mercoledì 23 maggio 2012

la strage di Capaci

23 Maggio 1992 ore 17:58 Strage di Capaci

Giovanni Falcone 53 anni, magistrato
Francesca Morvillo 46 anni, magistrato
Antonio Montinaro 30 anni, poliziotto
Vito Schifani 27 anni, poliziotto
Rocco Di Cillo 30 anni, poliziotto



Diventare eroi è un brutto affare.
Primo, perché implica che sei morto, e secondo perché chiunque può appropriarsi del tuo nome, e usarlo come più gli piace, senza che tu possa fare o dire nulla per impedirglielo.

Giovanni Falcone non era un eroe, ma era un uomo normale, che aveva scelto di fare il magistrato. Aveva scelto quindi una professione al servizio dello Stato. E per tutta la vita si considerò proprio un servitore dello Stato, anche quando quello Stato lo abbandonò e lo perseguitò.
Un magistrato che riteneva che l’indipendenza della magistratura non fosse un privilegio, ma un presupposto democratico indispensabile e come tale costituiva per i magistrati stessi un pesante fardello da portare al meglio, al servizio di tutti.
Ma Falcone fu anche un uomo solo, molto solo, isolato dalla sua stessa rettitudine e integrità.
Un eroe, non avrebbe mai voluto diventarlo.

A sentirne parlare ora sembra che la sua vita sia stata un susseguirsi inarrestabile di successi, fino alla sua morte prematura per mano di mafia. E invece non fu affatto così, anzi, fu tutto il contrario, al punto che un giornalista (Mario Pirani, 26 Maggio 1992, Repubblica) lo paragonò ad Aureliano Buendìa – protagonista di Cent’anni di solitudine di Garcia Marquéz – che combatté trentadue battaglie e le perse tutte.
Ricordiamole.

Arrivò a Palermo nel 1980 proveniente da Trapani, e fu presto chiamato all’ufficio istruzione dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, che gli affidò il suo primo processo di mafia, il processo Spatola. Quasi contestualmente, cominciò a vivere sotto scorta.

Non fatevi idee romantiche, da film poliziesco: vivere sotto scorta è un inferno. Non puoi fare una passeggiata al parco, non puoi andare al cinema (a meno di sottostare allo snervante rito di parecchie file svuotate per permetterti di assistere allo spettacolo), non puoi andare a far compere, o a fare il bagno in mare (racconta Ayala che una volta Falcone si spinse troppo al largo e la scorta stava già chiamando la guardia costiera per controllarlo). Se vuoi andare a fare una nuotata in piscina devi chiedere che te le aprano apposta alle 7 del mattino, e andarci quando è completamente vuota. Aggiungete a tutto questo lo stress continuo della paura. No, non credo proprio sia una vita invidiabile.

Chinnici credeva nel suo giovane collaboratore, e lo difese da chi gli chiedeva di renderlo inoffensivo (dagli tanti processi piccoli così smette di rompere quel Falcone, si sentì suggerire). Chinnici fu ucciso sotto casa sua da un’autobomba, per mano di mafia, il 29 Luglio 1983. Palermo come Beirut, titolarono i giornali.

Il Consiglio Superiore della Magistratura nominò consigliere istruttore di Palermo Antonino Caponnetto, che andava a sostituire il magistrato ucciso. Caponnetto, usando un sistema già sperimentato dai giudici che si erano occupati di terrorismo, creò un pool di magistrati al fine di consentire a più persone di lavorare sullo stesso sterminato processo e di evitare contemporaneamente che i singoli giudici venissero identificati e isolati. In altre parole: informazioni condivise, lavoro di gruppo. Quello fu il pool che istruì il maxiprocesso: ne facevano parte oltre a Falcone, Borsellino, Di Lello e Guarnotta.

Quegli anni, costellati da omicidi di tanti servitori dello stato che collaboravono con il pool, due fra tanti quelli del commissario Beppe Montana (ucciso il 25 Luglio 1985) e del vice capo della squadra mobile di Palermo Ninni Cassarà (ucciso il 6 Agosto 1985), furono anche gli anni della giunta Orlando e della primavera di Palermo. Una manciata di anni in cui sembrò possibile sconfiggere la mafia, nonostante i lutti.

La tregua si ruppe più o meno nel 1987.
Il 10 Gennaio 1987 il Corriere della sera pubblicò un articolo di Sciascia intitolato I professionisti dell’antimafia. Tanto è stato detto di questo articolo sicuramente infelice, che criticava essenzialmente la scelta del Csm di nominare Borsellino procuratore di Marsala non in virtù della sua anzianità ma in virtù della sua esperienza, modificando di fatto le regole seguite fino ad allora. Certo è che quell’articolo, al di là delle intenzioni dello scrittore (che tempo dopo si spiegò con Borsellino), fu usato e abusato da tutti coloro cui il pool stava scomodo.

Il 19 Gennaio 1988 il Csm nominò Antonino Meli consigliere istruttore di Palermo, in sostituzione di Caponnetto che aveva fatto domanda di tornare a Firenze, convinto di lasciare l’ufficio in mano a Falcone. La motivazione della scelta di Meli? La maggiore anzianità.
Il nuovo consigliere istruttore smantellò il pool in pochi mesi: all’insegna dello slogan “tutti si devono occupare di tutto” tolse ai giudici esperti di mafia i processi e frantumò le istruttorie riguardanti Cosa nostra rendendole tanti processi a sé stanti senza alcun legame. Meli e Falcone si scontrarono spesso, in quei mesi.
Il 20 Luglio 1988 (quindi appena sette mesi dopo la nomina di Meli) Borsellino denunciò in un’intervistapubblicata in contemporanea da L’Unità e Repubblica (giornalisti Lodato e Bolzoni), lo smantellamento del pool. Intervenne il capo dello stato, Francesco Cossiga, chiedendo al Csm di approfondire. Ne seguì una serie di audizioni alle quali Falcone si presentò con una dichiarazione scritta di quattro cartelle in cui denunciò “l’inceppamento delle istruttorie di mafia”, rassegnando le sue dimissioni.
Il Csm, salomonico, ignorò le denunce di Borsellino e respinse le dimissioni di Falcone, inscenando una sceneggiata pacificatrice fra il giudice e il suo consigliere istruttore.

Il 10 Luglio 1988 Domenico Sica fu preferito a Falcone per il ruolo di alto commissario per la lotta alla mafia.

Il 20 Luglio 1989 venne sventato un attentato contro Falcone: sugli scogli antistanti la casa che aveva preso in affitto per l’estate, all’Addaura, gli uomini della scorta rinvennero una borsa piena di 58 candelotti esplosivi.
È il culmine dell’estate del Corvo, come fu chiamato l’autore di lettere anonime (qui ne trovate una) che furono rese pubbliche proprio dopo il fallito attentato. Sono lettere circostanziate, piene di nomi, che mirano a delegittimare e isolare il giudice. In sostanza, l’anonimo accusava Falcone e il prefetto Gianni De Gennaro di avere usato in maniera spregiudicata il pentito Salvatore Contorno, e di averne fatto un killer di stato.

Se vi sembra molto avete ragione: ma è solo l’inizio. Da qui in poi, fino alla sua morte, fu una pioggia continua di critiche e di maldicenze. Tanto che disse a Nando Dalla Chiesa: “Mi stanno seviziando”.

Lo accusarono di protagonismo.
Lo accusarono di voler usare l’antimafia per fare carriera.
Lo accusarono di essere un giudice a orologeria, che fa politica con i processi.
Lo accusarono di un uso spregiudicato e scorretto dei pentiti.
Lo accusarono di voler rendere il pool un centro di potere.
Lo accusarono di avere inscenato il fallito attentato, per pubblicità e protagonismo, per potersi atteggiare a martire.
Lo accusarono – lo fece Leoluca Orlando, il suo amico Leoluca Orlando – di evitare di indagare le collusioni fra mafia e politica, di tenere “le carte nei cassetti”.

Ma ancora non basta.
Dopo l’attentato il Csm lo nominò procuratore aggiunto a Palermo, sotto la direzione di Pietro Giammanco. Come fosse il suo lavoro sotto di lui Falcone lo scrisse in una serie di appunti che consegnò alla sua amica giornalista Liana Milella del Sole 24 ore e che furono pubblicati postumi. Credo sia significativo ricordare che Borsellino, in un intervento pubblico in occasione del trigesimo di Capaci, attestò l’autenticità di quegli appunti, per evitare che qualcuno potesse avanzare dubbi (lo stavano già facendo).
Sono appunti che raccontano di un clima lavorativo insostenibile, di un Giammanco che segue passo passo Falcone negandogli di fatto ogni autonomia, che lo fa perfino controllare.
In quel periodo Falcone fu convinto da un amico magistrato a candidarsi al Csm. Ma il giudice si rifiutò di fare campagna elettorale, convinto che i fatti contassero più delle parole. “Mi conoscono” – diceva all’amico – “sanno chi sono. Se vogliono mi votano, sennò arrivederci”.
Serve dire che non fu nominato per una manciata di voti?

Siamo a inizio 1991. Falcone non ce la fa più, non riesce a lavorare e decide quindi di accettare la proposta del neo ministro della giustizia Martelli e di andare a Roma, a ricoprire il ruolo di direttore degli affari penali.
Non era contento Falcone di questa scelta: lui amava fare il magistrato e quello avrebbe voluto continuare a fare.
Lì, in quell’ufficio, Falcone cercherà di riprendere la lotta interrotta, dotando finalmente lo Stato dei mezzi che egli ritiene indispensabili per combattere la criminalità organizzata. Parliamo di una legge premiale per i collaboratori di giustizia, della DIA (direzione investigativa antimafia), delle DDA (direzioni distrettuali antimafia) e della DNA (direzione nazionale antimafia) per favorire la circolazione delle informazioni tra le forze dell’ordine e fra le varie procure, parliamo della tanto criticata Superprocura.

La sua “contiguità” con il potere divenne occasione di rinnovati attacchi: da giudice comunista divenne giudice socialista, si disse che i pentiti – soprattutto Buscetta – parlassero solo dietro suo comando.
Quando finalmente la superprocura fu istituita Falcone si candidò: era fatta su misura per lui, per altro. Questa fu l’unica bocciatura che non fu costretto a subire: morì infatti prima che il Csm potesse votare la nomina, ucciso da quella mafia che aveva combattuto così a lungo.

In un lungo libro intervista, Cose di Cosa Nostra, Falcone aveva dichiarato alla giornalista Marcelle Padovani:
“Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."

La storia di questo giudice è emblematica, e dovrebbe farci riflettere tutti. Falcone era abituato a far parlare i fatti e a giudicare gli altri in base alle loro azioni. Questo lo rese completamente indifeso contro le malignità e le invidie, che gli resero la vita impossibile.

Perché quello che c’è di più triste in questa storia è che i nemici di Falcone non furono solo mafiosi ma furono prima di tutto uomini politici, giornalisti, colleghi magistrati. Chi era mosso dalla volontà di salvaguardare interessi personali, chi dal desiderio di fare politica con l’antimafia, chi da semplice invidia. Gli stessi uomini politici, giornalisti e colleghi che adesso lo esaltano e lo portano come esempio.

La mafia non ebbe bisogno di isolare Falcone, fecero tutto i suoi detrattori incapaci persino di concepire che potesse esistere una persona per cui lo Stato e la sicurezza dei suoi cittadini veniva davvero prima di tutto.

Lo ricoprirono di fango e il fango a lungo andare, imbratta.
Anche se è appunto solo fango. Imbratta eccome.
Anzi, a Palermo, uccide.