanissetta. Per capire la sua conoscenza della mafia sono inoppugnabili le dichiarazioni che rende alla Commissione parlamentare Antimafia che arriva in Sicilia nel 1969 “In un certo paese ad esempio, il sindaco, concede un appalto e prima lo fa regolarmente. Ma la regolarità è solo apparente, in quanto effettivamente invitato è soltanto uno: gli altri non sono stati invitati; però si fa figurare che lo siano stati, e l’appalto viene dato al primo”. E gli esempi che pone Costa tratti dalla sua esperienza sono da manuale: i concorsi, la punizione della guardia municipale onesta, la licenza di un distributore che ostruisce la strada, le certificazioni false previdenziali. I profitti illeciti e il sistema di potere che opprime. E Costa quando nessuno mette il naso in certe faccende a Caltanissetta compie accertamenti nella Banca rurale di Mussomeli, nella Banca Artigiana di San Cataldo, alla filiale del Banco di Sicilia di Campofranco. Fanno clamore manette a clienti, banchieri, funzionari. I colletti bianchi locali temono Costa che fa compiere accertamenti alla Banca d’Italia scoprendo che i miliardi di un crac erano legati agli appalti della mafia imprenditrice.
Costa è anche un magistrato tecnicamente dotato. Nel 1970 quando partecipa al concorso per la promozione in Cassazione, il presidente della sessione, Flores, presidente vicario della Suprema Corte e eminente giurista affermerà: “Ho letto i suoi titoli, il suo curriculum e ritengo di dire che ci troviamo di fronte ad un magistrato di grande valore”.
Sono elementi utili alla grande svolta del 1978. Il quadro politico nazionale e siciliano modificato dalla collaborazione dei comunisti che appoggiano esternamente i due governi e le nuove irruenze della mafia inducono ad un passaggio epocale deciso dal Csm. Il nuovo procuratore della Repubblica a Palermo è estraneo alla città e non fa parte della corrente di Magistratura indipendente. L’ex procuratore Giovanni Pizzillo diventa procuratore generale. A Palermo nella procura centrale della mafia arriva Gaetano Costa. Uno che viene da Caltanissetta con le sue specifiche competenze su Cosa Nostra. Una toga rossa particolare che non aderisce per esempio a Magistratura democratica ma che ha invece la tessera dell’Unione Magistrati italiani, che ben spiega il giudice Di Lello: “è tanto corporativa da essere anacronistica: scomparirà con l’avvento del sistema proporzionale nelle elezioni per il Csm”.
Una toga rossa a Palermo mette i brividi a tanti. Anche se Emanuele Macaluso in un ricordo postumo sostiene: “Posso testimoniare che in quarant’anni di amicizia Costa non parlò mai, con me e con altri, di vicende giudiziarie, di fatti che lo coinvolgessero come magistrato”. Certo un ex partigiano con la schiena dritta che sa come combattere la mafia mette agitazione sotto il Monte Pellegrino. Quando nel febbraio si ufficializza la nomina la palude giudiziaria si agita come testimonia una bella inchiesta del giornalista Sottile sul “Giornale di Sicilia” che ben ricostruisce quel contesto. I nomi attesi erano altri per quella carica fondamentale per gli equilibri palermitani. Costa non era stato messo in conto da nessuno quindi scrive “Il suo successo ha sovvertito ogni previsione, ha stravolto ogni progetto. Ora rischia di intaccare ogni preordinato equilibrio di potere”. Perché a Palermo l’azione penale mette a rischio imperi finanziari, politici ed economici enormi. Il primo contraccolpo non si fa attendere. Infatti Pizzillo evita la consuetudine del “possesso anticipato” ritardando per mesi la prassi che prevede l’avvicendamento immediato del nuovo procuratore. Quel ritardo provocherà la lettura terroristica della morte di un giovane dilaniato dall’esplosivo a Cinisi nel maggio del 1978. Si chiama Peppino Impastato. Saranno il nuovo procuratore Costa e il consigliere istruttore Rocco Chinnici a tracciare i primi indizi che anni dopo condurranno alla condanna di Tano Badalamenti. Tano Costa aspetta il suo insediamento. Ligio al suo carattere intransigente si presenta a modo suo nel discorso d’investitura. Dopo strette di mano e saluti Costa afferma: “Vengo in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti di inimicizia, di interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”. Il sasso è lanciato e in molti hanno capito che lo scontro arriverà molto presto.
A Palazzo di Giustizia l’anno successivo si somma la notizia dell’arrivo di Cesare Terranova. La mafia risolve temporaneamente il problema uccidendo il futuro capo dell’ufficio istruzione. Ma il Csm lo sostituisce con Rocco Chinnici che presentandosi a Costa afferma: “Non ti farò rimpiangere Cesare”. Finisce la tregua giudiziaria. Le inchieste sulla mafia e la pubblica amministrazione riprendono fiato. L’ufficio ha punti di riferimento certi. Costa chiede ai sostituti di lavorare su poche indagini da condurre al processo. Termina la stagione dei faldoni che si accumulano sulle scrivanie. Costa raccoglie subito l’allarme sottoposto da Piersanti Mattarella sull’appalto concorso per la costruzione di sette scuole a Palermo aggiudicato da sette ditte che hanno partecipato da sole ad ogni singola gara. Proprio il caso di specie che Costa aveva illustrato alla Commissione antimafia nel 1969.
Quella celebre riunione del 9 maggio nella sua stanza è la concretizzazione di quanto Costa aveva profetizzato nel suo discorso d’insediamento. Con gli interlocutori ostili siamo a qualcosa in più della lite. Lui inavvicinabile, e forse anche scostante, in rotta con i mediatori che mai avevano associato la mafia alla gente che conta con il denaro e il potere. Con il procuratore generale Pizzillo gli scontri si erano già manifestati dai tempi di Caltanissetta. Con il procuratore aggiunto Martorana il rapporto si può definire distaccato e freddo pur se segnato da un vicendevole rispetto formale. Un quadro difficile, Costa deve operare nell’ambito di inchieste che non si erano mai viste a Palermo. Dopo la riunione del 9 maggio tutto si complica. Costa si sfoga con Chinnici discutendo del presunto garantismo dei suoi antagonisti: “ Ma quali garantisti, di questi solo tre sono garantisti sul serio, degli altri la metà ha paura e l’altra metà è in malafede”. Costa ha personalmente firmato il 15 ottobre del 1979 le indagini per gli appalti delle scuole che annoverano i nomi di Rosario Spatola, Salvatore Inzerillo e dei Gambino. E la Guardia di Finanza ritrova nell’ufficio di Vincenzo Spatola documenti del comune di Palermo che non potrebbe possedere. Quello stesso Spatola che incrocia gli affari e i ricatti del finanziere siciliano Michele Sindona. L’omicidio di Piersanti Mattarella è una risposta a quell’indagine. Il procuratore di Palermo la amplia puntando ai mandanti di quel clamoroso delitto politico. Costa è anche il procuratore che accoglie la richiesta della Guardia di Finanza di procedere ad inchieste bancarie sui conti sospetti. Costa affiderà queste delicate indagini ad un ineccepibile colonnello della Guardia di Finanza. Il colonnello Pascucci. Lo fa il 14 luglio in un Palazzo di Giustizia vuoto insistendo sulla “necessità” di quelle indagini. La moglie del colonnello stranamente viene avvicinata per strada, qualcuno le dice in siciliano “signora raccomandi al comandante di non approfondire troppo le indagini”. Chi ha avvisato i compari della delicata inchiesta che puntava a scoprire i mandanti dell’assassinio Mattarella? Qualcuno a Palazzo di Giustizia? Non ci sono prove in tal senso. Una sola è la certezza. Contro ogni logica dopo l’omicidio Costa il colonnello Pascucci viene trasferito. Il colonnello Pizzuti testimonierà al processo Costa che la P2 si era preoccupata della vicenda considerato che il comandante nazionale delle Fiamme Gialle dell’epoca più che alla Repubblica rispondeva agli interessi di Licio Gelli. Un altro sconcertante fatto è certo. La Guardia di Finanza non completerà mai quell’indagine bancaria disposta su tutto il territorio nazionale.
Ma già prima dell’incarico a Pascucci si registra un particolare insolito nella carriera del magistrato. In 36 anni non ha mai parlato di vicende d’ufficio in famiglia. Invece ad un mese dal suo omicidio, Costa alla moglie e al cugino Aldo, giornalista dell’Ora, comunica che ha chiesto un rapporto di polizia sulle scuole e sui vincitori dell’appalto. Qualcuno ha anche dato un’indicazione di massima dicendo che la vicenda ruota attorno al politico democristiano Vito Ciancimino.
La signora Rita intuisce che il marito ha voluto lasciare una testimonianza per un fatto più grave del solito e infatti quel giorno non si reca ad un matrimonio dove era stata invitata assalita da tristi presagi. Costa ormai cammina sull’orlo di un precipizio. E’ ansioso di avere in mano gli esiti delle indagini ordinate alla Guardia di finanza. La moglie preoccupata chiede al marito, in quei drammatici giorni, se ha avuto notizie da Pascucci, ma il magistrato risponde che “è ancora troppo presto”.
Il 6 agosto del 1980 la famiglia Costa è alla vigilia della partenza per le vacanze a Vulcano. In mattina è stato in Procura. Poi uno sguardo ai funerali delle vittime della strage di Bologna. Le valige delle vacanze sono già pronte. Il giudice è sdraiato sul divano prima della sua ultima passeggiata. La moglie, evidentemente in grand’allarme, torna a chiedere di quel rapporto. “Penso che me lo consegneranno dopo che torno da Vulcano” risponde il procuratore. Ma a Vulcano Costa non arriverà mai. Un sostituto che aveva la foto del giudice sul tavolo aveva ben pensato di scriverci sopra “Vi sono uomini di cui si può comprare solo la morte”. Il giudice che aveva scelto di camminare sull’orlo del precipizio non voleva la scorta. Aveva detto a proposito “Vi sono uomini che hanno diritto di avere paura ed altri che hanno il diritto del coraggio”. Non c’è dubbio che Costa avesse coraggio. A quel tempo era l’unico magistrato che aveva diritto alla scorta e all’auto blindata, ma non la voleva utilizzare per non mettere a repentaglio la vita di nessuno. Il questore Nicolicchia, che ha sostituito Immordino, quello del rapporto che è andato in pensione, contro il volere del magistrato, per predisporre, in occasione della partenza, un rigido sistema di vigilanza. Nessuno ha previsto il servizio di scorta per il ritorno da Vulcano. In quella calda sera del 6 agosto nel centro di Palermo non si vedono divise in giro. La rabbia e la teoria del complotto nel corso del tempo farà arrovellare sul fatto che il capo della Mobile a Palermo fosse Impallomeni, altro iscritto alla solita P2 di Gelli. Il senatore Amintore Fanfani avrà parole di grande biasimo nei confronti delle forze dell’ordine per non aver saputo tutelare il procuratore della Repubblica di Palermo.
Dopo aver risposto alla moglie su quel rapporto Tano Costa si alza e si veste. Esce per far scorta di libri da leggere durante le vacanze. La direzione è verso la vicina bancarella di via Cavour, vicino al Supercinema Excelsior, a due passi dalla birreria Italia e dalla Banca d’Italia. Sono le 19. Costa è solito far questa visita per trovare qualche lettura di buon gusto. Arriva sul posto alle 19,15. Il solito sguardo ai titoli, la richiesta di un giallo che sfoglia con interesse. Commento sul prezzo e qualche chiacchiera con il libraio Angelo Panarello. C’è anche un altro signore che curiosa al banco. Sono le 19,23. Gaetano Costa è solo su quel marciapiede. Come solo era rimasto a Palazzo di Giustizia fidandosi soltanto di Rocco Chinnici. Un giovane smilzo scende da un A112 e gli va incontro con andatura veloce. In macchina resta l’autista. L’auto bruciata verrà poi trovata dietro la chiesa di San Domenico. Il killer punta e spara per due volte. Poi il colpo di grazia. Ma non muore Gaetano Costa con quei tre proiettili ad espansione di fabbricazione americana esplosi da un revolver Smith e Wesson. Costa è un giudice solo. Irriconoscibile scrive Saverio Lodato. Con il volto scavato, gli occhiali in frantumi, zeppo di sangue. Tanto sangue. Costa è vivo. Resta per 20 minuti su quel marciapiede. Arriva una pantera ma nessuno lo trasporta in ospedale. L’ambulanza tarda ad arrivare. Ci vuole un’ora per sapere che a Palermo per la terza volta hanno ucciso un magistrato. L’autopsia dirà che nessuna ferita era mortale. Ma Costa è morto alle 20,11. In molti hanno risolto i loro problemi.
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