domenica 27 maggio 2012

i fasci siciliani

Per capire meglio il quadro in cui si inserisce l'omicidio di Milisenna, vi racconto un po’ di storia dell’organizzazione della Sicilia.

Oltre cento anni fa (nel 1893) nelle campagne e nelle città di Sicilia, contadini, artigiani, intellettuali, ma soprattutto donne e uomini di ogni età, cominciarono ad unirsi nei Fasci dei Lavoratori, nel tentativo di sconfiggere la rassegnazione, di sfidare la mafia dei gabelloti ed il potere dello Stato che affamava la povera gente lavoratrice. […]
I Fasci siciliani furono tragicamente repressi dai mafiosi locali e dal governo nazionale. Si contarono più di cento morti, diverse centinaia i feriti e oltre tremila cinquecento rinchiusi nelle patrie galere. Per comprendere perché i fasci ebbero una tale diffusione nei centri rurali basta considerare le condizioni in cui versava, a trent'anni di distanza dalla forzata Unità, la classe contadina. In Sicilia giunse in ritardo, anche rispetto al Mezzogiorno continentale, la promulgazione delle leggi eversive della feudalità e, quando giunsero, queste leggi non vennero applicate per molto tempo. Benché i feudi fossero stati trasformati in allodi, cioè in proprietà private, non ci fu la formazione di una classe di piccoli e medi proprietari. Le terre vendute dai baroni in dissesto finanziario finirono per ingrandire ulteriormente i latifondi di altri ex-feudatari e di gabelloti arricchiti. Il latifondo, quindi, continuava a caratterizzare l'agricoltura e la struttura sociale siciliane. Inoltre, le condizioni dei contadini erano peggiorate per la perdita, in seguito all’eversione della feudalità, dei diritti comuni e degli usi civici.
La situazione non mutò, anzi s'è possibile, peggiorò dopo la forzata unità d'Italia: Infatti, "la censuazione dei demani pubblici e dei beni ex-ecclesiastici non intaccò minimamente il latifondo" (M. Ganci, 1977), al contrario, contribuì a rafforzarlo poiché i terreni, concessi in enfiteusi o venduti, furono in massima parte accaparrati dai grandi proprietari terrieri e dai gabelloti.
La figura del gabelloto era nata alla fine del XIX secolo in seguito alla tendenza dell'aristocrazia siciliana di trasferirsi nella città di Palermo, cedendo le terre dell'interno, dietro pagamento di una gabella, a degli affittuari che vennero, per questo, chiamati gabelloti. Il mercato delle gabelle, nella Sicilia centro-occidentale, era in gran parte controllato e gestito, da organizzazioni mafiose e molti gabelloti, erano affiliati a queste organizzazioni, così come lo erano i "soprastanti", uomini di fiducia dei gabelloti, ed i "campieri", i quali costituivano una sorta di polizia privata del feudo. I gabelloti, a loro volta, subaffittavano le terre ai contadini, ad un canone di gran lunga superiore alla gabella che erano tenuti a pagare ai proprietari. Essi speculavano sullo stato di bisogno dei "villani"; inoltre, spalleggiati dai campieri e dai soprastanti, ricorrevano alla violenza per tenere assoggettati i contadini e per far desistere i proprietari da eventuali aumenti degli affitti. Fu con questi sistemi che i gabelloti riuscirono ad accumulare il denaro che permise loro di acquistare le terre degli ex-feudatari e di partecipare alle aste dei beni ecclesiastici, impedendo di fatto la redistribuzione delle terre. Fu con questi sistemi che i gabelloti riuscirono ad accumulare il denaro che permise loro di acquistare le terre degli ex-feudatari e di partecipare alle aste dei beni ecclesiastici, impedendo di fatto la redistribuzione delle terre. […]
Trent'anni dopo l'Unità d'Italia, e cioè nel periodo in cui cominciarono a sorgere i primi Fasci dei lavoratori, i rapporti sociali e di lavoro nel latifondo erano ancora basati sulle seguenti classi: i grandi proprietari terrieri; i gabelloti; i borghesi; i coloni; ed i giornalieri agricoli. I borghesi erano i piccoli e medi proprietari, cioè coloro che, in qualche modo, erano riusciti ad acquistare qualche ettaro di terra, in seguito al processo di vendita dei beni della Chiesa. Le condizioni dei borghesi erano difficili per via delle numerose tasse che li costringeva a ricorrere a prestiti usurari. I piccoli proprietari finivano pertanto col prendere a mezzadria altri terreni ed a dipendere, anch'essi, dall'economia del latifondo. La maggior parte dei grandi proprietari, come abbiamo già detto, preferiva cedere la propria terra, ai gabelloti. Costoro la subaffittavano ai coloni, sottoponendoli a contratti iniqui ed angarici. Ipatti colonici più diffusi, alla fine dell'Ottocento, nella Sicilia del latifondo erano la mezzadria, o metaterìa, ed il terratico. Con la mezzadria il proprietario o il gabelloto metteva a disposizione del colono la terra e anticipava le sementi, mentre il colono era tenuto a fare tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva ripartito con vari sistemi. Nonostante le diverse varianti, alla base del contratto di mezzadria c'era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario o, più spesso, del gabelloto. Il contadino dell'interno, e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, era infatti indebitato in permanenza col gabelloto. Inoltre il contratto era verbale, cosa che dava adito ad abusi da parte del gabelloto. Della sua quota, il mezzadro doveva cederne una parte che il gabelloto distribuiva tra i campieri. Questi donativi erano in realtà tributi che il contadino pagava in cambio di protezione. Il terratico era, per il contadino, ancora più pesante e svantaggioso di quello di mezzadria. Mentre in quest'ultimo contratto il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva corrispondere al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dalla buona riuscita del raccolto.[…] Il terratico fu imposto sempre più diffusamente nel corso del XIX secolo, in seguito alla liberalizzazione della proprietà dai vincoli feudali, e all'instaurarsi di una certa concorrenza tra i nuovi proprietari o tra i nuovi possessori. […]Infine c'erano i braccianti, la classe la più numerosa dei contadini siciliani, i più poveri che non possedevano nulla e venivano impiegati nei periodi dell'anno dedicati alla semina ed alla raccolta del grano. I salari erano bassissimi in quanto, a causa del sistema della gabella e del subaffitto, spesso coloro che li pagavano erano anch'essi poveri. […]

Dal 1944 e nell’immediato dopoguerra i sindacalisti e i membri dei partiti di sinistra si impegnarono nella lotta al fianco dei contadini, questa lotta portò fra le loro file una scia impressionante di morti, di cui Santi Milisenna è un rappresentante.

Poco tempo dopo la sua morte, per la precisione il 16 Settembre 1944, Girolamo li Causi, segretario del partito comunista siciliano, giunse a Villalba, in provincia di Caltanisetta, per tenervi un comizio.
in Sicilia Li Causi aveva lanciato l’offensiva per la libertà e la democrazia. […]Nell’isola, i nemici erano gli agrari e i mafiosi, sfruttatori dei contadini poveri. E Villalba, nel cuore della Sicilia interna, non era un paese come tutti altri, ma «la patria» del potente capomafia don Calogero Vizzini. Giunto in piazza Duomo, dove avrebbe dovuto parlare ai contadini, Li Causi la trovò quasi vuota e presidiata da mafiosi appoggiati ai muri o raggruppati davanti la sezione della Democrazia cristiana, il cui segretario era Beniamino Farina, sindaco del paese e nipote di «don» Calò. L’anziano capomafia aveva fatto sapere che Li Causi poteva benissimo tenere il suo comizio, «purché non si toccassero gli argomenti della terra, del feudo e della mafia, purché, soprattutto, nessuno dei contadini venisse in piazza ad ascoltarlo». E, per verificare che il leader comunista rispettasse «i patti», don Calò si fece trovare «in mezzo alla piazza, con un bastone in mano», mentre i contadini, intimoriti, «restavano fuori, lontani, nelle loro strade, dietro le finestre o sulle porte». Ovviamente, era impensabile che Li Causi accettasse simili imposizioni. Ed infatti, egli sottolineò subito «la funzione parassitaria del gabelloto, sfruttatore dei contadini, con un linguaggio che sembrava scaturito dalla bocca stessa della famiglia contadina [...]», avrebbe scritto in degli appunti autobiografici. E la reazione dei mafiosi non si fece attendere. Cominciarono in modo continuo e provocatorio ad interrompere il comizio. Ma, intanto, il linguaggio semplice di Li Causi e i contenuti coraggiosi del suo discorso, che tanti ascoltavano da dietro le finestre, suscitarono un crescente consenso tra i contadini, al punto da convincerli ad entrare nella «piazza proibita». Contemporaneamente, alcune anziane donne cominciarono a spalancare le finestre e i balconi delle loro case, dicendo «Vangelo è!». «Così essi - ancora secondo Carlo Levi - rompevano il senso di una servitù antica, disubbidivano, più che a un ordine, all’ordine, alla legge del potere, distruggevano l’autorità, disprezzavano e offendevano il prestigio». A quel punto, «un comunista di Caltanissetta invitò don Calò al contraddittorio, ma ricevette come risposta una bastonata, che segnò l’inizio dell’aggressione armata», ha scritto Gabriella Scolaro nella sua «Storia del movimento antimafia siciliano». Infatti, «fu proprio allora che si scatenò il terrorismo mafioso: contro il palco e la folla che aveva circondato [il dirigente comunista] furono lanciate cinque bombe a mano (una delle quali fu sicuramente lanciata dal sindaco) ed esplosi numerosi colpi di pistola. I feriti furono quattordici: fra questi Girolamo Li Causi, colpito ad un ginocchio […]». Poteva essere la strage di Villalba. Fortunatamente, fu solo una tentata strage, il «battesimo di fuoco» di Girolamo Li Causi in terra di Sicilia. Infatti, quel giorno, il leader comunista poté constatare personalmente con quale feroce determinazione gli agrari e la mafia erano disposti a difendere i loro privilegi.
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